Cosa ci dicono sul futuro di Israele e Palestina l’irruzione di Jenin e le proteste di Tel Aviv
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È come guardare in contemporanea due schermi accesi su due eventi distanti. L’uno e l’altro sembrano non avere nessuna connessione. Uno si svolge in un aeroporto pulito e arioso, che poco risente dei suoi vent’anni di vita: migliaia di persone sventolano bandiere, urlano slogan, in mezzo a qualche frizione con la polizia. L’altro schermo, invece, mostra scene di guerra in una città già negletta. Strade rese impraticabili da bulldozer che distruggono tutto ciò che incontrano, asfalto, linee elettriche, condutture dell’acqua. Il crepitio delle armi, i droni che lanciano razzi, i raid dentro gli ospedali, i giornalisti presi di mira. E migliaia di civili cacciati dalle loro case.
Gli schermi sono l’uno accanto all’altro. Gli eventi si svolgono a una sessantina di chilometri l’uno dall’altro, non di più. In mezzo, un Muro di Separazione. Due mondi a parte, sembrerebbe, e in parte lo sono. È invece il medesimo il decisore, il soggetto pubblico al centro della protesta all’aeroporto di Tel Aviv, in Israele, e dell’invasione del campo profughi di Jenin, in Palestina.
Il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu è il legame tra i due schermi, i due fatti, le popolazioni che sono coinvolte. E queste storie parallele continueranno, approfondendo una crisi di cui quasi nessuno vuole parlare, in Italia. Se si esclude il reportage per il Manifesto di Michele Giorgio (il più profondo conoscitore della situazione palestinese nel giornalismo italiano), la stampa quotidiana ha brillato per il silenzio. Il silenzio, però, occulta ma non risolve le questioni.
L’invasione di Jenin da parte delle forze armate israeliane è stata la più imponente da oltre vent’anni, da quella operazione Muraglia di Difesa che è ancora impressa nella memoria dei palestinesi (non solo della Cisgiordania settentrionale) e che è stata immortalata in Jenin, Jenin, il documentario di Mohammed Bakri. Il richiamo al 2002, alla seconda intifada, alla distruzione decisa e realizzata dall’esercito israeliano è stato immediato, anche se l’invasione del 3 luglio nasce da presupposti diversi e, soprattutto, fa parte di una strategia e di un progetto profondamente diversi.
Vent’anni fa si era nel cuore di tenebra della seconda intifada, e lo scontro non era solo con le fazioni armate, ma con l’intera Autorità Nazionale Palestinese. C’era l’operazione Muraglia di Difesa e c’era l’assedio alla Muqata in cui era rinchiuso Yasser Arafat. Ora c’è un attacco localizzato nella Cisgiordania settentrionale che ha come bersagli, in particolare, Nablus e Jenin. Un attacco che va avanti da anni, e di cui l’invasione di Jenin è solo (si fa per dire) il più eclatante tragico capitolo.
Prima dell’invasione, Jenin è stata oggetto di raid, di incursioni, di omicidi mirati di palestinesi in armi che facevano parte dei gruppi armati che stanno ridefinendo il panorama, soprattutto nelle due città principali del nord della Palestina. Raid e incursioni che da anni rendono l’esistenza sempre più difficile, si configurano come una punizione collettiva e hanno come risultato civili uccisi e vita quotidiana ormai precaria.
L’invasione segna il passaggio a un livello superiore. Anzitutto per il bilancio di due giorni di guerra a Jenin. Dodici palestinesi uccisi, tutti giovani e giovanissimi, tre di loro avevano diciassette anni. La comunicazione israeliana parla di “terroristi”. Per i palestinesi sono “combattenti” e “martiri”. Lo sfondo è l’occupazione e la ri-occupazione della Palestina, ormai non più sotto anche il parziale controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dodici palestinesi uccisi, circa 130 feriti, oltre tremila civili costretti a lasciare le loro case del campo profughi di Jenin e a cercare rifugio altrove. Figli e nipoti dei rifugiati del 1948, espulsi già nel 2002 e ora di nuovo profughi.
Perché una scelta così dura da parte del governo israeliano? Nonostante il silenzio delle cancellerie occidentali, il danno d’immagine è evidente e palpabile, anche dal punto di vista simbolico. La risposta è nel “chi” ha deciso un’invasione considerata controversa. In sintesi, i militari erano restii, la politica invece spingeva per un’operazione in grande stile. E la politica ha un preciso colore: i coloni israeliani in Cisgiordania settentrionale, i più radicali e i protagonisti dei pogrom contro i palestinesi, assieme alla componente di estrema destra del governo israeliano. Ancora una volta si conferma che a dirigere il governo sulle questioni della sicurezza sono Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Nei fatti, la politica del governo israeliano ha cambiato profondamente la linea seguita da Netanyahu nei suoi quasi quindici anni al potere. Netanyahu ha sempre poggiato la sua capacità di rimanere in sella, riguardo alla questione palestinese, sostenendosi sullo status quo: su una occupazione della Palestina che confermasse il modus operandi, costante costruzione delle colonie, collaborazione tra i corpi di sicurezza israeliano e palestinese, rinvio sine die di un accordo reale, nessun riconoscimento di uno Stato palestinese.
Con Smotrich e Ben Gvir cambia tutto. La questione palestinese è centrale, per l’estrema destra, e dev’essere risolta subito. Rafforzamento della presenza militare, linea dura, operazioni come l’invasione di Jenin, nessun diritto di qualsiasi tipo per i palestinesi della Cisgiordania. E sullo sfondo l’ipotesi mai nascosto di una nuova nakba.
A sessanta chilometri di distanza, l’occupazione pacifica per qualche ora dell’aeroporto di Tel Aviv, da parte dei manifestanti israeliani contro il governo Netanyahu, mette di nuovo al centro l’estrema destra. I manifestanti (compreso l’ex premier Ehud Olmert) sventolano bandiere israeliane contro il “golpe” giudiziario e un governo che mina le basi della democrazia. Di fondo però, anche loro portano in superficie la questione della sicurezza. Non quella dei palestinesi. Quella degli israeliani. Perché è la sicurezza, anche sul piano interno, la questione principale per l’estrema destra, impersonificata in questo caso nella figura di Itamar Ben Gvir. Le restrizioni della libertà di protestare, di dissentire cominciano a vedersi: all’aeroporto di Tel Aviv, dove sono stati arrestati almeno quaranta tra i manifestanti. E a Gerusalemme e nella città di Tel Aviv, nella protesta spontanea e non organizzata scatenata dalle dimissioni pubbliche di Ami Eshed.
Il capo della polizia di Tel Aviv ha rassegnato nel pomeriggio del 5 luglio le sue dimissioni con una conferenza stampa a sorpresa in cui ha accusato il governo di pressioni politiche contro di lui. Accuse dure, quelle di Eshed, che lascia dopo 33 anni di servizio la polizia. Non ha accettato pressioni per gestire le manifestazioni in maniera più dura. Gli è stato chiesto di “spezzare le ossa”, ha rivelato. “Ho evitato una guerra civile”, ha sottolineato. Ami Eshed ha espresso quello che sempre più persone paventano: che la frattura nella società israeliana si approfondisca ogni giorno di più, dopo sei mesi di braccio di ferro in piazza. E la decisione di usare il pugno duro, dovunque sia possibile, non fa altro che rendere la crisi sempre più evidente e destinata ad avere tinte sempre più cupe. A Tel Aviv e a Jenin.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube