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La libertà di espressione nell’era dei social network

3 Aprile 2018 12 min lettura

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La libertà di espressione nell’era dei social network

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Il relatore speciale dell’ONU per la tutela della libertà di espressione ha di recente presentato, in un comunicato del 20 marzo, una serie di critiche all’iniziativa del governo italiano in materia di "fake news". Valigia Blu già aveva evidenziato alcuni punti critici dell’iniziativa (che comunque sembra abbandonata). Si tratta di una questione interessante soprattutto con riferimento al problema più ampio della libertà di manifestazione del pensiero e dei suoi confini. Infatti, David Kaye sostiene di temere che le restrizioni sulle fake news possano essere in contrasto con i criteri di legalità, necessità e proporzionalità previsti dalle Convenzioni internazionali a tutela della libertà di espressione.

Termini vaghi, definizioni fumose, un generico potere di valutazione e controllo delle opinioni in mano al potere politico, sono tutti elementi che non depongono bene per un paese che davvero tiene alla democrazia. Perché il punto alla fine è proprio questo.

Libertà di manifestazione del pensiero

Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – Articolo 10 – Libertà di espressione:

1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario.

È con l’art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, del 26 agosto 1789, che si definisce la libertà di manifestazione del pensiero come “uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”. Poi verranno, negli anni, numerose Convenzioni e trattati internazionali, a tutela di questa libertà.

La libertà di manifestazione del pensiero è una libertà nata come scommessa sull’uomo nuovo “illuminato”, un uomo capace non solo di produrre informazioni, ma che siano utili al punto da dover essere condivise col resto della società, un uomo capace di comprendere adeguatamente le informazioni che riceve e regolarsi di conseguenza.

La libertà di manifestazione del pensiero, quindi, sposta il baricentro della società. Se prima le “opinioni” che contavano per lo sviluppo e la crescita della società erano solo quelle dell'élite dominante (politica, economica….), con la libertà di manifestazione del pensiero le opinioni che contano diventano quelle di tutti. La libertà di manifestazione del pensiero è l’espressione più pregnante del principio personalista (riconosciuto nell’articolo 2 della Costituzione, che evidenzia che è lo Stato a servire il cittadino, e non viceversa), e costituisce un valore centrale nell’ordinamento costituzionale (sent. Corte Cost. 9/1965) purché si attui il principio democratico (riconosciuto dall’art. 1).

Some people’s idea of free speech is that they are free to say what they like, but if anyone says anything back, that is outrage.
L’idea di alcune persone della libertà di parola è che sono liberi di dire quello che vogliono, ma se qualcuno gli risponde, lo considerano oltraggio (Winston Churchill).

Dimensione antagonista

Tale libertà si caratterizza immediatamente per una specifica dimensione politica e antagonista, perché non ha alcun senso tutelare le opinioni comunemente accettate nella società. Quelle davvero da difendere sono le opinioni critiche, antitetiche, insomma il dissenso, politico e sociale principalmente. Anche quando tale dissenso è forte, aspro, purché non scaturisca in vera e propria violenza. Ed è pacificamente l’esperienza storica che traccia il limite e la scala dei valori bisognosi di protezione. Questo perché il dibattito politico è il cuore pulsante di ogni società democratica, ed è dal dialogo, dal contrasto e dalla critica, anche accesa, che consegue la crescita sociale.

L’unico modo di far crescere la società e migliorarla è porre in dubbio i suoi valori, le sue procedure, le sue regole, discuterne. Se, invece, la società vietasse di porre in discussione le idee dominanti, impedendo qualsiasi dissenso, finirebbe per inaridirsi.

Free speech is meant to protect unpopular speech. Popular speech, by definition, needs no protection.
La libertà di espressione ha lo scopo di proteggere i discorsi impopolari. Quelli popolari, per definizione, non necessitano di tutela. (Neal Boortz)

L’essenza della libertà di manifestazione del pensiero sta, in fin dei conti, nel consentire a un soggetto di esprimere la propria personalità all’interno della società, quindi di partecipare al dibattito politico e sociale non solo in senso formale ma sostanziale. È una libertà riconosciuta al cittadino in quanto membro di formazioni sociali.

