Le telco vanno alla guerra: ITU, la tassa sul traffico web e il controllo della rete
5 min letturaBruno Saetta
Lo scopo a cui tende il suo intervento risulta subito palese, parte dalla constatazione dell'aumento esponenziale di banda utilizzata dalle grandi aziende che lavorano sul web per evidenziare l'enorme pressione sugli operatori di telecomunicazione che devono investire in reti ad alta capacità per mantenere la qualità del servizio. I service provider inondano le reti senza incentivo, dicono le aziende di telecomunicazioni, al congresso mondiale di Barcellona di marzo, la GSMA ha stimato che occorreranno circa 800 miliardi di dollari da investire in nuove infrastrutture di telefonia mobile entro il 2015, per gestire la rapida crescita delle esigenze degli utenti. La domanda è consequanziale: chi pagherà la banda larga?
L'argomento non è nuovo, è già in scaletta per il WCIT che si terrà a dicembre a Dubai. Ne abbiamo già parlato, la proposta di base è di assegnare la governance di internet all'ITU (Unione Internazionale delle Comunicazioni), un organismo dell'ONU che si occupa della regolamentazione del traffico telefonico attraverso le frontiere, i cui membri sono 193 paesi. Tra gli argomenti in discussione leggiamo: addebito del traffico web internazionale a favore delle compagnie telefoniche. Ed è proprio di questo che stiamo parlando!
Tra le manovre dei paesi totalitari che cercano di utilizzare il congresso di dicembre per far approvare trattati tesi a balcanizzare la rete frammentandola in tante realtà separate e più facilmente gestibili dai singoli governi, quindi utili a reprimere il dissenso politico, si è inserita da tempo la proposta dell'ETNO (European Telecommunications Network Operators Association), una associazione che rappresenta gli operatori di telecomunicazione di 35 nazioni.
La proposta dell'ETNO, fatta propria dall'ITU, e che verrà portata al WCIT di dicembre, è semplice. Si tratta di una nuova tassa per internet sul modello della telefonia internazionale, una sorta di equo compenso per i servizi di telecomunicazione da stabilire a mezzo di accordi commerciali tra le parti in causa.
L'idea, quindi, è di far pagare il traffico web come fossero telefonate internazionali, come il chiamante paga la telefonata così le grandi aziende del web dovrebbero sobbarcarsi il costo del traffico che generano (sending party network pays) fornendo servizi agli utenti. Il riferimento è agli over the top, cioè Google, Facebook, Twitter, Netflix ecc....
I problemi che sorgono da questa proposta sono abbastanza ovvi. Innanzitutto, considerando il costo spropositato (e spesso non giustificato) delle chiamate internazionali (rendono circa 8 miliardi l'anno), sicuramente il costo della connessione oltre frontiera sarà anch'esso molto elevato, e questi costi saranno scaricati, ove possibile, sugli utenti. Però molti servizi sono gratuiti, e molte aziende del web si reggono sulla pubblicità. Non è credibile che possano scaricare il costo aggiuntivo sugli inserzionisti, per cui è evidente che le aziende del web potrebbero anche essere costrette a limitare le connessioni. Ed è chiaro che i primi a subire limitazioni di questo tipo, fino ad essere tagliati fuori dalla rete, saranno i paesi in via di sviluppo, pensiamo all'Africa, cioè quei paesi per i quali il costo del traffico non sarebbe più economicamente giustificato, così determinandone l'isolamento.
In questa prospettiva c'è un errore di fondo. Le telefonate e la connessione sono già pagate dagli utenti. Infatti la risposta degli Isp e degli over the top è piuttosto logica: se gli operatori di telecomunicazioni vogliono farci condividere le loro spese, forse dovremmo parlare anche di condivisione delle entrate degli abbonamenti!
Ma il discorso è addirittura più semplice. Se andare su Internet è un così grande affare (visto il successo della rete e l'aumento esponenziale della domanda di servizi online), è possibile che nessuno è davvero disposto ad investirci? Infatti esistono moltissime aziende private che si stanno inserendo nel mercato, pur se con difficoltà.
La risposta a quella semplice domanda, però, per noi italiani è fin troppo ovvia, abituati da anni di assenza totale di competizione in vari settori. Quando in un settore esiste un monopolio o un semi-monopolio, nessuna delle aziende di quel settore ha un vero interesse ad investire, per cui si adagia, non innova, non investe, non cresce, e poi finisce per rivolgersi al governo lamentando perdite a causa di altre aziende che portano innovazione in quel settore. È più o meno quello che vediamo da anni, a livello internazionale, nel settore dell'industria dell'intrattenimento, dove la tradizionali aziende che gestiscono la distribuzione di musica e film si lamentano delle mirabolanti e fantasiose perdite causate dalle pirateria, invocando leggi che blocchino l'innovazione.
In Italia il mercato fermo da anni è quello dei media, con promesse decennali e mai mantenute di fornire una “banda larga” poi mai vista. Nel contempo si sono spesi milioni di euro per un digitale terrestre che si è dimostrato un grande affare solo per i soliti noti, e che non ha mai mantenuto la promessa di aumentare la concorrenza in Italia.
In internet la situazione è simile, con le aziende delle telecomunicazioni che spesso sono dei vecchi monopolisti che non hanno mai innovato, spesso sfruttate dalla politica, e che adesso si trovano a dover competere con i giganti del web, in un mercato ad alta velocità, quello digitale, dove una azienda nasce e scompare nel corso di pochi mesi.
Un'altra conseguenza di questa reingegnerizzazione della rete riguarderà la privacy degli utenti. Perché è ovvio che per poter correttamente fatturare il traffico internazionale, casomai differenziando i tipi di servizi, occorre tracciare questo traffico fin nei minimi dettagli, a livello di contenuti, per evitare che si possa mascherare il traffico. Ed una volta tracciato il contenuto, finire per limitare un certo tipo di traffico sarebbe un passo fin troppo breve.
A dicembre, a Dubai, si discuterà del futuro di internet, laddove l'intenzione delle aziende delle telecomunicazioni è di estendere la regolamentazione del loro settore alla connettività Internet. Il tentativo dell'ITU in sostanza è quello di rinegoziare i confini tra servizi di telecomunicazioni e servizi di informazione.
Si tratta di un modello economico che non tiene affatto conto della differenza tra le piattaforme, del fatto che Internet è relativamente aperta e consente un facile ingresso a nuovi “player”, sicuramente molto più facile che nel settore delle telecomunicazioni. Non si parla di portare internet tra i servizi di telecomunicazioni, quanto piuttosto si evidenzia che internet sta conquistando e sostituendo i servizi di telecomunicazione. In questa prospettiva, quindi, siamo di fronte ad un tentativo delle aziende di telecomunicazioni, spesso controllate politicamente o economicamente dai governi, di mettere le mani sulla rete, imponendo ad essa i propri standard di regolamentazione, un tentativo, insomma, di sopravvivere alla propria incapacità di reggere lo scontro con le nuove tecnologie, applicando le loro vecchie regole ad un mondo per loro del tutto nuovo e sconosciuto. Proprio come accade per l'industria del copyright. Per comprendere appieno la situazione basta fare un raffronto tra i membri dell'ITU, che sono solo 193, e quelli della Internet Society (che si occupa dei protocolli della rete), che sono oltre 55.000.
A dicembre, a Dubai, si tratterà di scegliere il modello economico per la rete del futuro.