Cosa possiamo imparare dalla leadership di Jacinda Ardern
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Jacinda Ardern, la premier uscente della Nuova Zelanda, terminerà la sua esperienza politica martedì 7 febbraio, a 42 anni, dopo aver guidato il paese dal 2017 e aver condotto il New Zealand Labour Party (il partito laburista locale, di sinistra) alla vittoria alle elezioni del 2020, in cui ha ottenuto anche la maggioranza assoluta in Parlamento.
Ardern ha comunicato la sua decisione (che coincide con l’intenzione di non candidarsi per un terzo mandato presidenziale alle prossime elezioni politiche di ottobre) in modo quasi del tutto inaspettato nel corso di un punto stampa a Auckland il 19 gennaio 2023.
Il suo discorso, che dura poco più di due minuti, può già essere considerato una pietra miliare della (comunicazione) politica contemporanea.
“Ho deciso di lasciare perché un ruolo di così grande privilegio porta delle responsabilità – la responsabilità di avere consapevolezza di essere la persona giusta per guidare il paese, e di avere la stessa consapevolezza quando smetti di esserlo. So cosa comporta fare questo lavoro. E so di non avere abbastanza energia per rendergli giustizia. È semplicemente così.
Sono umana. I politici sono umani. Diamo tutto quello che possiamo dare per tutto il tempo in cui possiamo farlo. E poi arriva il momento di lasciare. Per me, quel momento è arrivato.
Sono stati i cinque anni e mezzo più soddisfacenti della mia vita. Ma hanno anche portato le loro sfide – mentre le nostre priorità erano il diritto alla casa, la lotta alla povertà giovanile e il cambiamento climatico, abbiamo dovuto affrontare un attentato terroristico nel nostro paese, un grande disastro naturale, la pandemia globale e la conseguente crisi economica.
Spero di lasciare i neozelandesi con la convinzione che si può essere gentili e forti allo stesso tempo; empatici ma risoluti, ottimisti ma concentrati. E che ciascuno dei miei connazionali può essere leader a suo modo – un leader che sa quando è il tempo di lasciare.
Non voglio dare l’impressione che le difficoltà che si possono incontrare in politica sono la ragione per cui si smette di farla. Hanno certamente avuto un impatto anche su di me. Siamo umani dopo tutto, ma non sono state alla base della mia decisione.
Voglio ringraziare mio marito Clarke e mia figlia Neve, le persone che hanno maggiormente dovuto sacrificarsi. A Neve: mamma non vede l’ora di esserci per il primo giorno di scuola. E Clarke: finalmente ci sposeremo”.
La potenza di questo discorso poggia su due architravi di eguale importanza. In primo luogo, Ardern ripristina un principio che è sempre stato associato all’attività politica, cioè quella del ‘servizio a tempo’; un qualcosa che si svolge in una parte della propria vita, quando si presentano le condizioni più adatte per farlo, ma che non coincide in modo assoluto con la propria vita personale e professionale.
È un messaggio che, sebbene sia da sempre associato ai ruoli elettivi (anche in Italia: lo statuto del PD prevede la possibilità di candidarsi per massimo tre mandati. Ma la grande quantità di deroghe concesse in questi anni hanno reso sostanzialmente nullo questo dettame; il MoVimento 5 Stelle ha costruito parte delle sue fortune sul ‘limite dei due mandati’ in Parlamento, poi parzialmente derogato con l’introduzione del cosiddetto ‘mandato zero’), ha visto ben poche applicazioni, anche ad altissimi livelli istituzionali, un po’ in tutto il mondo.
La forza comunicativa delle parole di Ardern è stata però ulteriormente amplificata dalla coerenza tra il tono e i contenuti del suo discorso e lo stile di leadership da lei mostrato interpretando il ruolo di prima ministra. Tutto appare perfettamente coerente, armonico e dunque credibile, mostrando così quanto sia efficace, nella comunicazione contemporanea, la capacità di far coincidere la propria biografia personale con il messaggio politico che si intende rappresentare.
Rachel Pennett ha ricostruito i momenti principali della presidenza Ardern dal 2017 a oggi in un articolo sul Washington Post. In premessa sottolinea che la premier neozelandese ha ricevuto largo apprezzamento per la sua capacità di “gestione calma” del suo paese durante anni tra i più impegnativi della storia recente, ma che negli ultimi mesi i primi sentimenti di malcontento nei suoi confronti sono emersi insieme ai primi segnali di recessione economica, conseguente anche alla gestione molto assertiva della pandemia.