Ecco perché le limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero devono essere tassativamente previste per legge, non affidate a policy di aziende o a codici di condotta (che comunque delegano alle aziende), né attuate tramite un controllo politico basato su definizioni fumose. Una delle caratteristiche essenziali di una società democratica, infatti, è il controllo delle azioni (od omissioni) del governo da parte, non solo delle autorità giudiziarie, ma anche dell’opinione pubblica. Ecco perché la libertà di manifestare le proprie opinioni è essenziale in una società democratica.

Ovviamente, occorre tenere presente che la libertà di manifestazione delle opinioni ha dei confini ben definiti, in quanto non può andare a tutelare ciò che si pone in contrasto con la stessa libertà e con la democrazia. Tutto ciò, infatti, che mira a cancellare la democrazia, come le ideologie totalitarie condannate dalla storia (è la storia che crea la scala dei valori da tutelare), non può in alcun modo essere tutelato in base alla libertà di espressione. Quindi, non tutte le opinioni sono tutelabili, ma solo quelle che non mirano a sovvertire la democrazia o a cancellare la libertà di manifestazione del pensiero.

Libertà dell’individuo

Il punto essenziale è che tale libertà è connaturata all’individuo. È volta a consentire al cittadino di partecipare alle decisioni della sua comunità, una libertà che pone in evidenza la dimensione sociale del singolo e il suo diritto di far conoscere le proprie idee. Quando si parla di libertà di informare, quale aspetto attivo della libertà di manifestazione del pensiero, infatti, non si fa riferimento all’informazione professionale e alla stampa, ma specificamente alla libertà del singolo di partecipare al dibattito pubblico, essenziale a sua volta per l’esercizio della sovranità popolare (che non è limitata al solo voto in cabina elettorale).

È quello che ci ha ricordato anche la Suprema Corte italiana con la sentenza 16236 del 2010, nella quale ha evidenziato l'aspetto “passivo” di tale fondamentale libertà, statuendo che solo il cittadino correttamente informato può compiutamente esercitare la sovranità popolare.

La libertà di manifestazione del pensiero, quindi, si suddivide in due aspetti. L’aspetto attivo è dato dalla libertà di manifestare le proprie opinioni, ed è connaturato all'individuo (non alle aziende). Poi vi è l’aspetto passivo, cioè il diritto ad accedere alle informazioni, che implica un flusso libero delle informazioni.

To suppress free speech is double wrong. It violates the rights of the hearer as well as those of the speaker.
Sopprimere la libertà di parola è doppiamente sbagliato. Viola i diritti dell'ascoltatore ma anche quelli di chi parla. (Frederick Douglass)

In tale prospettiva ricordiamo che la tutela dei dati personali (data protection) è un limite esterno alla libertà di manifestazione del pensiero, un diritto che tende ad avere una espansione notevole in Europa, specialmente con riferimento al diritto all’oblio. Infatti, la famosa sentenza della Corte di Giustizia europea (del 13 maggio del 2014, caso C-131/12), non è tanto il punto di avvio del diritto all’oblio (del quale se ne parlò già con un rapporto dell’ENISA del 2012), quanto piuttosto una soluzione pratica, perfettamente in linea con quanto suggerito dall’ENISA, che impone dei paletti ben precisi, rispetto alla giurisprudenza dei singoli Stati nazionali, ad un diritto che appariva dotato di una capacità espansiva preoccupante.

Mass media

Gli Stati nazionali, specialmente quelli europei che sono fondamentalmente paternalisti, hanno sempre ritenuto pericoloso un mezzo di comunicazione che entra in tutte le case, e che potenzialmente è in grado di influenzare lo sviluppo della personalità di un individuo. Per questo motivo i mass media nascono come media regolamentati, e ad accesso controllato. Numerose sono le norme e gli oneri imposti ai media. Pensiamo alla televisione che nasce come media esclusivamente statale. Solo poi verrà liberalizzato.

I vecchi media, però, sono in mano a élite (gli editori) che ne controllano la gestione. Si tratta, in fin dei conti, di strumenti non proprio democratici, perché pongono in ristrette mani il controllo dell’intero flusso informativo nazionale. Da cui le ovvie esigenze di regolamentazione statale.

Però i governi hanno da sempre necessità di controllo dell'informazione a fini di consenso dei governati, quindi una commistione di interessi porta ad una specifica regolamentazione dei vecchi media. Gli Stati si riservano il controllo finale dell’informazione intervenendo in casi specifici (le restrizioni previste per legge), e tale controllo viene esercitato tramite gli editori, i quali a loro volta vengono (in cambio) lasciati liberi di esercitare limitati poteri tramite i media a propri fini privati. Questo è evidente soprattutto nel campo televisivo dove la concentrazione di potere è maggiore rispetto alla stampa (altro che pluralismo).

Internet

Internet, invece, trasforma un mezzo di comunicazione personale (la rete telefonica) in un mezzo di diffusione globale delle informazioni. In tal modo si porta a compimento la democratizzazione della libertà di manifestazione del pensiero che, se prima era solo potenziale, cioè riservata a pochi eletti, oggi è estesa a tutti a costi bassissimi. Chiunque tramite un blog, o più semplicemente tramite un social network, può esercitare effettivamente tale libertà.

Con Internet, inoltre, si democratizza anche l’aspetto passivo, cioè il diritto all’informazione, laddove un primo passo si era realizzato con l’invenzione della stampa da parte di Gutenberg (anche se all’epoca i libri costavano troppo per la maggioranza dei cittadini).

La libertà di informazione è, però, una libertà costosa. Perché implica che gli Stati debbano rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’attuazione. Quindi, dal diritto ad essere informati discende che ragionevolmente possano essere imposti alle imprese obblighi di diffondere informazioni e garantirne l’accesso (pensiamo alle minoranze, o ai disabili – esempio: obbligo di diffondere informazioni nel formato recepibile dai ciechi –). Inoltre, gli Stati dovrebbero accollarsi oneri di alfabetizzazione dei cittadini, consentendo a questi ultimi di padroneggiare le nuove tecnologie, in modo da poter esercitare, attraverso di esse, i loro diritti fondamentali e partecipare attivamente alla vita pubblica.

L'aspetto più rilevante, però, è che con l’avvento delle nuove tecnologie gli editori perdono il controllo dell’informazione. Non sono più i gatekeeper dell’accesso alle informazioni, anzi essi  stessi devono correre dietro alle nuove piattaforme del web elemosinandone parte del traffico. E, di conseguenza, anche i governi perdono il controllo delle informazioni che esercitavano tramite gli editori.

Il ruolo degli editori è sempre stato particolare, nel senso che pur gestendo un mass media antidemocratico, di fatto si facevano scudo, grazie ad una confusione tra contenuto e contenitore, dei diritti fondamentali. Gli editori hanno sempre sostenuto di esercitare la libertà di manifestazione del pensiero, e che quindi la loro attività va tutelata. Così ottenendo prerogative ed estendendo le tutele delle opinioni al contenitore (giornale, tv) di tali opinioni (contenuto). Da ciò sono discese delle prospettive erronee, come l’idea che ogni forma di opinione vada tutelata in quanto espressa su un mass media. In realtà la libertà di manifestazione del pensiero è connaturata al singolo e non all’attività aziendale, all’informazione professionale.

È lo stesso errore che si ritrova in molte voci a tutela dell'industria del copyright. Anche lì le aziende sostengono di esercitare i diritti fondamentali, e di tutelare gli artisti. Ma non è così. Come asserì argutamente il relatore ONU per i diritti culturali, Farida Shaheed, nel campo della proprietà intellettuale i diritti fondamentali sono i diritti morali, che non sono trasmissibili. Per cui l’artista cede all'azienda solo i diritti economici, e quindi l’industria del copyright non può in alcun modo parlare in difesa dei diritti fondamentali degli artisti, al massimo dei propri diritti economici.

Eppure, invocando tali tesi strumentali si sono attuate numerose leggi che impongono restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero (vedi riforma direttiva copyright), dimenticando che i diritti economici delle aziende sono al di sotto della libertà di espressione nella scala dei valori di una società democratica.

