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Brescia, Ceprano, Terra dei fuochi: storie di lotta contro l’inquinamento ambientale in Italia

1 Gennaio 2024 20 min lettura

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Brescia, Ceprano, Terra dei fuochi: storie di lotta contro l’inquinamento ambientale in Italia

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C’è una scuola il cui giardino è stato interdetto ai bambini per tanto tempo perché contaminato. È la scuola primaria Grazia Deledda di Brescia: il suo giardino è uno dei sette parchi avvelenati dalla produzione industriale di una fabbrica, la Caffaro. All’inizio degli anni 2000 nel cortile è stata riscontrata la presenza di PCB e diossine, e ai bambini e alle bambine è stato vietato di giocare su quell’erba: c’era, per loro, una piattaforma di cemento di forma circolare. Molto piccola, dovevano giocarci a turno sotto lo sguardo vigile delle maestre.

C’è una foto, all’interno di un reportage sulla contaminazione di Brescia, molto evocativa: mostra le ombre di alcuni bambini che si tengono mano nella mano proiettate sulla piattaforma, raffigurando lo spazio di un'assenza, quella degli alunni della scuola costretti in un'area confinata e di cemento.

“L’intera zona sud della città è intrisa di PCB e diossine perché l’acqua scendeva verso Sud. Io l’ho scoperto quando i miei ragazzi hanno iniziato la scuola: 5 anni il grande, 3 il piccolo”, dice a Valigia Blu Claudia Cauzzi, attivista del territorio. Quando Claudia e i suoi bambini sono arrivati in città non c’era nessuna indicazione che qualcosa non andasse. “Mentre nella scuola, già da 6 o 7 anni, agli alunni era interdetto il prato, tutti i parchi della città erano aperti, i miei bambini ci hanno giocato. Per capirci, i livelli di inquinamento riscontrati in seguito sono più alti di quelli dei parchi di Taranto che poi sono stati chiusi. Quando ho capito cosa avevo fatto, facendoli giocare in quei parchi, mi sono preoccupata tantissimo”. 

A più di 600 chilometri da Brescia c’è Ceprano, un Comune di meno di 9.000 abitanti nel basso Lazio. Si trova all’interno della valle scavata dal fiume Sacco, anche se il suo fiume si chiama propriamente Liri, nasce in Abruzzo nella sorgente marsicana, si distende per 120 km passando dal Garigliano per andare a finire nel mar Tirreno. Poco dopo Ceprano, il Liri incontra il Sacco, suo principale affluente, una lingua d’acqua di 87 km, epicentro di una contaminazione che riguarda 19 Comuni e più di 200.000 abitanti, collegata per lo più alla presenza di numerosi impianti chimici, molti dei quali hanno cessato la propria attività, e di una serie di discariche di rifiuti pericolosi. 

La contaminazione dell’area è stata scoperta nel 2005, quando lungo le rive del Rio Mola Santa Maria, altro affluente del Sacco, vengono ritrovati i cadaveri di decine di mucche con la schiuma alla bocca e alle narici. Da quel momento indagini su indagini hanno portato alla scoperta di un elevato livello di avvelenamento ambientale. 

“Nel nostro territorio possiamo dire che gli effetti sanitari della contaminazione ambientale sulla salute pubblica sono attestati da dati puramente empirici" - ha raccontato a Valigia Blu l’assessora all’Ambiente Elisa Guerriero - “Sono amministratore dal 2014, dal 2015 ho iniziato a chiedere al Dipartimento di prevenzione e protezione dell’ASL di Frosinone di effettuare un monitoraggio propedeutico anche a quello che, in un'ottica di interpretazione dei dati decennale, già dal 2007 veniva effettuato sugli altri Comuni”. Visto che a Ceprano non sono mai state fatte analisi sulla popolazione, anche un eventuale studio epidemiologico non saprebbe raccontare lo stato di contaminazione del Comune ma solo lo stato attuale: a differenza delle altre città, non ci sono valori storici di riferimento. È questo che, da quasi dieci anni, Elisa Guerriero denuncia a tutte le autorità competenti. Chiede un monitoraggio anche per i cepranesi, perché ci sono evidenze che è difficile negare: “Siamo una comunità piccola. Già i medici di famiglia sanno dirci che in alcune zone c’è maggiore incidenza di determinate malattie rispetto ad altre. Vivo qui, le cose le vedo. Le persone si ammalano con delle differenze sia temporali, anche rispetto a quando ero piccola io, sia di luoghi. Lo vedo bene, non me lo deve raccontare nessuno”. 

Dopo la scoperta, 18 anni fa, dei cadaveri dei bovini, nel 2010 a Ceprano sono state poste sotto sequestro le Ex Industrie Olivieri, situate sull'argine del fiume, lo stesso dove sono stati ritrovati dei fusti interrati, a cui è stata ricondotta una parte della dispersione delle sostanze inquinanti. Nel 2014 la neo-assessora all’Ambiente, Elisa Guerriero, si è trovata a dover affrontare le criticità ambientali del suo territorio ed è stata costretta, nel 2015, a far emettere un’ordinanza per inibire l’uso dell’acqua potabile per una parte della popolazione. Nel frattempo i lunghi tempi della giustizia hanno fatto il proprio corso: il 28 dicembre 2022 il procedimento penale cominciato nel 2010 contro la proprietà della Ex Olivieri si è concluso con una sentenza di prescrizione e, a sorpresa, la proprietà è rientrata in possesso dei locali. “Una mattina di fine gennaio - racconta Elisa Guerriero - vado a fare una passeggiata, passo davanti alla sede dismessa delle industrie Ex Olivieri e trovo l’erba tagliata, gli alberi potati e un cartello di proprietà privata. Siamo al paradosso: lì dentro ci sono ancora i rifiuti, deve essere effettuata la caratterizzazione e la bonifica. Le persone nel nostro Comune si sono ammalate, sono morte, in prossimità di quel sito ancora non possono usare l’acqua dei pozzi, e una proprietà privata è tornata in quei locali, senza che si chiudessero i procedimenti ambientali che dovranno portare via da lì i rifiuti”.

