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La vita bugiarda degli adulti, il torpore fritto della città

8 Gennaio 2023 7 min lettura

La vita bugiarda degli adulti, il torpore fritto della città

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Di Elena Ferrante, autrice senza volto né identità anagrafica acclarata, ho letto ogni romanzo e me lo sono fatta rileggere dalla voce di Anna Bonaiuto negli audiolibri Emons, visto ogni trasposizione filmica e televisiva a partire da Mario Martone, letto gli articoli, le interviste, i saggi di e su; m'è sempre parso che sgarbugliasse con una scrittura limpida e articolata l'ampia materia del femminile, le scienze del crescere, dell'essere e del diventare in una città, Napoli, che per quanto percorsa e scossa da cambiamenti, finisce poi per restare uguale a sé stessa. A fine 2019, ho quindi comprato, letto e terminato La vita bugiarda degli adulti in una sola giornata. Non mi piacque o forse è più corretto dire che, poiché mi era sempre piaciuto tutto e tantissimo, le mie aspettative erano tanto alte che fu semplice restarne delusa. Mi sembrò che Ferrante avesse rimpastato storie, nomi, temi, pezzi di gioielleria e pezzi di città con minore efficacia e che, come succede agli impasti veri e propri che tante volte ho visto lavorare, il legame non avesse tenuto, la magia della lievitazione riuscita solo a metà, il forno aperto troppo presto. Eppure ci ho riprovato e ho visto la nuovissima serie Netflix per la regia di Edoardo De Angelis. Prima percezione, a caldo: il casatiello qui è riuscito meglio, ma – se il paragone con i capisaldi della cucina tradizionale napoletana regge ancora – gli ingredienti sono stati presi da quelle buste sottovuoto di insaccati e formaggi già pronti e tagliuzzati che, con l'approssimarsi delle feste comandate, trovi alla rinfusa nel banco frigo dei supermercati cittadini. 

Già visto, già letto, è questo il problema? Spoiler: no

La vita bugiarda degli adulti è il primo romanzo di Ferrante dopo il grande successo internazionale dei volumi de L’amica geniale. Ancora una volta una storia di formazione napoletana, ma più breve e raccolta, con la tredicenne Giovanna detta Giannina che entra in contatto e collisione con la parte disconosciuta della sua famiglia e della sua città, nella Napoli degli anni Novanta. Alla borghesia un poco ipocrita di genitori e amici di famiglia, tutta ideologia e poco impegno, cene in salotto e terrazze vista mare, si contrappone quindi l’umanità dolente e concreta della periferia, della zia che parla chiaro e in faccia e, se proprio deve credere in qualcosa, preferisce la comunità, la chiesa, Dio nella versione degli ultimi e la politica nell’esercizio della condivisione e della lotta. Una maturazione che sembra andare, quindi, geograficamente, in direzione contraria a quella di Lila e Lenù, ma il personaggio di Giannina pare prendere le fila da quello di Dede, primogenita della voce narrante dell'Amica Geniale, Vittoria ricorda costantemente, ma con minore tragicità, la Lila adulta dell'ultimo capitolo della tetralogia, l'uomo amato – l'unico a cui tributare ricordo – ha lo stesso nome, Enzo; c'è, in entrambi i casi, fortunatamente con rivolgimenti diversi, un braccialetto a segnare legami; l'area in cui si muove parte della narrazione è vicinissima a quella del Rione e già connessa e incasellata nel primo romanzo di Ferrante, L'amore molesto. Ciò può piacere o meno, ma di sicuro non stupisce i lettori affezionati, abituati a trovare nelle storie di questa autrice il germe di nuove storie, i temi portanti e ricorsivi della marginalità urbana, dell'autodisciplina, delle bambole, della “poverella” impazzita per amore. 

