Lavoro non-standard tra gig economy e pandemia: è l’ora di un modello universale di tutele e diritti
15 min letturadi Valerio De Stefano e Antonio Aloisi*
Ben al di là delle piattaforme digitali, i legislatori dovrebbero porsi il problema di allargare il campo di applicazione del diritto del lavoro. La crisi sociale generata dalla pandemia ha confermato quanto sia difficile tutelare a dovere le nuove forme di lavoro, quelle che si definiscono atipiche. Che fare? Certo, si possono riformare le nozioni classiche di subordinazione e autonomia. L’universalità delle tutele, prescindendo dalla distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati, è un’altra strada da percorrere. Sul piano pratico, servirebbe a offrire maggiori certezze e depotenziare il contenzioso sul corretto inquadramento dei lavoratori, che è costoso, imprevedibile e provvisorio per tutte le parti coinvolte. Per alcuni diritti, primi fra tutti tutele sindacali, protezione dei dati personali e contrasto alla discriminazione, il sentiero è stato già battuto grazie al diritto internazionale.
La gig-economy è una finestra aperta sul futuro del lavoro, il segnale neanche troppo debole di una profonda trasformazione in atto. È dunque un bene che i lavori nella filiera digitale o, più in generale, quelli che sono stati definiti come mestieri loggati siano al centro del dibattito accademico, sindacale e persino politico. Bisogna occuparsi oggi delle condizioni normative e contrattuali della variegata nuova forza lavoro fatta di rider, magazzinieri, creativi, consulenti, contrattisti e freelance, prima che sia troppo tardi per intervenire. Le istituzioni sociali sono sotto pressione a causa di diversi scossoni, da ultima la crisi generata dalla pandemia da COVID-19. La posizione precaria di milioni di lavoratori intrappolati in una varietà di accordi contrattuali di auto-impiego – genuini o fasulli che siano – sta rapidamente emergendo come l’ingiustizia più visibile che affligge larghe fasce della forza lavoro nei paesi industrializzati. In molti oggi si domandano se il modello vigente, che si fonda su una dicotomia secca tra subordinati e autonomi, sia in grado di offrire risposte concrete alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. Finora il dibattito è stato pressoché monopolizzato da una lettura allarmistica circa la desuetudine del contratto di lavoro subordinato sulla scia delle perturbazioni tecnologiche e dell’ascesa di modelli di business alternativi.
Tuttavia, il modello del lavoro subordinato è stato dato per spacciato troppo presto. Anni fa, un giuslavorista mise insieme ottimi argomenti per smentire questa opinione ricorrente. Riprendendo una massima attribuita a Mark Twain, il saggio era intitolato: la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata. Si può certamente aprire una riflessione sulla capacità di tale modello “tutto o niente” di offrire risposte alle contingenze del mondo produttivo moderno, in cui prevalgono discontinuità e dinamismo (non necessariamente volontari). Ma anche noi pensiamo che il canto funebre per il lavoro subordinato sia stato lanciato in assenza del caro estinto.
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È però innegabile che, da diversi decenni, nei paesi industrializzati di tutto il mondo, la fetta di lavoratori autonomi “dipendenti” si sia vistosamente allargata. Questo fenomeno non ha avuto una causa unica: il cambio dei modelli organizzativi a partire dagli anni Settanta, così come pure una certa tendenza a “disgregare” le aziende affidando parti sempre più rilevanti dei processi produttivi a fornitori esterni, sfruttando però la crescente interconnessione tecnologica per mantenere un forte coordinamento di questi “frammenti” di azienda esternalizzati, hanno avuto un ruolo essenziale. Altrettanto importante è stata la crescita del settore terziario a scapito dell’industria, cui si è accompagnata una continua erosione di quei movimenti sindacali e politici che avevano maggiormente rappresentato i lavoratori nel Novecento industriale.
