I media e la memoria di personaggi famosi accusati di violenza: Kobe Bryant e il caso della giornalista sospesa dal Washington Post
10 min letturaDomenica (sera in Italia, mattina negli Stati Uniti) si è diffusa la notizia della morte dell’ex stella dell’NBA Kobe Bryant, vittima di un incidente in elicottero insieme alla figlia tredicenne e altre sette persone. In mezzo ai tantissimi messaggi di cordoglio e commozione per lo sportivo - amatissimo dagli appassionati di basket e non solo - qualcuno ha ricordato il caso di violenza sessuale in cui Bryant era stato coinvolto nel 2003.
Tra questi, la giornalista politica del Washington Post, Felicia Sonmez, che ha postato su Twitter un vecchio articolo (non suo) che riepilogava l’episodio, scatenando commenti violentissimi e minacce di morte nei suoi confronti. Poche ore dopo, la testata le ha comunicato di averla temporaneamente sospesa dal servizio. Sonmez è stata reintegrata dopo numerose polemiche e una lettera di protesta firmata da oltre 300 colleghi della giornalista.
L’articolo postato da Sonmez è un pezzo uscito nel 2016 sul Daily Beast, che ripercorre le accuse di stupro rivolte a Bryant nel 2003 da una ragazza di 19 anni, impiegata dell’hotel in Colorado dove il giocatore di basket era ospite. La donna aveva raccontato di essere stata forzata da Bryant ad avere un rapporto sessuale; lui, dopo aver inizialmente negato, ammise di aver avuto un rapporto consensuale. Le accuse di stupro non sono mai arrivate in tribunale, perché la ragazza alla fine si era rifiutata di testimoniare. Nel frattempo, l'identità della donna venne rivelata e diffusa, rendendola oggetto di curiosità morbosa, messaggi e minacce.
Alla fine il caso si era chiuso con un risarcimento in sede civile ottenuto dalla ragazza. Successivamente, dopo un accordo raggiunto tra le parti, con un comunicato Bryant – che si era sempre dichiarato innocente – si era scusato, spiegando che nonostante credesse “veramente che l’incontro fosse consensuale”, si rendeva conto in quel momento che “lei non lo pensava e non vedeva l’episodio nello stesso modo in cui lo vedevo io”: “Dopo mesi in cui ho riletto le prove e ascoltato il suo avvocato e anche la sua testimonianza, capisco perché lei senta che quell’incontro non fosse stato consensuale”.
Sonmez ha twittato il link dell’articolo, non aggiungendo nessun commento. Poco dopo, la giornalista ha raccontato di aver ricevuto migliaia di risposte, tra cui minacce di morte e auguri di stupro.
“Mi rivolgo alle 10mila (letteralmente) persone che mi hanno lasciato commenti e inviato email con insulti e minacce di morte, per favore prendetevi un attimo e leggete l’articolo – che è stato scritto più di tre anni fa e non da me. Ogni personaggio pubblico andrebbe ricordato nella sua interezza”, ha twittato la giornalista. Successivamente ha postato uno screenshot della sua casella mail da cui erano visibili alcuni messaggi (indirizzi inclusi) violenti.
In un’intervista per il blog di Erik Wemple sul Washington Post, Sonmez ha raccontato che, dopo aver ricevuto centinaia di messaggi violenti, domenica pomeriggio ha scritto una mail alla managing editor del giornale, Tracy Grant, e al suo editor, Peter Wallsten, per avvertirli di quello che stava subendo – come prevede il protocollo del giornale in queste situazioni. «Gli ho mandato il link ai miei tweet, in modo che sapessero che le cose stavano sfuggendo leggermente di mano», ha detto.
Un paio d’ore dopo Grant le ha risposto, chiedendole di cancellare quei tweet. Più che di quelli, però, Sonmez era preoccupata per le minacce, perché qualcuno aveva postato online il suo indirizzo di casa. Grant le ha mandato un’altra mail, dicendole che se non avesse provveduto alla cancellazione avrebbe “violato una direttiva di un caporedattore”.
Poco dopo, riporta il New York Times, le è arrivato un messaggio dal direttore del giornale, Marty Baron. “Felicia, twittare questo dimostra una vera mancanza di giudizio. Stai facendo del male a questa istituzione così”, recitava la mail, a cui erano allegati screenshot dei tweet. La giornalista ha quindi provveduto a eliminare quello che aveva postato, scrive Wemple sul Washington Post, “facendo vincere quelli che l’avevano attaccata per aver postato un buon articolo”.
Sonmez ha ricevuto un’altra email da Grant che la ringraziava per aver cancellato i tweet e le consigliava di andare a dormire in un hotel o a casa di qualcuno quella sera. Spaventata per la sua sicurezza, la giornalista ha effettivamente passato la notte in un albergo. Poi, da una telefonata con Grant, ha appreso che il giornale l’aveva sospesa con effetto immediato. In una successiva email le è stato spiegato che quei tweet non fossero “pertinenti” ai temi che copriva come giornalista, e che il suo “comportamento sui social stava rendendo più difficile per gli altri fare il proprio lavoro come giornalisti del Washington Post”.
Successivamente Grant ha rilasciato una dichiarazione con cui confermava che Sonmez era stata sospesa, e nel frattempo il giornale avrebbe verificato “se i tweet sulla morte di Kobe Bryant hanno violato o meno la social media policy della redazione. I tweet mostravano scarso giudizio, che minava il lavoro dei suoi colleghi”.
La protesta dei giornalisti del Post contro la sospensione
Il lunedì successivo, però, sono stati proprio i colleghi a protestare contro la decisione del giornale, con una lettera del Washington Post Guild, sindacato che rappresenta circa mille dipendenti della testata.
Our statement in support of our colleague, Felicia Sonmez: https://t.co/2GDbANeybb
— Washington Post Guild (@PostGuild) January 27, 2020
Il comunicato accusa il management del giornale di non aver protetto Sonmez, nonostante avesse ricevuto “messaggi violenti e minacce di morte che contenevano anche il suo indirizzo di casa”: “Invece di proteggere e sostenere una giornalista davanti a questi abusi, il Post l’ha temporaneamente sospesa (…) Felicia ha dovuto lasciare casa temendo per la sua sicurezza e non ha ricevuto molto aiuto dal Post su come proteggersi”.
I giornalisti affermano che non è la prima volta che il giornale ha cercato di controllare il modo in cui Sonmez parla di violenza sessuale, ricordando che la reporter stessa ha subito un abuso sessuale, e ha raccontato la sua storia due anni fa. “Quando altri media pubblicavano articoli che la attaccavano, il Post non ha rilasciato alcuna dichiarazione in sostegno a una delle sue rispettate giornaliste politiche. Al contrario, la direzione ha emesso una lettera di avvertimento contro Felicia per aver violato le vaghe e incoerenti linee guida sui social media del Post”, si legge nella lettera.
Nel 2018, infatti, la giornalista ha accusato di violenza sessuale Jonathan Kaiman, ex capo dell’ufficio di Pechino del Los Angeles Times. Successivamente, simili accuse sono state fatte anche da un’altra donna. Dopo un’indagine aperta dal giornale di Los Angeles Times, Kaiman si è dimesso, rilasciando una dichiarazione secondo cui i rapporti “erano consensuali”, e le accuse ricevute avevano “irrevocabilmente distrutto” la sua reputazione, la sua rete professionale, la sua carriera e l’avevano marchiato a vita.
Felicia Sonmez is an excellent reporter and brave survivor of sexual abuse but @washingtonpost just suspended her for pointing out something that is true. Meanwhile, actual sexual predators are still employed at major news organizations. This is why so many survivors stay silent. https://t.co/kEXyu8hAZg
— Leta Hong Fincher洪理达, PhD (@LetaHong) January 27, 2020
Erik Wemple sul suo blog sul Washington Post ha pubblicato una riflessione sulle obiezioni mosse dalla direzione a Sonmez. Ad esempio, quella di aver twittato su un argomento che non le competeva. Se questa fosse realmente una regola, scrive Wemple, “l’intera redazione dovrebbe essere sospesa”. Riguardo invece al “rendere più difficile il lavoro degli altri”, è Sonmez stessa a rispondere nel post: «Potrei dire che non ignorare una questione di pubblico dominio sia un modo per far sì che le sopravvissute [a una violenza] si sentano considerate e ascoltate, e questo aiuta i giornalisti del Washington Post più che rendergli il lavoro più difficile. Siamo messi nelle condizioni di fare il nostro lavoro perché abbiamo dimostrato a queste sopravvissute che siamo meritevoli della loro fiducia».
Sullo stesso giornale David Von Drehle ha scritto che Sonmez è stata punita per aver tenuto “entrambi gli occhi sulla verità – o più precisamente su una particolare verità, e cioè che da qualche parte una donna stava assistendo a quest’ondata di adulazione nei confronti di un uomo che l’aveva quasi soffocata e lacerata durante un incontro che lei chiamava stupro, e che lui aveva riconosciuto essere qualcosa di molto simile”.
Dopo le polemiche, martedì, il Washington Post ha ritirato la sospensione, e ha pubblicato una dichiarazione di Grant, secondo cui, in seguito a una valutazione, i tweet di Sonmez erano stati giudicati “inopportuni”, ma non violavano la social media policy del giornale. Ciononostante, la testata chiede “moderazione”, che è “particolarmente importante quando ci sono morti tragiche”.
New statement regarding Post reporter Felicia Sonmez pic.twitter.com/HBt2s5VW68
— Kristine Coratti Kelly (@kriscoratti) January 28, 2020
A questa decisione Sonmez ha risposto che i lettori e i dipendenti del Washington Post – lei compresa – meritavano di sentire una spiegazione direttamente dal direttore del giornale, Marty Baron.
I believe that Washington Post readers and employees, including myself, deserve to hear directly from @PostBaron on the newspaper’s handling of this matter. My statement on The Post’s decision tonight: pic.twitter.com/t5ULzUQhYT
— Felicia Sonmez (@feliciasonmez) January 29, 2020
In un articolo sul caso, la Columbia Journalism Review ipotizza che un altro problema sollevato dalla sospensione di Somnez riguarda "la tirannia delle social media policy di redazione": "Apparentemente queste policy hanno lo scopo di salvaguardare i giornalisti e i loro capi dalle insidie di Internet; in pratica spesso diventano ostinati tentativi di conciliare comportamenti possibilmente in conflitto". Ad esempio, al Washington Post è richiesto ai giornalisti di comunicare "in maniera più personale e informale" per instaurare un legame migliore con i lettori, ma allo stesso tempo di avere come priorità la reputazione della testata, "la sua eccellenza, correttezza e indipendenza". Si tratta di una previsione che secondo la Cjr è difficilmente applicata in maniera non incoerente. Ad esempio, come si legge nella lettera del Washington Post Guild, spesso i giornalisti della testata hanno visto "colleghi - compresi membri della direzione - condividere sui social opinioni controverse senza incorrere in sanzioni" mentre, nel caso di Somnez, "una collega è stata censurata per aver condiviso un fatto".
Ci sono delle cose che certamente un giornalista non deve fare - ad esempio fare campagna per un candidato, mentire, mostrare pregiudizi. "Ma - scrive Cjr - sono cose talmente ovvie e intrinseche nel mestiere di giornalista che difficilmente hanno bisogno di essere codificate in linee di condotta inflessibili. Il che fa sorgere una domanda: a che servono, davvero, queste linee di condotta? È difficile evitare la conclusione che non siano uno strumento di controllo ad uso dell'azienda".
Giovedì, quando le acque si sono calmate, il direttore del Washington Post ha inviato un messaggio di tre pagine a tutto lo staff, parlando della social media policy del giornale e annunciando di voler ascoltare il parere della redazione per eventualmente migliorarla.
News: Marty Baron just sent this email about social media use to The Washington Post newsroom.
"It is not always easy to know where to draw the line." pic.twitter.com/OEuKzZMw88
— Oliver Darcy (@oliverdarcy) January 30, 2020
Ma, come notato dalla CNN e da giornalisti di altre testate su Twitter, Baron non si è scusato con Sonmez per come il Washington Post ha gestito la vicenda. Anzi: non l'ha proprio menzionata.
He still owes @feliciasonmez an apology, this is... not that https://t.co/o1IdKaOAgK
— Lainna Fader 🦋 (@lainnafader) January 30, 2020
Arwa Mahdawi afferma sul Guardian che Somnez meritava sicuramente una spiegazione e delle scuse, dal momento che il caso in questione "non riguarda soltanto i tweet fatti da una donna", bensì "le priorità del Post e la visione del mondo della direzione della testata", le affermazioni per cui può essere puniti e quelle che invece vengono considerate solo come "opinioni controverse". Secondo la giornalista, inoltre, "censurare una donna per aver twittato su un tema come la violenza sessuale manda un messaggio agghiacciante. Ricorda che le eredità lasciate da grandi uomini sono sempre considerate più importanti delle donne che potrebbero aver ferito durante la loro vita. È un promemoria della pressione a tacere che le persone subiscono in questi casi".
