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Le donne, i media e il berlusconismo (che non è finito)

21 Novembre 2011 5 min lettura

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Le donne, i media e il berlusconismo (che non è finito)

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Giornalista e scrittrice, Loredana Lipperini, collabora da anni con le pagine culturali de "La Repubblica" ed è fra i conduttori di Fahrenheit su Radio Tre. Dal 2004 ha un blog che si chiama Lipperatura. L'ultimo suo libro è Non è un paese per vecchie edito da Feltrinelli. Venerdì 25 novembre in occasione della giornata mondiale contro le violenza sulle donne parteciperà all'incontro "Donne e Media: il ruolo della donna nell'immaginario collettivo" (Roma, Università la Sapienza ore 17.30). 

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Perché si deve parlare di donne e media e di informazione al femminile? Non si rischia di ghettizzare il tema della libertà di informazione? Ed
esiste una differenza di genere nel modo di informare? 

Sarebbe molto bello vivere in un mondo che può permettersi di non
affrontare l'argomento. Perchè in Italia, in particolare, il problema
di informazione di genere esiste ed è pesante. In primo luogo, nella
presenza delle donne ai vertici dell'informazione stessa: le
direttrici di giornale (fatti salvi i femminili) si contano sulle dita
di una mano (al momento, temo che bisognerebbe chiudere addirittura la
mano a pugno). Nei talk show giornalistici, come ospiti, le donne sono
una su quattro: e le conduttrici dei medesimi sono pochissime (a meno
di non considerare quelli virati alla cronaca bianca e al gossip
pomeridiano). Anche il modo in cui l'informazione si occupa di donne
continua a essere fortemente, e spesso inconsapevolmente, sessista:
scatta in automatico la nota di colore, anche in presenza di
personalità politiche o istituzionali o scientifiche o culturali.
Quando Michelle Obama venne a Roma per informarsi sul gender gap
italiano, le cronache dettero notizia della sua audacia nell'indossare
una spilla verde su un abito giallo. Ora, gli automatismi esistono in
molti campi: basti pensare alla terribile reiterazione di termini come
"il rumeno", "l'albanese" associati a chi compie crimini (e mai che
avvenga con gli italiani, ovviamente). Ma in questo caso esiste una
Carta deontologica, la Carta di Roma. Nel caso dei genere sessuali (e
penso non solo alle donne), non esiste nulla. 
Lei ha scritto di aver provato sconforto a leggere l'articolo di Natalia
Aspesi sulle neoministre perché?

Perchè è scattato il temuto paragone fra chi indossa il pantalone
comodo e non la minigonna, o il tacco solido contro quello a spillo.
Perchè ancora una volta le donne vengono giudicate da come si vestono
e non da quello che pensano, sostengono, fanno. Inoltre, significa dar
credito a chi gioca la carta del femminismo bigotto che intende
abolire il diritto all'autoreggente in favore di modelli estetici
mortificanti. Così come trovavo deleterio il modello unico del
"raunch" (sostenere le proprie idee esclusivamente col famigerato
tacco a spillo e in forza del medesimo) trovo spaventevole quello del
sobrio filo di perle garante di intelligenza e autorevolezza. I
modelli estetici sono la gabbia delle donne: moltiplicarli e usarli, e
dunque farne a meno, dovrebbe essere la via da seguire. 

La trappola degli stereotipi, di cui lei ha parlato su L'Unità, è 'colpa dei media' o un qualcosa che ha radici
nella cultura, nella tradizione della nostra società (bella, curata, tacco
stupida/seduttrice, trascurata, tacco basso/intelligente,
preparata, impegnata? 
Ha radice nella cultura, certamente: ma i media continuano a
rilanciarlo ciecamente, senza fermarsi a riflettere. L'articolo
scritto con Anna Paola Concia, Eliana Frosali e Zauberei intendeva
sostenere proprio questo: è grave che una filosofa abbia contrapposto
su L'Unità una ministra e una sindacalista insistendo sull'aspetto
fisico di entrambe, e non sulle loro idee. Lo immagina un duello di
cravatte fra D'Alema e Alfano? Sarebbe risibile. Dunque? 
Come definirebbe l'immaginario femminile del berlusconismo? E prima
ancora ci piacerebbe sapere da lei cosa si intende quando si dice
"berlusconismo".
 
Io non parlerei di berlusconismo ma di post-thatcherismo. L'errore più
grave che si possa fare è considerare il nostro immaginario e la
nostra situazione politica come esclusivamente correlati a Silvio
Berlusconi. Un acuto filosofo come Mario Tronti ebbe a dire, circa un
anno fa, che il problema del nostro paese non è il cavaliere, bensì il
cavallo. E questo cavallo risente di un clima che ha cominciato ad
avvelenarsi negli anni Ottanta, in piena era Thatcher e Craxi.
Berlusconi e le televisioni da lui create hanno portato avanti questo
modello senza quasi incontrare ostacoli, propugnando il credo con cui
ci troviamo a fare i conti oggi. Individualismo, fiducia nel successo
facile e nei soldi ancor più facili, svalutazione dell'idea di
comunità, messa in ridicolo dei diritti. Quanto all'immagine
femminile, credo sia sotto gli occhi di tutti come sia stata
utilizzata in televisione e in pubblicità: un corpo seduttivo, molto
spesso seminudo, nessun altro talento se non la bellezza. Le cose
stanno cambiando grazie alle donne stesse, negli ultimi tempi. Ma il
cammino è ancora lungo: se pensa a una trasmissione considerata icona
della cultura di sinistra come "Che tempo che fa?" dove la presenza
femminile si conta, ancora una volta, sulla punta delle dita di una
mano... 
Il berlusconismo è finito, come dicono in tanti? Cosa pensa di questo
governo Monti? E qual è in ruolo dello scrittore, dell'intellettuale che lei
sente più vicino?
 
Ma neanche per sogno: sarebbe folle pensare che basti il clic di un
interruttore per cambiare l'immaginario di un ventennio. Quanto al
governo Monti, è presto per giudicare: ma se, come si sente
anticipare, farà proprie alcune delle proposte di riforma del lavoro
che vanno nella direzione della flex-security, e dunque della
creazione di un nuovo precariato sotto altre forme con incrinatura
dell'articolo 18, non posso certo rallegrarmi. Quanto agli
intellettuali: penso che in ogni situazione il loro ruolo debba
essere di sguardo critico, senza per questo essere accusati di
disfattismo o populismo. Non quello di correre, in nessun caso, in
soccorso di nessun vincitore. 
In molti criticano, bollandoli di incoerenza/ipocrisia, giornali come La Repubblica che appoggiano iniziative come 'Se non ora quando', sono in prima
linea contro lo sfruttamento del corpo delle donne come merce e poi
accettano pubblicità che "usa" il corpo delle donne come oggetto. Lei cosa
ne pensa?
 
Penso che i giornali non riescono a sopravvivere senza pubblicità, al
momento. Penso che sarebbe molto bello che i pubblicitari uscissero a
loro volta da un frame che non corrisponde alle donne reali. Penso
anche che molte giornaliste, dall'interno dei quotidiani, stiano
combattendo le loro battaglie in questo senso. E penso che un
obiettivo miglioramento ci sia stato, anche fra i creativi. Quello che
è urgente, invece, e che chiedo da anni, è che ci si incontri tra
lavoratori dell'informazione per riflettere su informazione e genere:
il problema è che molti colleghi temono come la peste una simile
eventualità e agitano lo spettro del politicamente corretto. Che non
c'entra nulla: si tratta semplicemente di prendere atto che non si può
continuare ad applicare alla descrizione e alla narrazione del
femminile il metro del "colore".

Arianna Ciccone (ha collaborato Matteo Pascoletti)
@valigiablu - riproduzione consigliata

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