Per quanto riguarda l’Italia, gli anni tra 1970 e 1980 hanno rappresentato un momento di “fuga” dalla subordinazione e dal diritto del lavoro. Proprio in quel periodo si è inaugurato il ricorso a contratti di lavoro autonomo cui spesso non corrispondeva alcuna reale autonomia gestionale né indipendenza economica del lavoratore. Il risparmio di costi diretti, in termini di salari e contributi, e indiretti, in termini di tutele non riconosciute, era enorme. A volte, parte del risparmio fiscale e previdenziale veniva corrisposto ai lavoratori nella forma di un netto maggiore rispetto a quanto si sarebbe assegnato in caso di lavoro subordinato. Non si è trattato, ovviamente, di soli fenomeni elusivi, ma è innegabile che gli abusi ci siano stati e che i controlli amministrativi e giudiziari non siano riusciti a contenerli.
La zona grigia tra subordinazione e autonomia
Questo fenomeno ha allargato di molto i confini di un’ampia zona grigia tra lavoro subordinato e autonomo, senza particolari tutele né forza sufficiente per competere e proteggersi “a mani nude” sul mercato. Nemmeno quando a questi lavoratori si concedeva più autonomia nella gestione del proprio lavoro e dei propri orari – e magari anche la possibilità di lavorare per altri committenti – si raggiungeva quell’indipendenza economica e organizzativa tipica di un libero professionista tradizionale. Diversi paesi avanzati hanno reagito a questi fenomeni in maniera dissimile e ondivaga.
In Italia, a partire dal 1973 la disciplina del processo del lavoro, una normativa che – soprattutto se confrontata con il rito civile dell’epoca – era particolarmente favorevole ai lavoratori, fu estesa anche ai cosiddetti collaboratori coordinati e continuativi. Nessuna regola “sostanziale” del diritto del lavoro, a parte una norma strettamente legata alle controversie tra datori di lavoro e lavoratori, venne applicata a questi collaboratori: niente ferie, malattia, disciplina della retribuzione, limitazione dei licenziamenti o altro. I collaboratori coordinati e continuativi, che col tempo assunsero l’etichetta giornalistica di “co.co.co.”, rimanevano comunque lavoratori autonomi e, in caso di problemi coi propri committenti, potevano sì rivolgersi al giudice del lavoro, ma senza rivendicare protezioni giuslavoristiche.
La norma segnalò alle imprese, ben oltre l’intenzione del legislatore, che esistessero “in natura” dei lavoratori che, pur somigliando molto ai subordinati, non lo erano del tutto, e quindi non godevano di particolari tutele legali. L’azienda poteva intervenire sul loro lavoro, anche se non proprio come si fa con i subordinati – di qui il coordinamento nell’acronimo co.co.co. – mentre la continuatività indicava che il rapporto poteva durare anche a lungo: il tutto senza pagar dazio al diritto del lavoro. Insomma, il legislatore dava inconsapevolmente un segnale di apertura a modalità di lavoro quasi subordinate, eppure decisamente più economiche, esattamente quando si stava per aprire la stagione delle esternalizzazioni produttive e della “fuga” dal diritto del lavoro.
Il lavoro quasi subordinato, o «parasubordinato», come si disse allora, divenne una realtà sempre più importante, che ancora oggi resiste. Anche in questo caso, a situazioni del tutto genuine di stretta sinergia tra imprese e collaboratori, nel rispetto della loro autonomia, si affiancarono rapporti che di autonomo, coordinato o meno, non avevano nulla. I co.co.co. divennero per molti l’unica forma di accesso a determinate professioni, specie nel terziario, a volte con la speranza di una successiva entrata in azienda con i crismi e le tutele del lavoro subordinato, a volte come permanente e unica alternativa alla disoccupazione.
Il mercato del lavoro venne “drogato” dall’iniezione di questa forza lavoro a costi inferiori, tanto che determinati settori non riuscirono più a fare a meno di questi rapporti più economici. Ancora adesso ci sono interi servizi di call-center che, con la minaccia di trasferire le sedi all’estero, riescono a impiegare i centralinisti come, di fatto, collaboratori coordinati e continuativi e, quindi, lavoratori autonomi sulla carta. Il centralinista “autonomo” è una di quelle peculiarità del mercato del lavoro italiano che è pressoché impossibile spiegare all’estero.