La sua analisi giornalistica dà in ogni caso un’ulteriore conferma della continuità emotiva tra le scelte della premier uscente della Nuova Zelanda nel corso del suo mandato e la sua decisione di lasciare la politica a soli 42 anni e attraverso un discorso con caratteristiche peculiari, se non uniche, nel suo genere.
Il primo evento cruciale con cui Jacinda Ardern si è dovuta misurare è stato l’attentato terroristico di Christchurch nel marzo 2019 in cui un terrorista, un suprematista bianco, ha ucciso 50 persone e ne ha ferite a decine all’interno di due moschee, nel più grave assalto con armi da fuoco nella storia della Nuova Zelanda.
La leadership di Ardern è stata tangibile in tre momenti. Il giorno dopo l’attentato, la premier neozelandese ha incontrato la comunità musulmana locale indossando un hijab (un copricapo a velo utilizzato dalle donne di quella comunità) e nel suo discorso ha rappresentato il sentimento di unità e di vicinanza della Nuova Zelanda. Nel suo primo intervento in Parlamento dopo l’accaduto, Ardern ha esordito con la frase As-salamu alaykum (“Che la pace sia con voi” in arabo), per ribadire ciò che era stato manifestato nell’incontro con la comunità musulmana; successivamente ha chiesto di citare i nomi delle persone colpite dall’attentato ma di non farlo con quello dell’assalitore: “È un terrorista, è un criminale, è un estremista. Ma nelle mie parole, lui resterà senza nome”. Sei giorni dopo, il governo neozelandese ha bandito l’acquisto di fucili d’assalto.
Ardern ha dimostrato le stesse capacità empatiche solo pochi mesi dopo, in seguito all’eruzione di un vulcano nell’isola neozelandese di Whakaari (o ‘isola bianca’), che ha causato 22 morti e 25 feriti. La premier si è infatti recata sul luogo subito dopo l’inizio dell’emergenza, ringraziando e abbracciando gli operatori della protezione civile, i vigili del fuoco e la polizia, e dichiarando poco dopo alla stampa che essi erano andati “ben oltre le loro capacità” pur di aiutare chi era stato colpito dal disastro naturale.
Some may think this is merely a photo op, however at least coupled with her as a person, I find this more than believable. It's genuine, true care. Again, no politician is perfect but if there has ever been one that's human and truly true, it is Jacinda Ardern. I am proud. pic.twitter.com/rmsUtA0Eva
— Asad • PokeCollection (@PokeCollection) December 10, 2019
Il maggior riconoscimento globale della leadership di Jacinda Ardern è però legato alla gestione delle prime fasi della pandemia in Nuova Zelanda, e alla volontà di investire senza esitazioni su un approccio guidato dalle evidenze scientifiche.
Contrariamente a ciò che è stato visto in altre parti del mondo (e certamente favorita dalla geografia), Ardern ha deciso di chiudere le frontiere esterne dell’arcipelago della Nuova Zelanda già agli inizi di marzo del 2020, e di sottoporre i connazionali di ritorno a un severo regime di quarantena.
Questa scelta ha causato forti proteste nel paese, manifestazioni di piazza e dimostrazioni di protesta davanti al Parlamento, durate per settimane. È stata criticata, inoltre, una certa lentezza nell’approvvigionamento dei vaccini e un eccessivo aumento delle difficoltà economiche legate all’impossibilità di accogliere lavoratori migranti. L’auto-isolamento volontario dal resto del mondo ha però restituito risultati incontrovertibili: il paese ha registrato infatti il più basso tasso di mortalità legata al Covid nei paesi ‘occidentali’ del mondo, secondo la Johns Hopkins University, con 2500 vittime su cinque milioni di residenti.
Il talento, la visione e la capacità di innovazione di Ardern non sono in verità emerse solo nei momenti di gestione delle emergenze, ma hanno innervato le principali scelte politiche e personali compiute nei suoi cinque anni e mezzo di mandato.
La premier uscente della Nuova Zelanda era salita da subito agli onori della cronaca perché aveva iniziato a svolgere il suo incarico all’età di 37 anni: con la sua nomina era infatti diventata la più giovane premier in attività al mondo in quel momento (e la seconda più giovane nella storia della Nuova Zelanda). Un anno dopo, nel 2018, Ardern è stata la seconda donna nella storia a partorire mentre svolgeva la più alta funzione politica nel suo paese (la prima era stata Benazir Bhutto, in Pakistan, nel 1990); tre mesi dopo è intervenuta all’assemblea nazionale delle Nazioni Unite a New York portando con sé sua figlia Neve.
