La macchina del fango e il potere berlusconiano. Da D’Avanzo a Bersani
13 min letturaPiccolo test: sapreste spiegare al volo che cosa significa l’espressione «macchina del fango»? No? Questo articolo prova a rendere conto di questa difficoltà.
Facciamo un po’ di memoria.
Nel maggio di quell’anno è infatti arrestato Igor Marini, il faccendiere che aveva dichiarato, di fronte alla commissione d’inchiesta del caso «Telekom Serbia» di aver consegnato tangenti ad esponenti politici del centro-sinistra. Igor Marini a riguardo mente, e le sue menzogne sono parte di un sistema volto a gettare discredito sui politici accusati: Romano Prodi, Piero Fassino e Lamberto Dini. D’Avanzo, nell’articolo Telekom Serbia, storia di una trappola, scritto insieme a Carlo Bonini, descrive gli aspetti oscuri della vicenda fin dagli inizi, e con il solito stile limpido e lucido nell’analisi mostra il tipo di potere all’opera in quella torbida vicenda. È un tipo di potere che mette in moto su più livelli una forma di diffamazione intimidatoria, condotta sia tramite accuse e indagini in sedi istituzionali (la commissione, per l’appunto), sia tramite l’imposizione nell’agenda mediatica di queste indagini e accuse, a prescindere dalla loro validità effettiva, sia con la presenza dietro le quinte di poteri intrinsecamente occulti, come la massoneria. Si impone la loro centralità sui mass media, si impone che se ne parli, che i nomi dei politici coinvolti siano associati a parole negative, affinché si imprimano nell’immaginario dell’opinione pubblica: parole come «tangente», «concussione» e «corruzione». Se ne parla aizzando la pancia del lettore o del telespettatore, in modo che dubiti degli indagati o si schieri contro di essi, senza porsi domande sulla validità delle indagini.
Cito alcune frasi dall’articolo (i corsivi sono miei):
Quel che segue è la storia di una trappola»… «L’obiettivo della maggioranza e della Commissione è un altro: far girare le ruote di una trappola politico-mediatica, capace di distruggere immagine e credibilità del Presidente della Commissione europea [Prodi]; del leader del maggior partito d’opposizione [Fassino]; dell’ex ministro degli Esteri [Dini]»… la bulimia accusatoria ha reso impaziente Enzo Trantino. Pare che tocchi a lui mettere in moto, presto, subito, la macchina dei sospetti»… «lo schiacciasassi delle “rivelazioni”»… «La Grande Trappola svela la sua trama, i manovali, i manovratori.
Il tipo di potere indagato emerge dall’analisi di coincidenze e indizi, tanto è vero che l’ultimo paragrafo dell’articolo si chiama «Dove si racconta qualche coincidenza e ci si chiede se cinque coincidenze fanno un indizio o soltanto una somma di coincidenze». Ma nel linguaggio usato sono chiari i riferimenti a ingranaggi che si muovono per danneggiare, ossia a una accorta pianificazione, così come è chiara l’opera di esecutori materiali, con volti e nomi. Manca la visione d’insieme, e per questo D’Avanzo si mantiene cauto nel giudizio.
Le cose stanno così. Quei carabinieri che aggrediscono Piero Marrazzo in un appartamento privato, in compagnia di un viado, non sono canaglie a caccia di un bottino. Non stanno preparando un'estorsione contro il governatore. Stanno raccogliendo il "materiale" per un ricatto che sarà utilizzato da altri, in altro modo, in un'altra città, con un altro obiettivo da quello del denaro (si è mai visto un estorsore che rinuncia al prezzo dell'estorsione?). […] Schiacciano con violenza Marrazzo contro un muro. Lo obbligano a calarsi i pantaloni. Lo fotografano. Trasferiscono il video a Milano.
È Milano, con la sua industria editoriale, la scena del delitto.
[…] È la "macchina del fango", il cuore di questa storia. Il sesso l'alimenta. Le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono o possono diventare il propellente di un dispositivo di dominio capace di modificare equilibri, risolvere conflitti, guadagnarsi un silenzio servile, azzittire e punire chi non si conforma, mettere in fuori gioco o espellere dalla competizione politica gli avversari.
L'affaire Marrazzo svela, come meglio non si potrebbe, le pratiche e le tecniche di un potere che, per volontà e per metodo, abusa di se stesso mostrandosi come pura violenza.
Con quest’ultima frase D’Avanzo mostra di aver una piena comprensione del potere all’opera, di aver compreso la pericolosità della sua metafisica: È un potere che ha il monopolio sull’osceno, pronto a giustificare ogni comportamento del capo intanto che dispiega la propria rete di ricatti e intimidazioni.
Il concetto è estrapolato dal caso particolare in un articolo del 2010, Quando è nata la macchina del fango, in cui D'Avanzo replica a un Belpietro che ha ripescato la questione «Telekom Serbia» per dire che è stato il quotidiano La Repubblica a creare il caso. È un articolo di cui consiglio la lettura integrale: è infatti una lezione di stile per l’abilità e la chiarezza espositiva con cui D’Avanzo mostra le fallacie nella tesi di Belpietro, e soprattutto le insidie che questi nasconde nella contrapposizione puramente retorica. D’Avanzo dà un’ulteriore definizione di «macchina del fango», in cui sottolinea gli aspetti relativi alla professione giornalistica, la quale deraglia triturata da ingranaggi che la sviliscono a propaganda, infamia programmatica; riunisce inoltre sotto l’espressione «macchina del fango» un periodo di tempo che copre sette anni di storia d’Italia, dal 2003 al 2010. Leggiamo (corsivi miei):
Si scorgono, come in questi mesi, anche nel "caso Telekom" opportunamente sollevato da Belpietro, due modi di intendere il giornalismo: da un lato, un'informazione che vive di notizie e non rinuncia al suo impegno anche quando deve maneggiare le condotte di un'area politica cui guarda con attenzione e interesse (si comprende che a Belpietro appaia "un regolamento tra compagni": egli conosce solo regolamenti di conti e vendette); dall'altro, una comunicazione che diventa strumento brutale di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti - e anche contro i dissidenti del suo campo - campagne di diffamazione distruttive.
Parlando della macchina del fango, Saviano si concentra dunque soprattutto sul livellamento morale che produce, e sulla necessità di una risposta che ripristini il livello etico. Se D’Avanzo è interessato ai mutamenti nell’equilibrio politico che la«macchina del fango» impone con la sua violenza, che è la violenza di un potere oppressivo, Saviano è interessato all’azione del potere sul singolo, e a come, attraverso la distruzione del singolo agli occhi dell’opinione pubblica, il potere lanci a quest’ultima un messaggio volto a corromperla moralmente, aumentando il proprio terreno d’azione e la propria forza. Leggiamo (corsivi miei):
Prendi un vecchio pentito, fuori dai giochi e gli fai sparare qualche accusa, il tempo di finire sui giornali; poi magari i pm dimostrano che è falsa, ma intanto il fango ti è arrivato. Un vecchio gioco delle organizzazioni criminali che solo procure antimafia forti e integerrime riescono a sventare. La logica qui è la medesima dei quotidiani della loro area, ossia sostenere che niente è pulito, tutto è sporco, tutti si è uguali nei vizi e negli interessi. Dunque nessuno può fare la morale.
La macchina del fango vive di questo desiderio di mettere tutti sullo stesso piano: tutti corrotti, tutti viziosi. Un meccanismo che si riesce a bloccare quando non si contrappongono più santi a demoni, ma piuttosto quando si dimostra che pur nella contraddizione che è degli esseri umani, gli interessi sono diversi, le azioni sono diverse. E anche le debolezze sono diverse.
Il concetto è ribadito durante la prima puntata della trasmissione Vieni via con me. La «macchina del fango», è il messaggio di Saviano, livella in modo distruttivo la questione morale, mediante l’attacco al bersaglio designato; ciò crea un clima in cui è più facile cedere al ricatto implicito del potere, perché, in sintesi, se sono tutti uguali, se tanto è tutto sporco, tanto vale chinare la testa o voltarsi dall’altra parte, e lasciare che il potere agisca indisturbato.
La macchina del fango sputa contro chiunque il governo consideri un nemico. Con l'obiettivo non di denunciare un crimine o di mostrare un errore, ma di costringerti alla difesa. Con l'obiettivo non di mettere sulla bilancia il peso delle singole scelte, ma di equiparare tutto per poter dire che tutti siamo sporchi, che tutti commettiamo errori, che di nessuno ci si può fidare. Che non c'è speranza. Questo gioco vuole convincerci che "così va il mondo", che è possibile riuscire nelle cose solo con il compromesso, con la concessione, perché tutti in fondo si vendono se vogliono arrivare da qualche parte.
Lo spostamento di senso operato da Saviano è paragonabile a quei processi americani in cui chi parla cerca di convincere emotivamente la giuria, trasmettendo le sensazioni provate dalla vittima affinché la giuria sposi la tesi dell’oratore. In retorica si chiama movere, e si appoggia principalmente sull’enfasi e sul pathos. Nella trasmissione, infatti, Saviano cerca un precedente in linea con la sua prospettiva antropologica e morale, cerca una vittima del processo di isolamento conseguente alla diffamazione di fronte all’opinione pubblica. Il motivo è: più la vittima scelta è in grado di creare adesione emotiva, più sarà facile convincere il pubblico. Sceglie perciò Giovanni Falcone: una scelta eccellente, secondo la prospettiva del movere. Ma in ciò Saviano commette, a mio avviso, due imprecisioni. Il primo è per l’appunto lo scegliere un esempio che è fuori dalla realtà storica. D’Avanzo ha legato la «macchina del fango» al potere berlusconiano, ha circoscritto il fenomeno a tutti quei casi in cui ne vede all’opera i meccanismi che ha imparato a riconoscere. Lo ha circoscritto come parte del suo metodo d’indagine, metodo di cui fa parte, come termine ultimo, la scrittura e dunque il linguaggio. Falcone è perciò un esempio storicamente immotivato. La seconda imprecisione avviene quando Saviano ascrive al clima ostile nei confronti di Falcone critiche pubbliche e dirette, per veicolare in sostanza questa tesi: se sono arrivati a criticare, osteggiare e isolare lui, che era Falcone, che aveva motivazioni nobili su cui oggi noi siamo tutti d’accordo, non potete pensare in automatico “be’ se criticano tizio sotto sotto qualcosa è vero”, quando la macchina del fango si mette in azione. Vediamo a riguardo questo video, dove dal minuto 8. 30 circa è mostrato il diverbio tra Falcone e l’avvocato Galasso. Ora: un eccesso di critica, anche aspra, anche sbagliata, persino, volendo, sciocca, non rientra nel concetto di «macchina del fango», così come era stato inteso da D'Avanzo. Vi rientrerebbe se quella critica fosse stata precedentemente decisa, pianificata a tavolino e rilanciata attraverso i media: se fosse una critica strumentale e malevola. Ma non era certo questa l’intenzione di Galasso nel video, e infatti Saviano non lo afferma.
Questa duplice prospettiva di Saviano nel trattare la «macchina del fango», prospettiva antropologica (isolamento del bersaglio nella comunità) e morale (corruzione morale della comunità attraverso l’isolamento della vittima), se risulta efficace nel persuadere il pubblico, ha due effetti collaterali. Il primo è quello di estendere l’applicabilità dell’espressione: un conto è la critica feroce, un conto il «fango», un conto la «macchina del fango»; nel discorso di Saviano questi piani si mescolano in funzione dell’effetto che devono sortire, creando un’ambiguità che prima non c’era. Il secondo è di soggettivizzarla, spostando il centro del discorso, in parte, sullo stato d’animo di chi è bersaglio di polemiche o critiche. Ma le polemiche, di per sé, non sono un elemento estraneo ad un sistema sociale, in particolare in una democrazia. Per quanto aspro, il confronto tra Galasso e Falcone, anche a distanza di anni permette di confrontare due modi diversi di intendere la giustizia e il rapporto tra magistratura e istituzioni. Ad avercene oggi, di dibattiti così!
4. Verso le «macchine del fango»
Questo tipo di squilibrio di cui ho parlato è tendenzialmente congenito nella retorica basata sull’emozione (ogni stile retorico ha i suoi pro e i suoi contro). Ha il vantaggio di attirare l’attenzione su un problema, ha il vantaggio di trasmettere l’aspetto umano del problema, ma ha lo svantaggio di semplificare i dati, o di farli passare in secondo piano, indebolendo il piano logico. All’opposto, uno stile come quello di D’Avanzo risulta più difficile da comprendere, meno immediato, ma nel linguaggio e nelle argomentazioni restituisce tutta la complessità del problema indagato. Si diminuirebbe l’ambiguità, forse, menzionando l’origine storica dell’espressione e l’inventore, esplicitando l’omaggio linguistico di Saviano e la continuità storica del fenomeno. Così facendo sarebbe più facile contestualizzare l’espressione, e nel senso comune resterebbero più facilmente sia l’espressione sia la realtà cui si riferisce. Invece ciò non accade, tanto è vero che nel senso comune «macchina del fango» e «Roberto Saviano» vanno ormai di pari passo: io stesso, se non avessi letto il libro Inchiesta sul potere, allegato a La Repubblica in ricordo di D’Avanzo, non mi sarei chiesto: «è D’Avanzo che omaggia Saviano, o Saviano che omaggia D’Avanzo?», domanda che ha prodotto questo articolo.
Ma il problema non si esaurisce in ciò, nella mancata menzione, anche perché altrimenti D’Avanzo avrebbe avuto qualcosa da ridire, in questi anni. Il problema è soprattutto nel fatto che l’abuso acritico dell’espressione finisce per relativizzare l’espressione e quel potere strutturato attorno al conflitto d’interessi del premier; questo perché la circolazione massiccia dell’espressione ha facilitato un suo utilizzo come qualcosa di negativo, facendo scivolare via la complessità del meccanismo reale che ha originato la metafora. Il risultato? Semplice. Poiché quel potere è ancora all’opera, un simile uso finisce per favorirlo, perché la banalizzazione del rapporto tra espressione linguistica e potere occulta la vera natura di quest’ultimo. Do due esempi. Il primo è preso dalla trasmissione L’Ultima Parola. In questo spezzone Giulia Innocenzi accusa Belpietro di fare la «pratica della macchina del fango», dopo una lunga e aspra polemica in cui Belpietro, in modo assai sgradevole e meschino, ha insinuato che Giulia Innocenzi fosse giornalista per il semplice fatto di essere una bella ragazza; ha insinuato, in sostanza, di non essere seduto vicino a una collega, ma a una «velina». La condotta di Belpietro è odiosa, al limite del trolling: domanda, incalza, non lascia parlare, accusa, impedisce di rispondere. Ma Innocenzi, tirando fuori l’espressione «macchina del fango», fa la figura di chi si nasconde dietro l’accusa immotivata perché incapace di replicare. Tanto è vero che Belpietro, che è una vecchia volpe, replica dicendo «quando non sai giustificare qualche cosa parli della macchina del fango», come se la «macchina del fango» fosse null’altro che una scusa; noi sappiamo naturalmente che non è così, ma nella trasmissione questo messaggio è passato. Il risultato è di certificare il passaggio della «macchina del fango» da elemento funzionale a una struttura di potere a comportamento opinabile. Questo riduzionismo perciò, dettato dall’aggressività di Belpietro che spinge Innocenzi a stare sulla difensiva e a perdere le staffe, finisce per agevolare il potere di cui ha parlato D’Avanzo. Non a caso D’Avanzo nella sua polemica con Belpietro circa il caso «Telekom Serbia», citata in precedenza, ha dovuto prendere in esame tutte le tesi dell’avversario, e confutarle punto per punto: non si è certo limitato a esprimere il concetto “questa è la macchina del fango di Belpietro, quindi non rispondo”.
Il secondo esempio, davvero parossistico, riguarda il segretario del PD, Bersani. In una conferenza stampa indetta nei giorni più infuocati del caso Penati, Bersani sbotta, dicendo: «lo dico alle macchine del fango che cominciano a girare». Qui siamo all’apoteosi della banalizzazione. Che cosa sono le macchine del fango? Nel caso specifico si è perso ogni possibilità di capire a cosa si riferisca l’espressione, quale realtà rappresenti attraverso il linguaggio. Si capisce solo il suo essere un’espressione negativa, quasi fosse l’uomo nero. La differenza rispetto all’originale, non è di poco conto. Ora l’espressione è diventata una catacresi , ossia un’espressione per la quale non esiste un sostituto. Un esempio di catacresi è l’espressione «gamba del tavolo»: naturalmente un tavolo non ha gambe, non è una creatura vivente; tuttavia questa metafora indica una parte specifica dell’oggetto, e non c’è un’altra espressione o termine per indicare quella parte specifica. Ora una catacresi per un pezzo di tavolo è un conto, una catacresi per una struttura di potere centrata sui conflitti d’interesse del Presidente del Consiglio ha effetti devastanti: in quest’ultimo caso si toglie all’opinione pubblica la possibilità di comprendere un certo potere, e attraverso questo occultamento dei significati attraverso la semplificazione linguistica, lo si favorisce. Nel caso specifico, infatti, Bersani accusa un po’ a casaccio tutti i giornalisti, come se il problema non riguardasse le indagini su Penati e le eventuali responsabilità del partito, ma i giornalisti che, salvo specifiche, si limitano a fare il loro lavoro.
Ecco perché chi si occupa di informazione, a qualunque livello, deve fare della precisione linguistica un fatto etico, ancora prima che estetico o di target. Tra le molte lezioni che si possono trarre da D’Avanzo, e spero che queste mie parole non suonino presuntuose, (è solo un suo attento e affezionato lettore a parlare), questa è forse una delle più importanti, in questa fase delicatissima che il paese sta vivendo.