Lezioni di Storia / C’erano una volta negazionisti e no vax
6 min letturaLezioni di Storia, una rubrica di divulgazione storica partendo dal presente
Negazionisti, complottisti, novax: la pandemia del coronavirus ha portato alla ribalta tutta una serie di gruppi organizzati o di singole persone che hanno assunto atteggiamenti irrazionali nei confronti delle norme sanitarie per contenere la diffusione del virus. C’è chi nega persino l’esistenza della pandemia, dicendo che i dati forniti da governi e mass media sono in realtà falsi e le morti attribuite al coronavirus sarebbero gonfiate o attribuite ad altre malattie o agenti patogeni; chi sostiene che il virus sia stato creato appositamente o diffuso per creare confusione dai governi mondiali, chi si oppone ad ogni forma di vaccinazione sostenendo che il vaccino ha effetti collaterali più pericolosi ancora della malattia.
I tre fenomeni sono considerati in genere recenti, e la loro esistenza viene spesso legata dalla stampa alla diffusione dei social che, come dice una famosa frase di Umberto Eco, avrebbero “dato la parola a legioni di imbecilli”, permettendo la diffusione di idee assurde, informazioni fake sulla pandemia e facilitando la creazione di gruppi organizzati per opporsi alle misure di sicurezza.
In realtà però se si vanno a leggere le fonti antiche che parlano di epidemie passate ci si rende conto che questi atteggiamenti sono stati sempre presenti, perché pare che sia una reazione incredibilmente umana, quando ci si trova nel mezzo di una tragedia immensa come è una pandemia, reagire nel modo più irrazionale ma forse più rassicurante: negare che il problema esista.
Tucidide e i primi complottisti
La prima epidemia di peste raccontata nei minimi particolari da una fonte letteraria è la peste di Atene, scoppiata nella città greca durante la Guerra del Peloponneso, cioè il conflitto che per svariati anni oppose Atene alla rivale Sparta per la supremazia sulla Grecia.
La peste si diffuse ad Atene nel 430 a.C. ed ebbe esiti disastrosi anche per la condizione particolare in cui si trovava la città: la strategia di Pericle, allora a capo delle milizie ateniesi, consisteva infatti nell’accogliere in città gli abitanti delle campagne circostanti, per lasciare liberi gli Spartani di scorrazzare senza costrutto fuori dalle mura, mentre Atene veniva rifornita via mare di viveri e beni di prima necessità attraverso il porto del Pireo. Un’idea geniale in teoria, ma che aveva portato in città centinaia di profughi ammassati alla bell’e meglio in spazi ristretti. Insomma la situazione ideale per il diffondersi di un agente patogeno.
Il cronista d’eccezione di questa epidemia fu lo storico Tucidide, un aristocratico colto e istruito, che aveva studiato con i migliori filosofi e medici dell’epoca e fu pertanto in grado di descrivere l’intero evolversi della epidemia, e di raccontare nello specifico anche i sintomi e il decorso della malattia, se non altro perché anche lui fu contagiato.
Ma Tucidide aveva anche l’occhio lungo del sociologo, e così, oltre a descrivere come il morbo si diffuse in città attraverso i contatti commerciali con regioni infette come la Persia e l’Oriente, raccontò anche le reazioni psicologiche degli Ateniesi, e fu il primo a registrare la nascita di teorie “complottiste”. All’esplodere dei primi casi, infatti, invece che pensare ad una malattia, molti ateniesi ipotizzarono che a diffondere il morbo fossero stati agenti segreti degli Spartani, che avrebbero avvelenato i pozzi d’acqua in città. Una variante antica della idea moderna del virus creato in laboratorio e diffuso ad arte fra la popolazione.
Tucidide racconta poi le differenti reazioni della popolazione al dilagare del contagio. Anche se gli strumenti dell’epoca per contenere la diffusione del virus erano pochi, gli Ateniesi si divisero fra coloro che, giustamente, cercavano di evitare contatti e assembramenti e coloro che, invece, per reazione, si davano alla bella vita, organizzando feste ed occasioni di ritrovo, senza adottare nessuna precauzione. Verrebbe da dire gli antenati dei nostri no mask e no green pass, non fosse che, stando alle fonti, ben pochi ne sopravvissero.
La peste antonina e i ciarlatani al lavoro
La seconda grande epidemia che funesta il mondo antico è la peste antonina che infuriò nell’impero romano dal 165 al 180 d.C. per una trentina d’anni, con vari focolai disseminati su tutto il territorio, e fece milioni di morti. La malattia stavolta fu osservata da un altro dei grandi medici antichi, Galeno, che nei suoi scritti ne descrisse il decorso. Non è chiaro a tutt’oggi di che tipo di infezione si trattasse: gli scienziati moderni sono incerti se identificarla con il vaiolo o con una forma di morbillo.
