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La vera doccia gelata in Italia è sulla ricerca #icebucketchallenge

26 Agosto 2014 7 min lettura

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La vera doccia gelata in Italia è sulla ricerca #icebucketchallenge

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Articolo in partnership con Fanpage.it

(ha collaborato Andrea Zitelli)

Una secchiata d’acqua gelata contro la sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e a favore della ricerca. Questo il senso dell’iniziativa benefica #IceBucketChallenge che in America ha riscontrato un grande successo, dimostrato dalle cifre raggiunte dalle donazioni alla Als Association rispetto a quelle raccolte l'anno scorso, anche se alcuni esprimono perplessità sulla sua efficacia. Felix Salmon, in un articolo su Slate, scrive che una donazione una tantum, per quanto ricca, a una associazione di beneficenza dedicata alla cura di una singola malattia difficilmente può tradursi in risultati tangibili, soprattutto nel caso di una patologia come la Sla, dove la ricerca sembra tuttora ancora lontana dal trovare una terapia, sebbene ne siano state in parte descritte la base genetica e il meccanismo di insorgenza. La scoperta di una cura per la Sla, come per altre malattie, è un obiettivo a lungo termine e quello che serve alla ricerca sono finanziamenti costanti nel tempo.

In Italia, il governo non è stato a guardare. I ministri Marianna Madia, Beatrice Lorenzin e Stefania Giannini, e prima ancora il presidente del Consiglio Matteo Renzi, si sono fatti un gavettone di acqua fredda per fare da cassa di risonanza all’iniziativa (finora in Italia sono stati raccolti fondi intorno ai 200.000 euro). Ma in Italia, oltre l’appoggio “istituzionale” a simili azioni benefiche, qual è lo stato di salute della ricerca scientifica, non solo in campo medico, rispetto a quanto avviene in Europa e nel resto del mondo?

Il paese della «scienza negata»?

Enrico Bellone, storico della scienza scomparso nel 2011, in un libro dal titolo omonimo uscito nel 2005, definiva quello italiano un caso di «scienza negata». Nel paese che pure, ancora oggi, non si manca mai di ricordare come la «patria di Galileo», buona parte della classe dirigente e intellettuale del dopoguerra non ha riconosciuto alla scienza e alla ricerca un ruolo strategico per lo sviluppo sociale, culturale ed economico, se non nella retorica dei discorsi di insediamento, in qualche riga a metà tra «i giovani» e «il Mezzogiorno». Questo a dispetto delle evidenze che in altri paesi testimoniano , in questi decenni, le ricadute che l’investimento di lungo periodo nella ricerca, pubblico e privato, ha sullo sviluppo economico di un paese. La famosa «crescita», che da anni riempie dibattiti, talk show ed editoriali e che sembra sempre più un obiettivo impossibile per un paese di recente ripiombato nella recessione.

«Dobbiamo fare di più per la crescita» è una affermazione che l’assuefazione al rumore quotidiano dello scontro politico e del suo racconto mediatico fa sembrare ormai una litania priva di senso, perché suona retorica, perché è lo stratagemma per cavarsi d’impaccio da una domanda (che conosce già la risposta), perché, soprattutto, è l’effetto di una visione cortissima, che si spinge alle prossime elezioni e non a quello che saranno il proprio paese e il mondo tra cinquanta anni.

Non è solo una questione economica. Le imprese devono investire in ricerca e sviluppo se non vogliono soccombere di fronte alla concorrenza di mercati sempre più aggressivi, ma lo Stato ha la responsabilità anche di far prosperare la ricerca fondamentale, quella “curiosity-driven”, spinta solo dalla curiosità e dalla volontà di far avanzare la frontiera della conoscenza. Non si investe nel progetto Genoma solo per le possibili applicazioni in campo medico, ma anche per comprendere chi siamo e qual è il «posto dell’uomo nella natura» e se è stato possibile raggiungere questo traguardo è grazie ai decenni e secoli di studi alle spalle.

Tutto questo è da molto tempo assente dall’orizzonte di gran parte della nostra classe dirigente, non solo nelle istituzioni. L’indifferenza, quando non la diffidenza, verso la scienza come motore dell’economia e impresa culturale corre lungo una linea che è da tempo trasversale a ogni divisione politica e religiosa o non religiosa. Vive di narrazioni mitiche e immagini da cartolina, come quella dell’Italia “paese del turismo”, con un futuro di prosperità assicurata grazie ai milioni di persone in tutto il mondo che non aspettano altro che spendere il loro denaro per una vacanza nel “Bel Paese”. Miti che diventano profezie di economisti:

«L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro nel turismo».

Luigi Zingales

Una ricetta per accelerare il declino, non certo per fermarlo.

L'indifferenza-diffidenza produce scelte politiche e di governo, come quelle, proprio nel campo delle biotecnologie, che hanno portato allo smantellamento, di fatto, della ricerca pubblica italiana sugli Ogm. Perché nel «made in Italy» che si pretende di difendere non c’è evidentemente quella ricerca che era impegnata a tutelare proprio le nostre produzioni migliori.

E diventa tragica farsa in casi come quello Stamina, dove un intero parlamento, quasi all’unanimità, a dispetto degli appelli della comunità scientifica, stanzia fondi per sperimentare una pseudo-cura in un ospedale pubblico.

Troppi laureati e università in Italia?

Non si può investire nella ricerca se non si investe nell'istruzione e nell'università. Eppure molti sono convinti che in Italia l'offerta formativa sia eccessiva rispetto alle richieste del mercato del lavoro  e che ci siano più laureati di quanti se ne possano impiegare. Ma è vero? Non secondo il rapporto dell’Anvur (l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca) del 2013 sullo stato della ricerca in Italia, che evidenzia come nel nostro paese la percentuale dei laureati rispetto alla popolazione, il 13,8%, sia di molto inferiore alla media Ue, che è pari al 24,5%, e alle percentuali che si registrano nei principali paesi europei (Regno Unito 34,7%, Spagna 29,6%, Francia 27,9% e Germania 24,1%).

Il dato non migliora se si restringe il suo calcolo alla fascia compresa tra i 25 e i 34 anni, nonostante l’aumento dell’ultimo decennio: 22, 3%, contro una media Ue del 35,3. A fronte dell’obiettivo che si è dato l’Unione Europea di portare entro il 2020 al 40% la percentuale dei laureati nella popolazione tra i 30 e i 34 anni, il ritardo italiano appare ancora più grave e il mito dei “troppi laureati” ancora più insostenibile.

Troppe università? Un rapido calcolo del numero degli atenei in rapporto alla popolazione evidenzia che in Italia non ci sono troppe università, né troppo personale docente in rapporto al numero di studenti.

L’Anvur ricorda che la spesa per l’istruzione universitaria in Italia «risulta inferiore a quella media Ocse, sia in rapporto al numero degli studenti iscritti sia in rapporto al prodotto interno lordo» e che nel 2010 la spesa per studente in Italia è stata «il 30% in meno rispetto alla media dei paesi Ocse, circa il 40% in meno di paesi come Francia, Belgio e Regno Unito e il 50% in meno dei paesi del Nord Europa e degli Stati Uniti».

Chi fa ricerca in Italia e quanto si investe

La ricerca pubblica italiana si svolge all’interno delle università e degli enti pubblici di ricerca. Il principale ente pubblico di coordinamento della ricerca in Italia è il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), il cui governo spetta al ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR). L’organizzazione del CNR si compone di una  rete di più di 100 istituti suddivisi in 7 dipartimenti disciplinari.

Il MIUR vigila sull’attività di altri importanti istituzioni di ricerca pubbliche, come l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), l’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e altri.

Molti enti di ricerca dipendono da ministeri diversi dal MIUR. Tra questi il ministero dell’Ambiente, che controlla l’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (ENEA) e il ministero della Salute da cui dipendono l’Istituto superiore di sanità, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e gli Istituti zooprofilattici.

La ricerca scientifica sostenuta dal privato copre il 52% circa della spesa nazionale in ricerca e sviluppo. Come annota l’Anvur, la quota di ricerca scientifica a carico del privato in Italia risulta «particolarmente modesta» rispetto alle media Ue (che si attesta attorno al 62%). Anche l’investimento pubblico rispetto al PIL è molto inferiore alla media europea e alla media dei paesi Ocse.

Secondo l’Ocse, l’Italia nel 2012, tra pubblico e privato, ha investito in ricerca l'1,26% della ricchezza nazionale, contro una media Ue dell’1,98 e Ocse del 2,4.

Quanti persone sono impegnate nella ricerca scientifica in Italia?

Piuttosto poche, rispetto alla media europea e al numero di ricercatori in altri paesi industriali, come gli Stati Uniti:

La ricerca italiana è produttiva e di qualità?

Nel gennaio scorso lo European Research Council, un'agenzia indipendente che finanzia la ricerca all'interno dell'Unione Europea, ha pubblicato i risultati del bando "Consolidator Grants 2013".  Quello dell'ERC è uno dei bandi per la ricerca europea più prestigiosi e per risultare tra i beneficiari è necessario competere con i migliori scienziati europei.

I ricercatori italiani si sono posizionati al secondo posto per numero di finanziamenti assegnati, ben 46, appena due in meno dei ricercatori tedeschi. Germania e Italia staccano Francia e Regno Unito, al terzo e quarto posto (rispettivamente, 33 e 31).

Il rapporto dell'Anvur afferma che la ricerca italiana, nel complesso mostra una elevata produttività scientifica sia come numero di pubblicazioni che come numero di citazioni:

Per quanto riguarda le citazioni:

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l’indicatore calcolato per l’Italia è maggiore di quello medio dell’Unione Europea a 15, nonché di quello calcolato per la media dei paesi OCSE.

Inoltre la presenza di pubblicazioni italiane nella fascia di eccellenza del "top 10%" delle pubblicazioni di maggiore impatto è «superiore alla media mondiale, sostanzialmente in linea con la media dell’Europa a 15 e leggermente superiore alla media OCSE».

Questi dati testimoniano che la ricerca italiana produce molta e buona scienza, spesso eccellente, al livello dei principali paesi europei e mondiali. Questa produttività e qualità risultano ancora maggiori se messe in rapporto al basso numero di ricercatori e alla scarsità di fondi a disposizione, rispetto agli altri paesi. Non è difficile immaginare che un aumento degli investimenti e quindi anche dell'occupazione nel settore potrebbero portare a risultati ancora migliori, anche per quanto riguarda la capacità di attrarre sia i cervelli italiani in fuga che quelli stranieri, oggi spesso poco propensi a impegnare le loro energie e le loro capacità nel nostro paese.

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