La diffusione di queste forme contrattuali sottocosto e i loro effetti negativi non solo sui lavoratori interessati (che pure non dovrebbero essere trascurati), ma sull’intero sistema produttivo italiano, sono tra le cause più ignorate della nostra scarsa crescita. Il ribassamento artificiale del costo del lavoro – un vero e proprio trasferimento di risorse da lavoratori, fiscalità e previdenza alle imprese – ha distorto gli incentivi di queste ultime, rendendo meno urgente innovare e cercare aumenti di produttività tramite investimenti in nuove tecnologie, ricerca e sviluppo. La scarsa produttività, tipica delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi, molti dei quali autonomi solo sulla carta, è uno dei principali problemi del nostro sistema economico. L’impatto della disponibilità di lavoro sottoprotetto sulla (scarsa) propensione a innovare rimane, tuttavia, ben poco analizzato dagli specialisti.
Gli effetti distorti del sottocosto
L’altro effetto del lavoro parasubordinato fu una diffusa sottrazione di risorse al sistema pensionistico: i contributi previdenziali per i co.co.co. erano, inizialmente, inesistenti. Dal 1995 si decise di introdurre un particolare regime pensionistico per i collaboratori, basato sulla cosiddetta “gestione separata” dell’INPS. I contributi vennero inizialmente fissati al 10%: meno di un terzo rispetto al lavoro subordinato.
Lungi dal disincentivare il ricorso a queste forme di lavoro, la gestione separata fece passare il messaggio della definitiva accettazione del lavoro parasubordinato come alternativa low cost rispetto alla subordinazione. Oltre che svantaggiosa per i collaboratori, a lungo andare la situazione sarebbe diventata insostenibile per il sistema previdenziale. I contributi sono stati progressivamente innalzati fino a superare il 30%; nel frattempo, però, molti lavoratori hanno provveduto a costruirsi una posizione previdenziale debole, che condurrà a pensioni del tutto insufficienti.
A questo si è affiancata per lungo tempo una protezione del lavoro inesistente in fatto di maternità, malattia, licenziamenti. Per reagire a una situazione insostenibile, a partire dal 2003 si sono introdotte maggiori tutele sostanziali per i parasubordinati grazie alla legge Biagi, ad esempio in caso di infortunio o malattia, ma soprattutto si è avviata una lotta contro i “falsi” co.co.co. che nascondevano un rapporto di lavoro subordinato. Ne è nato un contenzioso vasto e imprevedibile negli esiti. Molti lavoratori, però, rimanevano comunque imbrigliati in rapporti senza alcuna autonomia e con pochissime tutele. Per alcune imprese, rischiare una causa – che di rado si intentava – era più conveniente che rinunciare alla comoda scorciatoia della parasubordinazione.
Nel 2012 si tentò un’ulteriore stretta, aumentando le tutele e le norme di contrasto alla falsa autonomia: i numeri dei parasubordinati iniziarono a calare, dal 2012 al 2018 si sono ridotti di circa il 34%, anche perché divenne più semplice assumere con altri contratti non-standard, come lavoro in somministrazione, a tempo determinato o a voucher.
Nel 2015, il Jobs Act ha adottato un cambio radicale di rotta. Si è deciso che i collaboratori la cui attività lavorativa era “organizzata” dal committente – cioè la stragrande maggioranza dei co.co.co. fintamente autonomi – avessero diritto a tutte le tutele del lavoro subordinato. Questa tutela legale può essere sostituita da altri regimi protettivi concordati da sindacati e datori di lavoro, tramite un contratto collettivo. Alla disposizione il governo Renzi ha accompagnato una riforma a tutela dei lavoratori autonomi genuini, presentata come il «Jobs Act del lavoro autonomo», che si prefiggeva di offrire tutele contro il ritardo nei pagamenti del compenso e in caso di recesso del committente.
Per quanto apprezzabili nelle intenzioni, questi interventi non si sono rivelati risolutori. La parte dedicata agli autonomi “genuini” non è ancora, al momento in cui scriviamo, del tutto funzionante, perché i decreti attuativi non sono mai stati emanati. Quanto ai parasubordinati, la norma del 2015 è stata, in un primo momento, fortemente depotenziata dai tribunali. Molti commentatori avevano sostenuto che la norma sarebbe stata di certo applicata al caso dei riders: quale altro lavoro potrebbe dirsi più “organizzato” dalla controparte di quello dei collaboratori assunti con contratti di collaborazione per fare i fattorini? Dopotutto, la piattaforma distribuisce il lavoro, decide il prezzo delle corse e sanziona i fattorini che non rispettano le istruzioni con perdite di turni o riduzione dei carichi. Eppure, le prime sentenze hanno ritenuto che la norma fosse scritta in maniera tale da essere inutile: una norma “apparente” – altra stranezza tutta italiana – incapace di produrre alcun effetto protettivo. Pur rettificando questa bizzarria, altri giudici hanno però deciso che non tutto il diritto del lavoro si dovesse applicare ai lavoratori interessati, ma solo una sua minima parte. C’è voluta una sentenza della Corte di cassazione, al terzo grado di giudizio, per stabilire come la norma sia perfettamente applicabile ai riders e le protezioni legislative vadano applicate per intero, a meno che un contratto collettivo non disponga diversamente. Alla fine del 2019 si è anche di nuovo intervenuti per rivedere il testo della legge in una direzione ancora più inclusiva: ma non mancano le resistenze alla piena attuazione di questo rimaneggiamento.
Rimediare alle storture. Che succede nel mondo?
La zona grigia tra subordinazione e autonomia non crea problemi solo in Italia. Altri paesi hanno sperimentato forme di tutela limitata per i lavoratori autonomi “dipendenti”: tra questi, in Europa, l’Austria, la Spagna e, soprattutto, il Regno Unito. Le tutele estese a questi lavoratori sono più consistenti di quelle un tempo concesse in Italia: i corrispondenti british dei co.co.co. – chiamati workers, per distinguerli dagli employees, i subordinati a tutti gli effetti – hanno diritto, tra l’altro, al salario minimo e alle tutele sull’orario di lavoro. Negli Stati Uniti, proprio in seguito all’esplosione della gig-economy, alcuni commentatori hanno proposto di adottare una categoria di lavoratori intermedia tra autonomia e subordinazione per tutelare parzialmente i platform workers senza obbligare le piattaforme al rispetto di tutto il diritto del lavoro. Per il momento, però, non se ne è fatto nulla (anche se in California ci si è andati molto vicini). Del resto, la riflessione comparata più recente ha messo in luce come introdurre queste categorie intermedie non abbia sufficientemente protetto tutti i lavoratori bisognosi di tutela, finendo, oltretutto, per aumentare il contenzioso, visto che si “litiga” sui confini fra tre categorie invece che due.
Rimangono anche irrisolti alcuni snodi critici: i lavoratori autonomi, inclusi i parasubordinati, sono spesso esclusi da diritti fondamentali come i divieti di discriminazione e la libertà sindacale che – anche a livello europeo – sono, di fatto, significativamente compressi per chi non è subordinato. Sia in Italia sia nel resto del mondo sono state allora avanzate diverse proposte per rendere universali alcune fondamentali protezioni sul lavoro. La CGIL ha presentato una Carta dei diritti fondamentali sul lavoro che estenderebbe di fatto le protezioni del diritto del lavoro – con poche eccezioni – anche ai co.co.co. e ai lavoratori autonomi tout court. Progetti di riforma che vanno nella stessa direzione sono stati avanzati da studiosi vicini ai movimenti sindacali in Francia e Regno Unito.
Una proposta particolarmente importante è stata poi presentata, a livello internazionale, dalla Commissione globale sul futuro del lavoro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. L’OIL è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di lavoro ed è gestita, unica tra le grandi organizzazioni internazionali, da organi “tripartiti” formati da rappresentanti di governi nazionali, associazioni sindacali e associazioni dei datori di lavoro di tutto il mondo.
Nel 2019, l’OIL ha celebrato il proprio centenario, essendo stata istituita nel 1919 dal Trattato di Versailles che pose fine alla Prima guerra mondiale, sulla considerazione che «una pace universale [...] può essere fondata soltanto sulla giustizia sociale». In occasione dell’anniversario si è deciso di convocare una commissione fatta di 27 esperti indipendenti provenienti dal mondo accademico, imprenditoriale e del lavoro di diversa estrazione geografica. La Commissione aveva il mandato di formulare proposte per guidare il lavoro dell’OIL durante il suo secondo secolo di vita. Tra queste, si è suggerita l’adozione di una Universal Labour Guarantee (ULG).