La peste antonina fu un disastro per l’impero. Alla fine dell’epidemia il sistema economico romano era al collasso. Il contagio era stato diffuso dalle legioni che avevano combattuto in Oriente e poi si erano spostate in Occidente al seguito di Marco Aurelio per combattere l’invasione di Quadi e Marcomanni. Lo stesso imperatore fu contagiato e morì, stoicamente come era vissuto, senza un lamento.
Sulla peste antonina non abbiamo moltissime testimonianze letterarie, ma una è incredibilmente interessante perché aiuta a comprendere come anche al tempo, di fronte al dilagare della malattia, le persone si affidassero a rimedi totalmente irrazionali e prestassero fede a ciarlatani.
Luciano di Samosata dedicò una delle sue opere, Alessandro o il falso profeta, proprio ad uno di questi personaggi, Alessandro di Abonutico, che, autonominatosi profeta di un tal dio-serpente Glicone - divinità inventata da lui - aveva fondato nella sua città natale un fiorente commercio basato sullo sfruttamento della credulità popolare, facendosi pagare per oracoli e falsi miracoli.
Allo scoppio della peste, lo spregiudicato santone intuì la possibilità di fare business, e inventò un verso “Febo chioma intonsa di peste il nembo stringe” che veniva scritto su strisce di carta e venduto come talismano contro il contagio ai suoi fedeli. Questi lo dovevano esporre sullo stipite della porta di casa per avere assicurata la protezione contro il morbo. Luciano, scrittore satirico molto vicino alla filosofia epicurea, che non credeva negli dei e nelle religioni, sottolinea come, per ironia del destino, in realtà i seguaci di Alessandro si ammalarono molto di più degli altri di peste. Questo non però per una punizione divina, ma perché, annota Luciano con una felice intuizione sociologica, i seguaci di Alessandro erano così convinti che l’oracolo del loro santone di riferimento li proteggesse magicamente che non prendevano nemmeno le più elementari precauzioni per evitare il contagio, e quindi si ammalavano più frequentemente degli altri. Anche qui dei no mask ante litteram puniti dalla loro stessa dabbenaggine.
Parini contro i novax
Perché nascesse la categoria dei novax è stato necessario che venissero inventati e introdotti i vaccini. Il primo fu quello contro il vaiolo, messo a punto dal medico inglese Edward Jenner. L’immunizzazione prevedeva che venisse inoculato sui pazienti il siero del vaiolo vaccino, ovvero di una infezione simile al vaiolo umano che colpiva i bovini. La scoperta di Jenner si data al 1798.
Ma qualche anno prima, nel 1765, un medico italiano, Giovanni Maria Biccetti de’ Buttinoni, trovatosi ad affrontare un cluster di vaiolo a Treviglio, ricorse alla pratica della variolizzazione. Si trattava di una prassi di origine orientale importata in Occidente dalla nobildonna britannica Mary Wortley Montagu, e che consisteva nell’inserire in piccoli tagli sul braccio del soggetto siero contenente il patogeno del Variola Minor, una variante del vaiolo meno letale. Era una pratica molto pericolosa, perché anche se il variola minor in genere è più leggero nulla garantiva che il soggetto non sviluppasse la malattia in forma grave. Tuttavia Buttinoni era ben introdotto nel circolo degli illuministi Lombardi e così Giuseppe Parini, saputo dei suoi esperimenti, scrisse un’ode per invitare tutti a vaccinarsi. Dal punto di vista letterario la poesia è incredibilmente brutta, ma rappresenta un caso interessante di campagna provax. Giustamente gli illuministi non potevano che caldeggiare le nuove scoperte e il progresso, e i novax, anche se appena nati, erano già loro nemici naturali.
Don Ferrante, ovvero il negazionista colto contro la peste
Bisogna arrivare alla grande epidemia di peste del 1648, o meglio al suo racconto fatto da Manzoni nei Promessi Sposi nel 1842, per incontrare l’antesignano letterario dei negazionisti odierni, ovvero Don Ferrante.
Don Ferrante condivide con molti negazionisti odierni una certa cultura e soprattutto erudizione di base. Non è un analfabeta, anzi è una persona istruita e considerata intelligente fra i suoi pari. Don Ferrante però rientra nella perfetta definizione dello stupido data da Umberto Eco nel Pendolo di Focault. “Lo stupido è insidiosissimo. L'imbecille lo riconosci subito (per non parlare del cretino), mentre lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale. ... Si pubblicano molti libri di stupidi perché di primo acchito ci convincono”.
Don Ferrante infatti è così tanto erudito e colto e si reputa così sagace e intelligente da non volersi accontentare della spiegazione più mainstream che il volgo accetta. Quindi non crede alla peste e non crede al contagio, ma sostiene che il miasma sia dovuto agli influssi degli astri. Non segue quindi le misure di prevenzione perché le ritiene inutili. E muore, convinto però ancora fermamente di avere ragione. Perché Don Ferrante è un essere razionale, una sorta di antesignano di Cacciari: anche di fronte all'evidenza di un pericolo reale, la sua speculazione filosofica ha comunque la meglio.
Immagine anteprima © José Luiz Bernardes Ribeiro via Wikimedia Commons - CC BY-SA 4.0