La vittoria delle elezioni del 2020, ottenuta con la maggioranza assoluta della rappresentanza parlamentare, le ha permesso di costruire il governo maggiormente inclusivo della storia del suo paese. Il Partito Laburista, da lei guidato, ha portato in Parlamento il maggior numero di donne, persone di colore, indigene e della comunità LGBTQ+ di sempre in Nuova Zelanda. Dal 2022 il paese oceanico è la prima ‘democrazia avanzata’ il cui la rappresentanza femminile in Parlamento è maggioritaria. La Nuova Zelanda è il secondo paese al mondo dopo la Norvegia per accesso alle garanzie democratiche secondo il Democracy Index curato dal settimanale The Economist, aggiornato pochi giorni fa (l’Italia, considerata una ‘democrazia imperfetta’, è al trentunesimo posto).
Sono anche queste circostanze ad aver reso così efficace discorso di ritiro dalla vita politica di Jacinda Ardern.
Tutto ciò non l’ha però protetta da costanti e odiosi riferimenti maschilisti (anzi). A novembre 2022 ha fatto il giro del mondo una clip in cui la premier neozelandese, che stava ospitando l’omologa finlandese Sanna Marin (che a sua volta è diventata la più giovane prima ministra al mondo, essendo di cinque anni più giovane di Ardern) in un incontro bilaterale, si è ritrovata a dover rispondere alla domanda di un giornalista (uomo) che le chiedeva se l’incontro fosse stato organizzato solo perché le premier di Nuova Zelanda e Finlandia erano accomunate dall’essere “due giovani donne”. Ardern ha replicato chiedendosi perché la stessa domanda non era stata posta in passato durante un incontro tra l’ex premier neozelandese John Key e l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, accomunati a loro volta dalla vicinanza anagrafica. Marin, a sua volta, ha replicato con una frase definitiva sull’argomento: “Ci siamo incontrate perché siamo prime ministre”.
Ardern ha dovuto fronteggiare livelli di crescente misoginia nel corso del suo mandato, a partire dal lockdown connesso alla pandemia da COVID-19. Tess McClure, sul Guardian, ricorda che la polizia neozelandese ha visto ‘triplicare le minacce contro Ardern’ nel corso del 2022. L’ex premier neozelandese Helen Clarke ha dichiarato che Ardern ha dovuto affrontare “un’ondata di odio nei suoi confronti che non ha avuto precedenti nella storia della Nuova Zelanda”, frutto di una “tendenza alla polarizzazione che potrebbe rendere l’attività politica sempre meno attrattiva”.
Tutto ciò potrebbe aver contribuito alla sua decisione più di quanto la stessa Ardern abbia voluto ammettere, e la frase da lei pronunciata il giorno dopo l’annuncio della fine della sua esperienza politica, “ho dormito profondamente per la prima volta da tanto tempo”, ha ulteriormente dato adito a speculazioni sulle reali ragioni della sua scelta. Allo stesso tempo la leadership di Ardern nel tempo ha mostrato un tale livello di credibilità e di coerenza tra dichiarazioni e scelte politiche da rendere questi retroscena scarsamente utili all’analisi.
Jacinda Ardern ha lasciato il ruolo di premier a un’età (42 anni) in cui in molti paesi del mondo (Italia inclusa) è difficile emergere nel quadro politico nazionale. Lo ha fatto alla vigilia di una campagna elettorale in cui avrebbe potuto ragionevolmente correre da favorita. Lo ha annunciato in un discorso in cui ha posto al centro le sue emozioni e l’attaccamento alla sua famiglia, esattamente come ha fatto durante tutto l’arco della sua esperienza da leader della Nuova Zelanda. Ha lasciato perché consapevole di non avere più le energie per svolgere adeguatamente l’incarico, mostrando un senso di responsabilità nei confronti dei suoi connazionali che, a mente lucida, va considerato molto maggiore rispetto al restare alla guida del paese a ogni costo, persino se forte di un mandato popolare.
E soprattutto, Jacinda Ardern ha restituito un’enorme solidità a due principi considerati desueti o inapplicabili: ha interpretato il ruolo istituzionale più alto non dimenticando che la politica dovrebbe essere un’attività a tempo e ha dimostrato, attraverso il suo modo di governare, che la dicotomia tra lo stile di leadership basato sull’empatia e quello basato sulla razionalità e sulla scienza, che per mesi ha generato una discussione anche nel nostro paese (a proposito, per esempio, delle modalità di comunicazione adoperate dall’ex premier Giuseppe Conte e dal suo successore Mario Draghi) in realtà non esiste, perché si può essere allo stesso tempo, proprio come la stessa Ardern ha dichiarato nel suo discorso di addio, “kind but strong, empathetic but decisive, optimistic but focused”.
Immagine in anteprima: Governor-General of New Zealand, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons