Lezioni di Storia / La politica e l’idea del grande museo dai Babilonesi a Hitler passando per Napoleone
14 min letturaLezioni di Storia, una rubrica di divulgazione storica partendo dal presente
Ogni tanto riemergono dal passato alcuni fantasmi. In questi ultimi giorni la campagna elettorale al Comune di Roma ha riportato agli onori della cronaca quello del “grande museo”. Carlo Calenda ha infatti proposto di unire in un unico grande museo le collezioni dei vari musei romani, in primis i Musei Capitolini, riorganizzando per altro anche l’esposizione dei reperti, che, sempre a detta di Calenda, non è funzionale: “I Musei Capitolini sono bellissimi ma la parte romana semplicemente non spiega Roma. Vogliamo accorpare le collezioni romane, nazionali e comunali, nei tre palazzi del Campidoglio. Dando vita a un museo unico al mondo, moderno e comprensibile.” Aggiungendo poi, nella descrizione del video postato per spiegare l’iniziativa, che “A differenza di tutte le altre capitali europee, Roma non ha un grande museo pubblico rappresentativo della Città. Parigi, Londra, Stoccolma, Amsterdam hanno saputo creare grandi strutture dedicate alla loro storia, mettendo a sistema le opere più rilevanti e garantendo continuità e solennità alla narrazione. Nella Capitale, invece, il patrimonio museale sulla storia della città è frammentato tra più musei, gestiti da pubblico e privato. E questo lo rende poco attrattivo per i turisti.”
La proposta, almeno fra gli addetti ai lavori, ha suscitato parecchio scalpore e una notevole maretta. Al di là dei problemi tecnici legislativi che porrebbe (si tratta infatti di collezioni e reperti che solo in parte sono del Comune di Roma, e quindi riunirli tutti richiederebbe accordi specifici o costose acquisizioni), sconvolgerebbe quello che, anche se pochi lo sanno, è il più antico museo pubblico al mondo, ovvero la collezione dei Musei Capitolini, che è giunta fino a noi dai tempi dei Papi.
Alcuni hanno comunque gioito del fatto che, bene o male, una discussione sui musei sia entrata in una campagna elettorale, altri hanno deprecato che non esperti come i politici si mettano a sindacare sulla creazione o sulla impostazione dei musei. In realtà, conoscendo la storia, si scopre che i musei sono sempre stati al centro del dibattito politico e della propaganda, e anzi sono nati in sostanza proprio per quello. Perché chi controlla il passato, controlla il futuro, diceva Orwell. Ma molti non sanno che nella lotta per il controllo del futuro, i politici hanno considerato i musei sempre fondamentali e considerato spesso l’idea del “grande museo” l’arma definitiva per il controllo.
Che cos’è un museo?
Tutti noi abbiamo in testa una precisa idea di cosa sia un museo: un luogo dove si va a vedere una serie di reperti o di opere d’arte antiche o contemporanee. La cosa curiosa è che invece sono proprio gli addetti ai lavori che ancora oggi di tanto in tanto ritoccano e ridefiniscono quale debba essere la definizione precisa di museo. La definizione formulata più di recente da ICOM (International Council of Museums) e adottata con lievi modifiche in Italia con un decreto del Presidente del Consiglio del 2019 è: «I musei, i parchi archeologici, le aree archeologiche e gli altri luoghi della cultura di appartenenza statale sono istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. Sono aperti al pubblico e compiono ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell'umanità e del suo ambiente; le acquisiscono, le conservano, le comunicano e le espongono a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica».
I musei sono quindi tenuti in primis a conservare il patrimonio culturale materiale e immateriale, studiarlo e consentirne la fruizione al pubblico e agli studiosi, facendo anche nel contempo ricerca su di esso. Non sono quindi mere esposizioni di oggetti, ma hanno da sempre in ruolo assai più vasto e fondamentale per passare alle generazioni future un patrimonio non solo di “cose” salvate dall’usura del tempo, ma di saperi e cultura.
I musei ai tempi dei babilonesi
Il legame fra musei e potere politico è antico quanto l’invenzione dei musei stessi. Del resto il potere politico ha bisogno di dimostrare che esiste un filo rosso del destino o della volontà divina che ha portato al governo una determinata classe dirigente e gruppo di potere, e questo assunto può essere sostenuto o dimostrato proprio usando come “prove” reperti del passato inseriti in una narrazione coerente. I musei questo fanno, fornire narrazioni coerenti del passato, per loro vocazione.
Infatti il primo museo di cui abbiamo notizia era la collezione di reperti di una principessa babilonese, Ennigaldi-Nanna, che lo allestì nel suo palazzo di Ur attorno al 530 a.C. Figlia del re Nabonidus, che era famoso per avere interessi da archeologo, Ennigadi è considerata la prima curatrice museale perché la sua collezione non era un semplice insieme di opere messa in mostra a fini puramente estetici. Ogni pezzo, infatti, era stato collocato in ordine cronologico e aveva vicino l’antenato della nostra didascalia museale: un cilindro di argilla che spiegava la sua origine e funzione. L’ala del palazzo della principessa Ennigaldi, dunque, rispondeva alla definizione propria di museo. Non esponeva soltanto, ma ricercava, preservava ed educava. Certo, non era ancora aperto al pubblico, ma solo, probabilmente, ai frequentatori della corte. Però era un antenato di tutto rispetto per i nostri musei odierni.
Il Museo di Alessandria, ovvero la propaganda politica si fa con la cultura
La parola museo è di origine greca e significa casa delle Muse, ovvero le nove figlie di Zeus e di Mnemosine (dea della memoria) che proteggevano nella mitologia greca le varie forme di arte. Il nome fu inventato da Tolomeo I Soter o da suo figlio Tolomeo II Filadelfo per indicare nel III-II secolo a.C. l’edificio della Biblioteca di Alessandria. L’istituzione era il fiore all’occhiello dei sovrani ellenistici di Egitto. Più che ai nostri attuali musei era più affine ad un centro culturale di altissimo livello, una sorta di Harvard o di MIT dell’antichità. Studiosi provenienti da tutto il mondo allora conosciuto erano infatti ospitati nel Museo e potevano tenere corsi o studiare all’interno della celeberrima biblioteca, che si vantava di possedere una copia di tutte le opere scritte al mondo, anche in lingue diverse dal greco. Non quindi una collezione di reperti, ma un centro di ricerca e sviluppo (studiarono ad Alessandria sia filosofi e letterati come Callimaco sia scienziati come Eratostene e Archimede o la matematica Ipazia), votato alla preservazione della cultura immateriale, cioè tradizioni, poesia, musica, e alla cura dei libri.
Nasce proprio ad Alessandria l’idea che la cultura possa diventare un potentissimo veicolo di propaganda politica. I Tolomei con la loro biblioteca universale si candidavano ad essere i più diretti e accreditati eredi dell’impero universale di Alessandro Magno, di cui Tolomeo I era stato generale, perché preservavano le tradizioni culturali dei popoli che Alessandro aveva sottomesso. È ad Alessandria che nasce anche l’idea del Grande centro culturale che diventa l’ombelico del mondo perché concentra in sé tutto il sapere umano mai prodotto.
Non a caso quasi immediatamente nacque anche un centro concorrente: la Biblioteca di Pergamo, in Asia minore. Attalo I, che non poteva vantare una discendenza diretta da Alessandro Magno o dai suoi generali, per nobilitare la sua dinastia creò infatti una biblioteca di circa 200mila volumi, e per essere indipendente dall’Egitto anche nella produzione degli stessi, invece di usare come supporto per la scrittura il papiro, inventò, dice la leggenda, la pergamena, fatta di pelle di pecora trattata. La rivalità fra le due biblioteche divenne leggendaria: si contendevano studiosi e manoscritti a suon di quattrini. Ma Attalo di Pergamo, per vincere su Alessandria, decise di affiancare alla Biblioteca anche una collezione di statue che dovevano servire da modelli per gli artisti che si venivano a perfezionare a Pergamo.
Ecco, era nato in pratica il museo vero e proprio. E ancora una volta la molla di tutto era stata la politica.
I Romani non avevano “musei” (o meglio, avevano un “museo diffuso”)
Può sembrare paradossale, ma a Roma, capitale del mondo antico, non vi fu mai un “museo” come a Pergamo e ad Alessandria.
Le grandi famiglie senatorie che avevano reso grande la repubblica e continuarono ad arricchirsi durante l’impero possedevano meravigliose collezioni d’arte, che occasionalmente venivano aperte o esposte al pubblico. Giulio Cesare, per esempio, durante l’anno in cui era edile, per ingraziarsi la plebe fece esporre la sua collezione privata di statue greche. Ma l’intera città da questo punto di vista poteva essere considerata un “museo diffuso”. I fori, le terme, i giardini delle ville aristocratiche che spesso poi diventavano demanio pubblico perché confiscati o lasciati in eredità, erano costellati di statue greche (in originale o in copia), e in tutta la città erano presenti grandi biblioteche pubbliche aperte a tutti. Nella lotta per l’egemonia culturale, Roma si presentava come una città naturalmente al centro del mondo: non aveva bisogno di un grande museo, era essa stessa tutta una perla da visitare con molteplici punti di interesse. In questo la Roma contemporanea e policentrica è ancora sorprendentemente simile a quella antica.
I Musei Capitolini, il primo museo pubblico al mondo
E viene il Rinascimento, l’epoca d’oro in cui cultura e politica di saldano in un abbraccio. I signori italiani del Rinascimento sono colti, o almeno fermamente intenzionati a sembrarlo. Replicano in ogni città il modello Roma Antica: creano cioè città belle in cui edifici pensati da grandi architetti vengono decorati con opere prodotte appositamente dagli artisti di grido. Avere alle proprie dipendenze l’archistar o il pittore/scultore del momento era una faccenda di prestigio personale e politico. Nascono così le grandi collezioni private rinascimentali, dove vengono messi fianco a fianco pezzi antichi, greci e romani, ritrovati in scavi o comprati, e opere contemporanee. Una delle collezioni più importanti è quella dei Papi.
Nel 1471 Sisto IV decide che i bronzi antichi, fra cui c’è la celebre Lupa simbolo della città, in Laterano stanno stretti. Li sposta quindi nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Nel corso dei due secoli successivi la collezione si amplia a dismisura, anche perché a Roma e dintorni, allora come oggi, come fai un buco salta fuori qualche reperto. Alcune statue vengono spostate perché qualche Papa troppo ligio alla Controriforma, tipo Pio V, decide di allontanare dalla Vaticano tutte le immagini pagane. Così nel 1600 bisogna ampliare la superficie espositiva e si aggiunge Palazzo Nuovo. Fino a questo punto però sempre di collezione privata si tratta. La svolta avviene nel 1734, quando le statue e poi anche la pinacoteca vengono aperte al pubblico. I Capitolini a questo punto sono una vera, incredibile, sconvolgente novità: il primo museo pubblico del mondo. Prima del British. Prima del Louvre. Prima di tutti.
Le collezioni sono per gran parte ancora esposte come lo erano allora. Rimaneggiare un allestimento quindi non sarebbe solo spostare dei pezzi, ma manomettere qualcosa che ci parla di un’epoca a sua volta antica. Quando si entra ai Capitolini non si entra in un “museo che deve raccontare la nascita di Roma”: si entra in un macchina del tempo che ci permette di vedere in alcune sale come è stato pensato secoli fa il primo museo aperto al pubblico. In pratica, un viaggio del tempo al quadrato.
Napoleone e la Grandeur culturale
Non che nel resto di Europa fossero rimasti al palo. Ogni re si era creato una collezione privata, spesso ragguardevole, per dimostrare di essere colto e potente. In Inghilterra Carlo I Stuart e in Francia Luigi XIV si erano attorniati di opere d’arte di gran pregio. Ma, appunto, rimanevano collezioni private che potevano essere visitate solo da chi frequentava la corte, e che, nel caso dello Stuart, furono in parte disperse dopo la sua condanna a morte.
A cambiare la situazione intervenne la Rivoluzione francese. Nel 1793 le collezioni reali del Louvre vengono trasformate in un museo pubblico, per consentire agli artisti di trarre ispirazione dalle opere antiche. Ma Francia repubblicana ha ambizioni più grandiose. La nuova classe dirigente imbevuta di neoclassicismo si sente l’erede diretta di Roma, e si crede in diritto di portare in Francia le opere d’arte antiche e moderne come Roma fece con la Grecia.
Inizia durante la campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte la sistematica spoliazione di collezioni, palazzi biblioteche e musei italiani. Un fiume di opere d’arte depredate che vanno ad ingrossare le collezioni del Museé Napoleon, il nome che nel frattempo ha assunto il Louvre quando Bonaparte è divenuto imperatore. È proprio Napoleone che riprende il sogno del “grande museo” universale, un colossale monumento alla cultura che contenga, come l’antica biblioteca di Alessandria, tutte le opere letterarie e d’arte del mondo. Ancora una volta la politica usa l’arte per la propaganda e per convincere tutti di vivere nel migliore e nel più potente dei regimi possibili: quello che oltre al potere è in grado di avere il controllo su tutta la bellezza prodotta dall’uomo.
Il grande museo napoleonico crolla con il crollo politico del suo patrocinatore. Quando Bonaparte finisce in esilio a Sant’Elena il Congresso di Vienna stabilisce che le opere d’arte debbano essere restituite agli Stati di origine senza contrattazione. Ma non è così facile. A recuperare per le collezioni papali gran parte del maltolto è Antonio Canova, ex scultore di corte di Napoleone stesso. Molto viene riportato ai Capitolini, ma altre cose, come la strepitosa collezione Borghese, che Napoleone costrinse il cognato principe Borghese a vendergli ad prezzo irrisorio e quindi risulta regolarmente comprata, non tornerà a casa mai più. E così, purtroppo, anche molte altre opere e manoscritti.
Roma capitale e l’organizzazione dei musei: il Museo Nazionale romano
L’Italia della fine dell’Ottocento si ritrova, dopo la breccia di Porta Pia del 1870, con una Roma capitale tutta da riorganizzare. La costruzione di moltissimi nuovi quartieri per ospitare i burocrati e i funzionari aveva fatto emergere una quantità incredibile di nuovi materiali archeologici che richiedevano una sistemazione. E nuove sistemazioni erano richieste anche dalla nuova ideologia del tempo. Cacciati i Papi e messo fine al loro potere temporale, la Roma umbertina e giolittiana voleva costruire una sua identità forte, e presentarsi come una rampante potenza con aspirazioni coloniali e imperiali. La cultura ancora una volta serviva alla politica e alla propaganda: ricordare ed enfatizzare non più la storia della Roma cristiana che i Papi avevano magnificato ma quella della Roma repubblicana e imperiale era il nuovo obiettivo.
Risale alla fine degli anni ‘80 dell’Ottocento la creazione del nuovo Museo Nazionale romano, allora ospitato nel chiostro del monastero di Santa Maria degli Angeli, costruito sui resti delle antiche Terme di Diocleziano (oggi diviso nelle quattro sedi delle Terme di Diocleziano, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps e Crypta Balbi). Qui nel 1913 venne esposta la Venere di Cirene, proveniente appunto da Cirene in Libia, che era appena divenuta colonia italiana: un modo evidente per sottolineare come quelle terre d’Africa costituissero la cosiddetta “quarta sponda” dell’Italia fin dai tempi dei romani, e quindi la loro conquista da parte italiana fosse legittima.
Sempre per quella cosa che allestimenti museali e propaganda politica vanno a braccetto.
Il Museo della civiltà romana
Nel 1911 Roma celebra il primo cinquantenario dell’unità d’Italia. Siamo nel pieno della campagna di Libia per la conquista della Cirenaica, e nulla pare più adeguato alla politica del tempo che ricordare i fasti di Roma imperiale che su quelle terre aveva esercitato il suo dominio. Così alle Terme di Diocleziano viene organizzata una sontuosa mostra fatta però principalmente di calchi di opere antiche, che dovrebbe illustrare in maniera abbordabile e moderna l’evoluzione della civiltà romana, ponendo una notevole enfasi sulla conquista delle province.
Usare i calchi anziché le opere originali era una idea didatticamente grandiosa. Permetteva infatti al pubblico di poter vedere meglio e più da vicino particolari delle opere che spesso a causa della collocazione degli originali sono impossibili da notare.
Chiusa l’esposizione, i calchi rimasero in una sede secondaria fino al 1937, quando in piena epoca fascista si decise di celebrare in pompa magna il bimillenario della nascita di Augusto, che, in quanto fondatore dell’impero, era considerato dalla propaganda politica del tempo un anticipatore di Benito Mussolini. Si scelse così come sede il Palazzo delle esposizioni all’Eur. Non si trattò di una decisione casuale. L’Eur, fortemente voluto dal gerarca fascista Bottai, era nato per essere il quartiere simbolo del regime mussoliniano: un insieme di architetture razionali e moderne pensate dall’architetto Piacentini che però si ispiravano alla lezione dell’antichità. La creazione del Museo della civiltà romana in questo contesto era perfettamente coerente quindi con lo spirito del nuovo quartiere (e con l’ideologia del regime): l’Eur era una nuova Roma moderna e vincente che però rivendicava una perfetta coerenza storica con quella antica e imperiale.
Anche in questo caso, quindi, come in quello dei Capitolini, il museo non è semplicemente una esposizione di reperti ma è esso stesso testimonianza di un’epoca storica ben precisa. Spostare le collezioni in un altro contesto o sede impedirebbe al visitatore di capire fino in fondo un processo storico e un periodo.
Anche Hitler è sedotto dall’idea del Grande Museo
Intanto in Germania Hitler è salito al potere. L’aspirante giovane pittore bocciato all’esame di ammissione in Accademia ha per l’arte una vera passione e concepisce un ambizioso e grandioso progetto per creare a Linz il Führermuseum. Il museo avrebbe dovuto essere al centro di un nuovo quartiere, e avrebbe dovuto contenere opere d’arte provenienti da tutta Europa. L’ispirazione venne a Hitler proprio dalla visita del 1938 ai musei italiani. Il grande museo fu una delle ossessioni di Hitler. Testimoni raccontano che persino durante i suoi ultimi giorni nel bunker di Berlino passasse ore a guardare il plastico del progetto, e negli anni in cui era all’apice del potere la disposizione delle opere nelle future sale del museo fosse uno degli argomenti preferiti di discussione con i suoi gerarchi all’ora del tè. Nel progetto che venne tenuto a lungo segreto e il dittatore investì una marea di denaro e di risorse in esso. Centinaia di opere d’arte risultano comprate da delegati e agenti di Hitler, altre furono cedute con trattative opache probabilmente a seguito di minacce nei paesi che i nazisti avevano occupato o sottratte alle famiglie ebree. Parte delle collezioni dei grandi musei europei probabilmente erano destinate nei progetti del dittatore a essere spostati a Linz alla fine della guerra, e molte opere, durante il periodo bellico, furono stoccate in appositi siti segreti. La caduta di Hitler fece ovviamente terminare il progetto, anche se ancora oggi numerose sono le controversie sulla proprietà di alcune delle opere acquisite e per altro talune opere risultano perdute per sempre. Ancora una volta il sogno del museo universale aveva sedotto un politico ed era stato al centro della sua propaganda.
Tornando a Roma: l’archeologia classica e quella industriale
Nel secondo dopoguerra la museologia si è rinnovata e ha cambiato pelle. Oggi i musei non sono più solo spazi espositivi ma si sono differenziati in numerose categorie, curano molto di più la didattica e la comunicazione al pubblico, e anche sulla spinta dell’epidemia da Covid, hanno in molti casi aperto anche spazi virtuali che hanno permesso ai visitatori di accedere alle collezioni stando a casa.
A Roma il “grande museo” che spiega la storia della città non esiste, ma continuano ad esserci una pluralità di centri museali e parchi archeologici che si integrano fra loro. L’ultimo nato è la Centrale Montemartini, realizzata negli anni ‘90 nella vecchia centrale idroelettrica e che espone parte delle collezioni archeologiche dei Capitolini, che per motivi di spazio non trovavano posto nella sede originale. È un interessante ed affascinante esempio di incontro fra un sito di archeologia industriale e reperti archeologici antichi. E anche questo museo, in fondo, racconta una sua storia particolare e fotografa una evoluzione del pensiero museale. Oggi non è più considerato degno di preservazione soltanto l’antico, ma anche i siti industriali dell’inizio del Novecento, che raccontano una parte importante della nostra storia contemporanea e in tutto il mondo sono oggetto di riqualificazione e vengono aperti alla collettività.
Il grande museo è necessario?
A questo punto, e non solo a Roma, forse verrebbe da dire di no. In tutto il mondo, anche per questione di gestione dei flussi, si sta andando verso sistemi più sostenibili che tendono a diversificare le offerte culturali per nicchie, che sono più gestibili e offrono ai frequentatori una esperienza migliore proprio perché si riduce l’affollamento e anche l’impatto sull’ambiente circostante (sia esso un ambiente naturale o un quartiere cittadino).
Da questo punto di vista Roma potrebbe essere più all’avanguardia, una volta tanto, delle altre capitali europee. Il problema principale sembra piuttosto quello di garantire una migliore gestione integrata attraverso la creazione di biglietti unici usabili in tutte le sedi e prenotazioni integrate, e forse di mettere in piedi una comunicazione più corretta su quali siano le storie dei musei e le loro peculiari caratteristiche, in modo che i visitatori (non necessariamente solo “i turisti”, ma anche gli stessi romani) siano consapevoli di cosa vanno a vedere e perché quel particolare museo contenga quel tipo di opere o reperti e non altri.
Qui la politica potrebbe e dovrebbe fare molto. E magari sarebbe anche ora che ci pensasse.
Immagine anteprima © José Luiz Bernardes Ribeiro via Wikimedia Commons - licenza CC BY-SA 4.0