La ULG comprenderebbe, innanzitutto, i Principi e i diritti fondamentali nel lavoro che già adesso l’OIL considera universali e validi per tutti i lavoratori senza distinzione tra autonomi e subordinati: libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva, eliminazione del lavoro forzato, abolizione del lavoro minorile ed eliminazione delle discriminazioni sul lavoro. Il perseguimento di questi obiettivi è già obbligatorio per tutti gli Stati membri dell’OIL, che monitora attentamente la loro, spesso difficile, attuazione.
La ULG aggiungerebbe a questi diritti universali anche la tutela della salute e la sicurezza sul lavoro e la garanzia di «limiti all’orario di lavoro» e di «un salario adeguato». Per la Commissione questi diritti dovrebbero essere garantiti indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro e proteggerebbero quindi anche i lavoratori autonomi. Per adesso, l’OIL ha recepito molto blandamente la raccomandazione fatta dai propri esperti indipendenti, confluita solo in parte nella versione finale Dichiarazione del Centenario dell’OIL per il Futuro del Lavoro. Già il fatto che se ne sia a lungo parlato, tuttavia, è un passo avanti significativo.
Del resto, che il diritto internazionale del lavoro non possa più proteggere solo i subordinati è sempre più chiaro. Nel 2019, nell’approvare una storica Convenzione contro la violenza e le molestie sul lavoro, i delegati degli Stati membri, dei sindacati e dei datori di lavoro hanno stabilito in sede OIL che tutti i lavoratori, inclusi gli autonomi ma anche i volontari, chi ha perso il lavoro e chi lo cerca, vadano protetti contro condotte violente e moleste.
L’universalismo di determinate tutele, perciò, è sempre più centrale nel dibattito. A questo proposito, qualche anno fa due studiosi d’oltremanica hanno proposto una sorta di “rivoluzione copernicana” del diritto del lavoro. Invece che agire di cesello sui confini tra subordinazione, autonomia e categorie intermedie, il diritto del lavoro dovrebbe proteggere chiunque “lavori personalmente”. Tutti i lavoratori, senza distinzioni di inquadramento, dovrebbero essere tutelati a meno che non impieghino, a loro volta, altre persone o dispongano di mezzi e capitali tali da renderli, di fatto, piccole imprese.
Si riconoscerebbe una volta per tutte che il bisogno di protezione non riguarda solo il lavoro subordinato. E si prenderebbe atto, senza ipocrisie, del fatto che le nuove tecnologie rendono sempre più sottile e arbitraria la linea tra subordinazione e autonomia, consentendo alle imprese di espandere i poteri datoriali, anche tramite software e algoritmi, ben al di là della formale subordinazione. Insomma, non è da scartare l’ipotesi che allo sbriciolamento dei confini tra subordinazione e autonomia si possa reagire non con un irrobustimento delle barriere, ma con il loro abbattimento totale.
Per evitare guerre di logoramento sui connotati specifici delle categorie, si potrebbe sviluppare una costruzione più ampia dell’ambito soggettivo delle tutele a beneficio di quanti siano “ingaggiati da una parte terza per fornire lavoro in assenza di una dimensione imprenditoriale autonoma”. Questa operazione dovrebbe accompagnarsi a un aggiornamento dell’ambito di applicazione delle tutele lavoristiche.
Si tratta, ovviamente, di una proposta radicale e che richiederebbe tempo e aggiustamenti, anche tramite la contrattazione collettiva. Avrebbe però il pregio di rovesciare l’attuale paradigma protettivo basato sulla necessità di provare, spesso in modo difficoltoso, di essere subordinati invece che autonomi, con tutte le incertezze che ne derivano.
