La guerra mondiale degli zombi
5 min letturaIl romanzo inizia con un'introduzione: a parlare è un funzionario della Commissione per il dopoguerra delle Nazioni Unite incaricato di stilare un rapporto a circa dieci anni dalla fine della «Peste ambulante». L'umanità ha rischiato l'estinzione per mano degli zombi che si sono diffusi a partire da un villaggio cinese, e la Commissione vuole ricostruire cosa è successo. Ma il rapporto finale, dice il funzionario «fu una raccolta di dati freddi e precisi» pieno di omissioni rispetto al testo originariamente consegnato, e ciò lo spinge a trarre un libro dal materiale raccolto:
non è il fattore umano a legarci così profondamente al nostro passato? Le generazioni future troveranno più interessanti le tavole cronologiche e le statistiche sulle perdite o i racconti personali di individui così simili a loro? E infine, non è forse il fattore umano l'unica vera differenza tra noi e quel nemico al quale facciamo riferimento parlando di "morti viventi"?
Questo «fattore umano», per il narratore, è un impasto di «memorie» ed «emozioni» che costituiscono «l'argomento di questo libro», costruito come una serie di interviste a personaggi provenienti da ogni parte del mondo; siamo tra il reportage giornalistico e il lavoro antropologico. Raccolte, le singole voci formano un racconto corale della tragedia appena trascorsa, e svelano l'importanza fondamentale della letteratura. Che si tratti di parola scritta o di racconto orale (l'edizione originale reca come sottotitolo An oral history of the Zombie World War), non può esistere memoria fredda e oggettiva, di fronte alla catastrofe; separare cosa è successo da ciò che ha suscitato nelle persone è una falsificazione. È anche nel modo in cui si sceglie di trasmettere, dunque, che si gioca la distinzione tra «noi» e «quel nemico».
Il punto di vista interno all'ambientazione, modellato e moltiplicato dalla forma intervista, è uno degli aspetti più riusciti del libro, anche se alcuni personaggi sanno troppo di stereotipo, come ad esempio l'otaku che si trasforma in implacabile guerriero. Ne giovano però gli aspetti più cruenti, perché a raccontarli sono le reticenze, le omissioni che l'intervistatore prova a colmare o incalzare, o l'orrore che proviene da traumi insuperabili. Ad esempio, ecco come il cannibalismo tra i profughi in Canada, durante il «Grande Panico» che si scatenò all'inizio della guerra, è raccontato da una superstite che si occupa del ripristino della zona:
Mamma mi disse di non mangiare troppo in fretta. Mi imboccò con piccole cucchiaiate. Sembrava sollevata. Piangeva un po'. Papà aveva ancora quell'espressione. La stessa che avevo io pochi mesi dopo, quando mamma e papà si ammalarono tutti e due e io dovetti nutrirli.
[Mi inginocchio per esaminare il mucchio di ossa. Sono state tutte spezzate, per estrarre il midollo.]
L'inverno ci colpì duramente ai primi di dicembre. La neve era letteralmente sopra di noi, montagne di neve, densa e grigia per via dell'inquinamento. Il campo diventò silenzioso. Niente più risse, niente più spari. A Natale c'era un sacco di cibo.
[Tira su quello che sembra un piccolo femore. È stato raschiato con un coltello.]
Il «nemico» in World War Z va ben oltre lo zombi da racconto di genere. Incarna una «guerra totale» contro l'uomo: non permette confronti, costringe una civiltà a guardarsi allo specchio. Alcuni personaggi - militari Usa - chiamano l'orda di mostri con un nome al singolare, «Zom» invece di «gli zombi»: la parola esprime la moltitudine di non morti come una forza, un Flagello che agisce senza spiegare quale legge sia stata violata dall'uomo. Dalle interviste si può speculare su dove sia iniziata l'epidemia, su dove si sia diffusa e sulle colpevoli sottovalutazioni dei governi. Ma i perché rimangono insoluti. Mentre sono rivelate tutte le ipocrisie e le viltà che favoriscono la crescita di «Zom».
Brooks mette alla berlina il mito della sicurezza edificato dall'industria bellica e dalla propaganda nazionalista, in particolare del suo paese, gli Stati Uniti. Emblematico è l'episodio di Yonkers, battaglia dove l'esercito americano, presente con la «percentuale giornalisti-soldati più alta che in ogni altro campo di battaglia della storia», subisce una rovinosa disfatta. E questo perché, come racconta un reduce di Yonkers, «nessuno di quei cazzoni di West Point» ha pensato che la tecnologia bellica finalizzata a uccidere altri uomini è inutile, quando devi fronteggiare un bersaglio che va giù solo se gli trapassi il cervello. L'ampio e accurato uso di dettagli militari - armamentari, tattiche - qui rivela quanto l'uomo sprechi risorse per scopi inutili, quando presume che la tecnica giustifichi la tecnica. L'arma più efficace contro «Zom»? «il Lobo», un «bastone d'acciaio che finisce con una specie di incrocio tra una pala e un'ascia bipenne».
È il modello post-industriale, dove chi lavora nel terziario avanzato e in particolar modo nella finanza è considerato vincente, a crollare di fronte alla Nemesi. Un modello dove il reale è razionale e ciò che si oppone al reale è liquidato come sciocco, immaturo o inutile; dove la macchina deve funzionare a qualunque costo e i problemi, invece di essere risolti, sono amministrati affinché le conseguenze ricadano su altri. Così la commercializzazione del placebo «Phalanx» un farmaco diffuso all'inizio dell'epidemia, quando ancora la verità è nascosta dietro la più comoda menzogna della «rabbia africana», contribuisce alla diffusione degli zombi. Quando l'economia, assistita dalla politica, diventa una forma di predazione, il predatore più forte vince; e «Zom» è molto più forte del neoliberismo. Nemmeno la catastrofe sembra in grado di cambiare certe ottusità, come rivela un ex membro dello staff della Casa Bianca:
Sapevamo che il Phalanx era un placebo, e ne eravamo felici. Calmava la gente e ci permetteva di fare il nostro lavoro. [...] Che c'è, avrebbe preferito che dicessimo la verità alla gente?
Così non avete mai provato a risolvere davvero il problema.
Oh, avanti, si può mai risolvere la povertà? Si può mai risolvere il crimine? Si possono mai risolvere le malattie, la disoccupazione, la guerra o qualsiasi altro herpes sociale? Diamine, no. Si può solo sperare di renderli abbastanza gestibili da permettere alla gente di andare avanti con la propria vita. Non è cinismo, è maturità. Non si può fermare la pioggia. Si può solo costruire un tetto che non goccioli, o per lo meno che non goccioli sulla gente che voterà per te.
L'uomo, in World War Z, è ricondotto a un problema fondamentale: quale scopo dare alla propria vita. Sopravvivere non è un motivo sufficiente. Di fronte alla minaccia, molti scelgono il suicidio, oppure diventano «quisling» (umani convinti di essere zombi e che si comportano in tutto e per tutto come loro), o infine cadono preda della «sindrome da disperazione apocalittica». Ma quando il problema è lo scopo, allora l'arte, con la sua capacità di ispirare, diventa fondamentale per trovare una risposta. La Sda è contrastata proprio grazie ai film del regista Roy Elliot, che infondono negli animi un particolare «tipo di bugia» chiamata «speranza». E altri personaggi citano opere letterarie scritte durante la guerra. Insomma: in caso di catastrofe c'è più bisogno di artisti che di manager e avvocati.
L'importanza di emozioni ed empatia esula da una visione ingenua: è invece ricondotto alla consapevolezza che in tempi di guerra si è chiamati a compiere scelte terribili, come ad esempio sacrificare vite umane come esca per gli zombi, salvando così un'intera città. Come dice uno dei personaggi «devi fare le tue scelte e convivere ogni giorno con lo strazio delle conseguenze di quelle scelte». Sentire il dolore altrui è l'unica strada per opporre un «noi» al mostro; altrimenti si è solo persone che obbediscono agli ordini. E in World War Z l'esecutore perfetto, instancabile e perennemente focalizzato sull'obiettivo, è per l'appunto lo zombi.