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La scomparsa di un grande scienziato nell’Italia dei talk show

4 Dicembre 2011 8 min lettura

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La scomparsa di un grande scienziato nell’Italia dei talk show

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Non so voi ma io ho realizzato che la mia quotidianità, in questo tempo di crisi e angoscia, ha un volto. Non metaforico, bensì reale, personale. Anzi, un collage di più volti. Sono i visi di quelle quindici, venti persone che si scambiano le poltrone del talk show televisivo non stop che ci tiene compagnia dalla colazione fino al dopocena. Un rumore di sottofondo scandito dal ritmo del “io non ti ho interrotto, tu non interrompermi” (il dibattito sul dibattito, in pratica). Celebrities invitate a vario titolo nel salotto per dire la loro, quasi sempre banale e trita, permutando le solite cinquanta parole, su argomenti di cui non sanno niente e di cui faticano a trovare il bandolo anche molti autorevoli esperti. 

Non che voglia mettere in discussione il diritto di parola e la facoltà di ognuno di esercitarsi nelle acrobazie retoriche che più gli aggradano. Ma rifletto. Rifletto sul diritto all'informazione del cittadino, anche quello di un paese in cui formalmente la libertà di espressione e di stampa sia garantita sotto ogni punto di vista (e non è sempre questo il caso, purtroppo), ma in cui il costume dominante del discorso pubblico è quello caratterizzato da uno “spread” sempre più ampio tra fatti e opinioni. 
Perché nonostante gravi su di noi l'inesorabile condanna a una visione parziale delle cose, nonostante la ricchezza di interpretazioni che può scaturire dalla realtà, è ancora possibile convincersi dell'esistenza di risultati ed evidenze, pur nella nostra personale visione del mondo. Non si tratta di “avere ragione”, ma di individuare dei punti fermi. Anche, certo, attraverso il dibattito. Ma che sia simile più a una esperienza di comprensione intersoggettiva, una ricerca comune, che non a una babele di urla tra sordi. 
E quando al dibattito su temi importanti viene a mancare una voce preziosa, prende l'amarezza. Ed è ciò che provoca la scomparsa di uno scienziato come il genetista vegetale Francesco Sala. Ricercatore in Canada e Usa e poi qui in Italia, docente di biochimica vegetale e poi botanica, le sue ricerche lo hanno reso uno dei massimi esperti italiani di biotecnologie vegetali e dell'impiego di Ogm in agricoltura. Negli ultimi anni si era impegnato con passione nella divulgazione scientifica su questi temi, viziati come pochi altri da cattive informazioni e pregiudizi. Un dibattito in cui non sempre chi interviene lo fa con lo scopo di spiegare come stanno le cose a chi non ne sa nulla (etica della conoscenza, questa sconosciuta). 
Ma il paese di Galileo che fine ha fatto? È diventato il paese dove le migliori competenze, accumulate negli anni, vengono sacrificate sull'altare del tornaconto politico. La ricerca pubblica italiana sugli Ogm era tra le più avanzate, finchè non è calata la mannaia dei ministri Pecoraro Scanio, Alemanno e Zaia. 
La ristrettezza mentale è davvero bipartisan. Eppure anche in un contesto politicamente e culturalmente ostile come quello italiano, scienziati come Sala non hanno smesso di condurre la loro battaglia a difesa della ragionevolezza, ancora prima che della razionalità, e di impegnarsi nel loro lavoro di ricerca, lontano dai riflettori, accesi solo per illuminare qualche guru star dell'anti/alter/contro-non-si-sa-bene-cosa. Che è molto più chic di un ricercatore. 
È strano. Facciamo la fila per comprare l'ultimo modello di tablet e di smartphone o il televisore al plasma di ultima generazione, poco interessati peraltro alla scienza che c'è dietro, ma quando si parla di tecnologie che potrebbero avere impatto e utilità anche maggiori sulle nostre vite ci fermiamo a slogan come “cibo Frankenstein”, infelici tanto quanto efficaci nell'avere successo nel mercato del sensazionalismo. 
Ma in discussione non v'è nulla di fantascientifico, perché l'ingegneria genetica non è affatto la punta più avanzata della ricerca nelle scienze biologiche. È un insieme di tecniche che oggi si insegnano anche agli studenti e che sono impiegate nei laboratori di ricerca di tutto il mondo. 
Dall'inizio del dibattito sul tema e dell'utilizzo di queste tecniche sono trascorsi anni. E in questo lasso di tempo la scienza si è spinta oltre, verso frontiere ancora più lontane. Le domande che ci si è posti all'inizio erano legittime e doverose: impatto sull'ambiente, sulla salute, conseguenze economiche. Ed è necessario continuare a porsele. Ma dopo anni e anni di studi, legislazioni in materia anche molto restrittive, pubblicazioni, revisioni, discussioni, accumulo di dati, arriverà un giorno il tempo delle conclusioni? O forse erano domande che presupponevano già una risposta? Temo la seconda. Già, perché verificare le risposte significa per molti riadattare le opinioni alle evidenze e se la battaglia che si conduce è di bandiera questo non conviene. 
Nonostante la verifica prosegua anche dopo che si è dissolto il ragionevole dubbio (ciò che si fa già per farmaci e vaccini, nei limiti delle possibilità umane). Ma non importa. Ciò che conta è alimentare la paura. La paura della "contaminazione", dell'ignoto, del nuovo. Il cambiamento spaventa, soprattutto quando ci si accorge che è avvenuto ormai da tempo. Ma noi ci siamo distratti e lo abbiamo scoperto tardi. E ora lo rifiutiamo. Anche se abbiamo addosso l'etichetta di "progressisti". 
L'alternativa alla paura non è l'ingenuità o l'imprudenza, bensì la maturità. Non si tratta di fare di questa tecnologia né la panacea per ogni male dell'umanità né una peste che ci condurrà alla distruzione, ma solo di vedervi un mezzo per risolvere alcuni problemi. Invece continuiamo a costruire miti che narrano di forze in guerra permanente, divise, va senza dire, tra Buoni e Cattivi. Quindi, da una parte l'”ambientalismo” - come se avere a cuore la conservazione dell'ambiente non fosse un doveroso principio guida ma un pacchetto all inclusive da comprare a scatola chiusa e al cui interno trovare la lista delle posizioni da assumere su pressoché ogni tema - il Made in Italy, i piccoli contadini, il “naturale”, il Terzo Mondo, dall'altra, la Globalizzazione, le Multinazionali, l'”artificiale”, l'Imperialismo economico occidentale. 
Nulla di nuovo. È una mentalità vincente perché costruisce un mondo semplice e consolatorio, dove si ha ragione, sempre. Anche se si ignora che cosa sia un Ogm. Ma non importa, è meglio vivere nella convinzione che il “naturale” sia sempre buono (regalatevi un testo di microbiologia o tossicologia per Natale) e l'”artificiale” cattivo. 
La distinzione tra naturale e artificiale è essa stessa un po' artificiosa ma in generale, anche su altri temi, dovremmo smetterla di cercare nella natura un parametro per definire ciò che è bene e ciò che è male . Già oggi, tutti i giorni, ci cibiamo di qualcosa che non è “naturale”, almeno nell'accezione popolare del termine. Peraltro c'è poco di “naturale” un po' in tutta l'agricoltura tradizionale, oltre ai vari processi industriali e artigianali di fabbricazione degli alimenti che giungono sulle nostre tavole. Ma intendevo alludere a un alimento in particolare. 
Qual è questa pericolosa minaccia? Un mostro creato proprio dalla ricerca italiana e proprio attraverso una modificazione genetica, ma ottenuta non mediante la transgenesi - ovvero l'inserimento di geni esogeni - bensì l'irradiazione (e però legalmente questo non ne fa un Ogm). Non preoccupatevi, non è radioattivo, non è tossico, non ha due teste. È il grano duro creso , ottenuto, ormai quasi quarant'anni fa, da una mutazione prodotta nella varietà di grano Cappelli e che mangiamo tutti i giorni sotto forma di spaghetti e pane. E l'Ogm è dannoso, dunque, in quanto non “naturale” ? In realtà può essere vero addirittura il contrario
Gli Ogm non li abbiamo mai mangiati perché a proteggerci ci sono le catene di supermercati “Ogm free” ? Proprio per niente. 
Per citare giusto Francesco Sala:

“...Unico Paese al mondo, l’Italia proibisce, dal 1999, sia la ricerca scientifica sia il consumo di prodotti Ogm. Altri Paesi della CE (per esempio la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna) sono ancora incerti sull’uso di Ogm, ma stanziano comunque fondi per il loro studio e ormai producono e vendono quegli Ogm che la scienza ha dimostrato essere sicuri e vantaggiosi per l’economia nazionale. E poi è forse un eufemismo dire che nel nostro Paese gli Ogm sono proibiti: ne è infatti permessa la presenza sino ad un limite dello 0,9% in tutti i cibi che troviamo in commercio. Questo limite sale al 100% nel caso di alimenti per animali d’allevamento. Ciò significa che i nostri pregiati salami, prosciutti e formaggi sono prodotti da suini e bovini allevati con Ogm (soprattutto soia e mais)." 

Le biotecnologie sono talmente una minaccia per il Made in Italy che il prof. Sala era tra i più impegnati a promuoverne l'impiego proprio per la preservazione dei nostri prodotti tipici, come il celebre pomodoro San Marzano, minacciati da patologie e parassiti. 
Una delle considerazioni più ovvie che si possano fare ma, forse proprio per questo ignorata dalla classe politica nazionale, è che la ricerca pubblica è proprio ciò che ci potrebbe garantirebbe un punto di vista neutro rispetto a quello dell'industria privata. La ricerca pubblica può lavorare anche ad applicazioni che non destano l'interesse del privato, perché non commerciabili su larga scala. Può elaborare analisi che supportino la legislazione in materia e che non siano condizionate dal profitto economico, a tutela delle persone e dell'ambiente. 
Posto che nella scienza non esiste qualcosa come la par condicio, ma la revisione paritaria e la continua messa in discussione dei dati. Ma perché spendersi in ragionamenti come questi, quando ci sono già i sondaggi a dirci cosa dobbiamo pensare? Vero? 
Del resto è anche per questo che alcuni paesi non occidentali, la Cina tra tutti, hanno investito e investono in questo settore della ricerca scientifica. E nel paese del drago Sala si recò più volte per collaborare con enti come il National Institute of Forestry di Pechino , con il quale lavorò alla creazione di piante di pioppo nel cui Dna venne inserito un gene per la resistenza a un insetto patogeno. Oggi quei pioppi ricoprono 250mila ettari di terreno. 
Ancora una volta la scienza italiana è costretta a cogliere i frutti del suo lavoro e del suo ingegno lontano dal nostro Paese, a causa della miopia e della ristrettezza di visione della nostra classe dirigente ma anche per il peso di una diffusa pigrizia e indifferenza. Si potrebbe parlare dei risultati di tante altre applicazioni delle biotecnologie, anche in campi diversi da quello agricolo e forestale. La prima applicazione rilevante della tecnologia del Dna ricombinante fu la produzione di insulina umana dal batterio Escherichia coli, attraverso l'inserimento del gene umano nel genoma del microorganismo. Tantissimi altri sono gli sbocchi potenziali oggi allo studio (Le biotecnologie, in senso lato, in realtà le sfruttiamo da secoli, senza saperlo. Sono le fermentazioni dei lieviti alla base di pane, vino, birra. Artificiali? Naturali?). 
Non credo che sentiremo parlare di tutto questo nel prossimo talk show. Nemmeno in Parlamento. Il vocabolario del discorso pubblico è povero. Una volta pronunciate parole come "crescita" si ritiene di avere già detto tutto. 
Personalmente ho deciso questo: non darò credito a nessuno che parli di come uscire da questa crisi economica senza che citi, tra le risorse utili a questo scopo, la cultura e la ricerca e la passione di coloro che dedicano a esse la loro vita. 
Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura.

Giacomo Leopardi, Elogio degli uccelli (Operette Morali)

Antonio Scalari
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