Ma quante volte è possibile immaginare e raccontare la stessa identica storia? Tutti i fan delle strutture ricorsive manderanno a memoria Umberto Eco e ciò che “ci diverte non rivelandoci qualcosa di nuovo, ma ribadendoci quello che sapevamo già”. Altri citeranno gli Esercizi di stile di Raymond Queneau che partiva da una singola, banalissima scena – un tizio sballottato su un autobus zeppo – per farne 99 versioni differenti, uguali per trama e svolgimento dei fatti, difformi per struttura retorica, dal volgare all'ampolloso, dal comunicato stampa al sonetto e via dicendo. Ma basterebbe aver guardato Beautiful per un paio di mesi o ricordare la scena di Caro diario di Nanni Moretti per sapere che la riproposizione di stilemi narrativi funziona. A quanti prodotti culturali, audiovisivi, narrativi, musicali, italiani e non, di oggi e di ieri, potremmo applicare e spuntare le caselle “corna tra coniugi”, “tradimento da parte di un'amica”, “fascinazione per il bello e impossibile che si rivela poi alquanto meschino”, “quartiere ricco versus sobborgo poverissimo”, “adolescenza difficoltosa e inquieta ma vera e pura”, “maturità che si raggiunge solo andando via”? La vita bugiarda degli adulti esaurisce l’intera casistica ma se c'è un problema non è il già visto, già sentito o già letto, quanto una confusione e sovrapposizione di elementi ancora freschissimi nella memoria del pubblico, evidente nel romanzo quanto nella versione serie.

In molti episodi c'è un rimando, soprattutto nell'uso diegetico e politico della musica, all'ultima stagione dell'Amica Geniale con la regia di Daniele Lucchetti, e c'è un attore, Giovanni Buselli, lì Enzo Scanno e qui Roberto Matese. Ma più che ritrovare atmosfere da altre trasposizioni a partire dall'opera Ferrante, lo spiritello che aleggia con stupore di molti è un altro, è quello di Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio distribuito, oltre che nelle sale cinematografiche, proprio da Netflix. Forse è inevitabile, a distanza di un anno dall'uscita del film candidato all'Oscar, far paragoni e trovare similitudini tra protagonisti adolescenti, nomignoli che allungano invece di abbreviare il nome di battesimo, cuffiette sulle orecchie, borghesi benestanti che si dichiarano comunisti, motorini, e soprattutto Napoli, bluastra, città alta e città bassa sempre contrapposte, ora metà anni Ottanta, ora metà del Novanta. Ed eccola, dunque, la vera domanda: oltre che consumare storie, è possibile che si stia consumando una città?

Napoli, scenario dell'anima (e Vittoria direbbe “e chi v'è muorto”)

Se pare urgente parlare oggi di turismo sostenibile a Napoli, è giusto o possibile parlare di una narrazione che non si riverberi franando sulle sue fragili spalle? Certo è che prima o poi bisognerà cominciare a chiedersi in termini di determinismo sociale, quanto le produzioni audiovideo ambientate a Napoli abbiano influito sull'idea che di Napoli hanno i napoletani stessi. Per lungo tempo, soprattutto durante e post Gomorra, gli abitanti si sono sentiti investiti, chi più e chi meno, del ruolo di difensori di un vivere assai meno pulp e teatrale di quanto mostrato nella serie Sky; nel 2017, il Comune guidato da Luigi De Magistris istituì addirittura uno sportello a tutela della città per raccogliere segnalazioni dei cittadini su pregiudizi e narrazioni tossiche, lesive della reputazione di Napoli. Molti, non comprendendo pienamente che il racconto fiction non nobilita né ferisce il quotidiano nel lungo periodo, hanno gioito dell'attenzione che la città si stava guadagnando a livello d'immagine. Ma sul quotidiano incidono i servizi ai cittadini, sempre scarsi, ed è così che, nel quotidiano, il cittadino si trova a guardare sullo schermo la città che ha sotto i piedi e fuori dalla finestra, provando nostalgia quasi fosse emigrato. 