Allo stesso modo l’industria dell'informazione non esercita la libertà di manifestazione del pensiero, casomai la diffonde, da cui la sua tutela può essere solo derivata, di riflesso. Non bisogna mai dimenticare, quindi, che la libertà fondamentale, di manifestazione del pensiero, è connaturata al singolo individuo, al cittadino. Eppure, quando si stilano codici di condotta in materia di "fake news" e di hate speech, o si redigono norme a tutela del copyright che impongono sistemi di filtraggio, tali norme e regolamentazioni incidono immancabilmente sui contenuti immessi online dai singoli cittadini (es. regole sulle "fake news").

Paradossalmente proprio nel momento in cui la libertà di manifestazione del pensiero diventa effettivamente (e non solo potenzialmente) esercitabile, tramite Internet, gli Stati, ipocritamente mettono da parte tale libertà (oggi quando gli Stati discutono di tutela dei diritti fondamentali più che altro è per interferire verso gli altri Stati) imponendo a più riprese una serie di regolamentazioni che tendono a ridurne i confini, quasi a cercare di rimodellare Internet come una grande televisione, cioè ad accesso controllato, dove tutto ciò che viene detto è soggetto a scrutinio e verifica da parte dei gatekeeper dell’informazione. La differenza è che in rete non sono più gli editori, ormai messi da parte, a controllare l’informazione, bensì le piattaforme del web, le grandi aziende quali Facebook, Google, Twitter, Microsoft.

Da cui la moltiplicazione delle proposte governative di imporre nuove regole alle piattaforme del web, sia pressioni tese a indurre la firma di codici di condotta (in materia di hate speech), sia norme vere e proprie (articolo 13 della direttiva copyright), che hanno lo scopo nemmeno tanto velato di imporre un controllo del flusso dell’informazione online. È l’enforcement del copyright che sta progressivamente guidando la regolamentazione dell’ecosistema Internet.

Non dobbiamo dimenticare, a tale proposito, che dal punto di vista del cittadino, il destinatario di tale importante libertà, vi è una specifica aspettativa di non trovare interferenze rispetto alle sue comunicazioni, così come sancita dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, quando statuisce che la libertà di espressione debba essere, appunto, “senza interferenze”. Idea che risale ad una tradizione secolare di pensiero politico a partire dal diciassettesimo secolo, con Thomas Hobbes, fino a John Stuart Mill e Isiah Berlin. Tuttavia, dobbiamo notare che la Convenzione presuppone che l’interferente sarebbe stato lo Stato, non prevedendo che tali interferenze oggi vengano dalle entità commerciali, anche se nella maggior parte dei casi le interferenze sono direttamente o indirettamente richieste dai governi.

If all mankind minus one, were of one opinion, and only one person were of the contrary opinion, mankind would be no more justified in silencing that one persone, than he, if he had the power, would be justified in silencing mankind.
Se l’intera umanità fosse di una sola opinione, e solo una persona fosse dell'opinione contraria, l'umanità non sarebbe più giustificata nel far tacere quella persona, di quanto quella persona, se ne avesse il potere, sarebbe giustificata nel mettere a tacere l'intera umanità. (John Stuart Mill)

I governi, per riottenere il controllo del flusso informativo, devono operare in due direzioni:

 Creare le condizioni per impedire una reale concorrenza nell'ecosistema digitale in modo che il controllo dell'informazione sia affidato a poche aziende del web (le grandi piattaforme), più facili da controllare rispetto ad un gran numero di aziende e servizi in concorrenza (in tal senso molte delle nuove regole spingono ad una ristrutturazione del web proprio per ridurre i gatekeep dell'informazione, favorendo la nascita di semi-monopoli).

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● Imporre alle piattaforme del web delle specifiche regolamentazioni (in tal senso campagne di delegittimazione dell'operato delle aziende diventano strumentali a questa esigenza, sottraendo potere negoziale a queste multinazionali che solitamente sono, invece, perfettamente in grado di tenere testa ad uno Stato, a differenza degli editori, che sono sempre stati controllabili da parte dei governi – per questo in vari casi gli editori si sono fatti essi stessi politici–).

Non si tratta di punire, quanto piuttosto di creare una sorta di "ordine pubblico virtuale". Quindi non è importante la regolamentazione di un singolo comportamento (e quindi la tutela di un cittadino leso da quel comportamento), quanto la realizzazione della governance della manifestazione del pensiero.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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