I media e la memoria di personaggi famosi accusati di violenza
In un'intervista Sonmez ha spiegato di aver twittato l'articolo sulle accuse di stupro del 2003 perché le sembrava che negli articoli sulla figura Bryant che stavano uscendo dopo la notizia della sua morte mancasse una parte della storia: «La gravità di quelle accuse è una parte della sua eredità come personaggio e della sua vita. Quelle accuse non dovrebbero essere in nessun modo minimizzate».
La vicenda di Somnez ha aperto un dibattito su come i media – e l’opinione pubblica - affrontano la memoria di personaggi famosi e amati che hanno un passato di episodi di accuse di violenza o molestie sessuali. La giornalista, tra l’altro, non è stata l’unica a parlare delle accuse di stupro a Bryant, né a subire conseguenze e violenti attacchi.
Alcuni giornali americani, come analizzato da Slate, nei pezzi di ricordo sull’ex cestista non hanno nemmeno menzionato le accuse del 2003. È successo in articoli di Associated Press, CNN, Fox News e altri. Altri hanno menzionato il caso brevemente, in relazione al carattere difficile di Bryant in campo o al suo essere un personaggio contraddittorio.
È giusto parlare delle accuse di stupro in un momento così tragico e delicato come la morte di una persona – peraltro prematura e improvvisa, insieme alla figlia minorenne?
Intervistata da Slate, Lindsay Gibbs, autrice di un articolo del 2016 sulle accuse di stupro a Bryant, dice che il commento più diffuso verso chi ha ricordato quella vicenda domenica è stato che era “troppo presto” per tirare fuori quella storia. La giornalista però ricorda di essere stata attaccata allo stesso modo quando ha pubblicato il suo pezzo, quando Bryant era ancora in vita: «Non c’è mai quindi un ‘momento giusto’ in cui parlare di questa cosa».
Anna North su Vox scrive che per molte persone “la vita di Bryant ha significato molte cose, e sarà lo stesso con il suo ricordo. Ma una cosa è certa: questa non sarà la prima volta che i media americani hanno difficoltà a commemorare qualcuno che era molto amato e che era accusato di qualcosa di terribile”. Anzi, secondo la giornalista, può essere un’opportunità per fare i conti con queste situazioni.
Se da un lato, infatti, ricordiamo e commemoriamo personaggi come Bryant, “innegabilmente grandi e anche anche accusati di aver fatto cose terribili, dovremmo anche pensare alle persone che da queste cose sono state ferite: come sono trattate dai media e dall’opinione pubblica quando decidono di parlare, come le loro storie vengono ricordate quando l’attenzione cala, e se è permesso loro di vivere vite superando il trauma subito”.
Gibbs ricorda che nell’economia del caso di violenza sessuale che ha coinvolto Bryant è compreso anche l’estremo victim-shaming ad opera del legale dell’ex giocatore nei confronti della ragazza, su cui i media si sono buttati a pesce: «La legge non l’ha protetta, il sistema giudiziario nemmeno, e meno che mai i media». Questa cosa, aggiunge, è importante, e «ha avuto un impatto su tante persone, così come, ovviamente, l’ha avuto il lavoro di Bryant per il basket femminile, la sua relazione con la figlia. Tutto questo esiste. Ed è scomodo che esista, ma è così. E ignorarlo non aiuta. Penso che ignorarlo provochi vergogna nei sopravvissuti e sopravvissute di tutte le comunità, nonché la sensazione di non far parte della nostra cultura, della nostra società».
I media hanno difficoltà a gestire il ricordo di uno come Bryant, ma ne hanno ancora di più quando si tratta di persone come la donna che l’ha accusato nel 2003. Persone, afferma North, “il cui cammino si è incrociato brevemente e dolorosamente con un personaggio pubblico, e che da quel momento devono capire come vivere”.
Foto in anteprima via Pulitzer.org