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La vita bugiarda degli adulti diventa la sincera inesistenza di tanti ragazzi di ieri: chi, negli anni Novanta aveva sul serio gli anni di Giannina, l'età in cui si vuole che tutto passi e in fretta, ritrova oggi la meraviglia di Piazza del Plebiscito con la Montagna di sale di Mimmo Paladino e si fa trascinare nella visione, più che dalla trama, dalla musica dei Massive Attack, degli Almamegretta, dei 99Posse, di un Gigi D'Alessio ancora sconosciuto fuori dalla rete dei vicoli del centro storico. Ma mentre monta la polemica sulla rappresentazione scenica degli spazi autogestiti e occupati come Officina 99, il pezzo succoso di discussione, su cui potrebbe risultare addirittura utile dibattere, non è stato ancora toccato: il racconto di una sinistra cittadina progressista e borghese, i cui ideali suonano come un ossimoro. Non sono nati nella povertà economica, resistono solo nella volontà di onorare con la memoria, battaglie che nel quotidiano si sono già vinte, la cui fatica è stata più che smaltita. In Mi manda Picone di Nanni Loy, la lotta di classe era commutata nella bella casa a via Manzoni, nel televisore nuovo; ne La vita bugiarda degli adulti il sol dell'avvenire sta nell'acquisto di una casa al Rione Alto e nelle amicizie a Posillipo. Ma per la Festa dell'Unità bisogna tornare in periferia, riconoscere il valore dei margini e degli ultimi, ascoltarli e discutere con loro, dire sì, siete voi, è qui, che comincia tutto. Guardarsi alle spalle è inevitabile quando ci si guarda allo specchio, un po’ per comodità, un po’ per necessità, si devono ad un certo punto riconoscere somiglianze, punti di comunanza, di origine e di arrivo. Una Napoli dell'anima, ma, in coerenza con il personaggio di Vittoria, dovremmo dire “dell'anima 'e chi v''e muorto”. 

L’ultimo punto di cui tener nota sta proprio nel linguaggio de La vita bugiarda degli adulti, il grande uso di imprecazioni, modi di dire, frasi fatte, dialetto. Roberto che va di fretta tiene “a neve dint''a sacca”, la neve in tasca, pronta a sciogliersi; Giovanna, per crescere, deve fare “capa e cesso”, ovvero farsi male nello scontro con la realtà più sporca, e la frase mantra, ripetuta di continuo a circostanziare le prospettive sfalsate dall’età: “Quann’ si piccirill’, ogni cosa te pare grossa. Quando si gruoss, ogni cosa te pare niente”. Ma perché da anni sembra che a Napoli si parli tutti solo per massime di vita, in distico elegiaco, traendo verità universali da qualsiasi cosa? Esempio: prendiamo la frase 'A vita è tosta e nisciuno t'aiuta. Traduzione: "la vita è dura e nessuno ti aiuta". Chi l'ha detta? a) Vittoria in La vita bugiarda etc.; b) La mamma di Lenuccia in L'amica Geniale; c) Immacolata Savastano in Gomorra; d) Un personaggio minore di Mina Settembre. Scelga, il lettore, quanto ritiene più plausibile prima di accorgersi che è lo smarrito Pasquale Lojacono in Questi fantasmi di Eduardo De Filippo, anno 1945, a riprova ulteriore che non ci si sta inventando niente di nuovo e che questa battuta starebbe bene a tutti i personaggi, quasi parlassero tutti la stessa lingua. Con il loro dire s’annullano confini, dualità, rivalità, tempo e paragoni. Napoli sempre doppia trova così unione nel racconto e, nella sovraesposizione narrativa, vede la saturazione di panorami, usi, costumi, caratteri, musica. Ma la vera stagione a cui fare attenzione non è quella di una serie tivù, ma quella del record turisti, folla che prende la forma del vicolo in cui si dipana e, mangiando cuoppi di fritto, occupa la città. 

(Immagine in anteprima: grab via YouTube)

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