In Italia, muoversi in questa direzione comporterebbe di sicuro una profonda revisione delle categorie giuridiche tradizionali. Ma, a ben vedere, i risultati pratici potrebbero essere non così distanti, sui grandi numeri, da quelli che la riforma della parasubordinazione nel 2015 lasciava prevedere. Sarebbe però, forse, un modo più trasparente e chiaro di arrivarci, senza dimenticare che la nostra Costituzione impone la tutela del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni» e che i lavoratori autonomi, finora, sono quasi sempre stati lasciati colpevolmente fuori da ogni tutela effettiva. C’è da domandarsi cosa aspettino le istituzioni dell’Unione Europea a farsi carico di questa sfida. Ma c’è anche da immaginare che gli sconquassi sociali che attraversano il mercato del lavoro imporrano il ritorno a un’agenda sociale più ambiziosa che fornisca soluzioni concrete a tutti i lavoratori non-standard e sottoprotetti, la cui “essenzialità” – dopo esser stata sancita per decreto – è oggi sotto gli occhi di tutti, specie durante l’emergenza COVID-19.
La lezione della pandemia
Che una fetta sempre più larga dei lavoratori non subordinati sia meritevole e bisognosa di protezione, del resto, è emerso drammaticamente negli ultimi mesi in occasione della pandemia. Sia negli Stati Uniti che in molti paesi europei, Italia inclusa, i legislatori hanno adottato parziali misure di sostegno ai lavoratori autonomi, includendo – spesso espressamente – i lavoratori tramite piattaforma. Sono stati previsti pagamenti una tantum (come i famosi 600 euro ai lavoratori autonomi in Italia), estensione delle indennità di disoccupazione ai platform workers (ad esempio, negli USA), sussidi al reddito e tregue fiscali e sui mutui.
C’è da sperare che la parziale inclusione di questa parte sempre più importante della forza lavoro nell’ambito di regimi protettivi non svanisca alla fine della crisi, ma che anzi sia allargata e diventi un dato strutturale, correggendo anche le storture e i limiti che hanno caratterizzato le misure straordinarie. Il bisogno di protezione di questi lavoratori è tutt’altro che contingente. Bene, quindi, che si sia agito in loro favore durante l’emergenza sanitaria, ma va compreso che c’è bisogno di un nuovo equilibrio strutturale nella direzione della maggiore protezione del lavoro di tutti. Più volte si è detto che le sfide poste dal lavoro tramite piattaforme si estendono ben oltre le dimensioni occupazionali, contenute ma comunque in crescita, del settore della “gig-economy”. Da un lato, il modello seducente di “irresponsabilità organizzata” promette di essere replicato in altre aree del mercato del lavoro, dall’altro, l’eccezionalità con cui si guarda a questo fenomeno rischia di rappresentare una delega in bianco a processi di autoregolazione (e deregolamentazione) che sconfessano l’impianto normativo esistente, vanificando per giunta ogni tentativo di offrire soluzioni adattabili al mondo del lavoro in trasformazione.
Mentre i governi si sono affrettati a varare programmi di sostegno al reddito a beneficio dei lavori dipendenti e con agevolazioni per le imprese, milioni di autonomi – che lavorano “presso se stessi”, per committenti unici, attraverso piattaforme digitali o altri intermediari – si trovano in un limbo di impotenza e devono affrontare la povertà e l’indigenza, nonostante l’introduzione tardiva di programmi governativi apparentemente cuciti addosso alle loro esigenze. Emergono inoltre sempre più insistentemente segnalazioni di ampie fasce di lavoratori autonomi che non hanno accesso alle misure di ristoro e sostegno economico. A ciò si aggiunga il fatto che, nel corso degli anni, gli stessi autonomi hanno perso una vasta gamma di diritti statutari e collettivi del lavoro, mentre non sono riusciti a raggiungere la sicurezza economica e l’autonomia nel mercato di cui godono tipicamente le imprese di successo. Per superare la crisi generata dalla pandemia da COVID-19 serviranno coesione sociale e solidarietà senza precedenti. Ci sarà soprattutto bisogno di riscoprire principi senza tempo, come quello secondo cui “il lavoro non è una merce”. Accettare che tutti coloro che si guadagnano da vivere con il loro lavoro personale debbano essere riconosciuti come lavoratori, e protetti di conseguenza, dovrebbe essere una priorità politica chiave e urgente.
*Articolo in parte estratto del libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano (Laterza Editore, 2020)
Immagine in anteprima: Foto di Davide Alberani – licenza creative commons CC BY-SA 2.0