Storie di inquinamento e ingiustizia ambientale

Cosa accomuna i prati avvelenati di Brescia e l’acqua contaminata di Ceprano? Entrambi, come l’aria inquinata di Gela o di Marghera e i fuochi che arrossano gli occhi e bruciano le narici in Campania, fanno parte dei 42 SIN, siti di interesse nazionale per le bonifiche. Si tratta di aree in cui, ai sensi dell’articolo 252 comma 1 del Testo Unico Ambiente decreto legislativo 152 del 2006, lo Stato ha riconosciuto la presenza di una contaminazione che ne ha comportato l’interdizione per tutelare la salute delle popolazioni residenti.

Zone contaminate, dove è pericoloso abitare. E dove vive il 10% della popolazione nazionale: sei milioni di italiani esposti, ogni giorno, da decenni, a matrici inquinanti che generano un aumento delle percentuali di tumori e morti rispetto alle medie di confronto. C’è uno studio specifico che riporta i numeri di questa correlazione: si chiama SENTIERI - Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, ed è frutto del lavoro dell’Istituto Superiore di Sanità. 

Il Rapporto SENTIERI è un punto di riferimento importante per chi si occupa di contaminazioni in tutto lo Stivale: è il primo testo, da parte di un’istituzione, che attesta che di contaminazione si può morire e che, probabilmente, in alcune aree già accade. La scelta delle parole non è casuale: SENTIERI, così come qualsiasi altro studio, non stabilisce un nesso certo e incontrovertibile dal punto di vista scientifico, ma fotografa una correlazione. Fare di più non è al momento possibile, secondo gli esperti. 

Gran parte dei SIN deriva da ex insediamenti industriali: la corsa all’industrializzazione e la faticosa costruzione del PIL di questo paese hanno richiesto la trasformazione di intere aree del suolo nazionale fino a qualche manciata di decenni fa dedite a tutt’altre vocazioni. Luoghi grandi e piccoli, in tutta Italia, che nel giro di pochi anni si sono ritrovati una faccia nuova, un nuovo stile di vita e, col passare del tempo, un nuovo nemico, invisibile. Produzioni pericolose, a volte di sostanze poi divenute illegali, ma anche attività perfettamente legali le cui conseguenze non sono ancora formalmente riconosciute seppure ci sia gente che, ogni giorno, ne muore. E ancora, attività di scarico e smaltimento illegale di rifiuti: caricati in fusti, ammassati su camion, gli scarti della costruzione della ricchezza nazionale hanno sfrecciato per le autostrade del nostro paese portando il proprio carico di morte da un punto all’altro per poi nasconderlo sotto il tappeto, sotto terra, negli argini dei fiumi o nelle fondamenta degli edifici

L’ultima edizione del Rapporto, la sesta, pubblicata lo scorso febbraio ha sostanzialmente confermato i dati delle precedenti edizioni: nei territori presi in esame c’è un eccesso di mortalità (in media è il 2,6%) e di ospedalizzazioni (in media il 3%) rispetto alle medie regionali, legato in maniera più o meno diretta alla presenza di industrie, ex poli industriali, impianti di diverso genere. La novità di questa edizione è che lo studio contiene per la prima volta un capitolo tematico dedicato alla “Giustizia Ambientale”, curato dal dottor Roberto Pasetto, del Dipartimento ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità, e dalla dottoressa Daniela Marsili, del WHO Collaborating Centre for Environmental Health in Contaminated Sites dell’ISS.

La relazione si concentra sull’intersezione tra problemi sanitari e problemi sociali per le popolazioni residenti nelle aree inquinate e arriva alla conclusione che una serie di evidenze può portarci a parlare di ingiustizia ambientale per le comunità coinvolte. 

"Quando parliamo di ingiustizia ambientale - spiega a Valigia Blu il dottor Pasetto - è necessario guardare i fenomeni nella loro dimensione temporale. Secondo la prospettiva indicata da SENTIERI, parliamo di ingiustizia ambientale quando si hanno condizioni che sovraccaricano le comunità: la presenza di siti contaminati, accompagnata da fragilità socioeconomiche e rischi sulla salute, superiori rispetto al contesto regionale di riferimento”. 

Possiamo definire le popolazioni residenti nei SIN vittime di ingiustizia ambientale? “È importante guardare i fenomeni sull’asse temporale - prosegue Pasetto - Prendiamo ad esempio le cosiddette monotown (città la cui economia deriva dalla presenza di un’unica industria), come Gela. Cittadine che si trovano immediatamente a ridosso di grandi complessi industriali. Se guardiamo a queste con una dimensione temporale esclusivamente a breve termine vediamo che negli anni successivi agli avvii delle attività hanno vissuto un’esplosione demografica, l’aumento dell'occupazione e del benessere associato al reddito. Se guardiamo l’effetto attuale però vediamo che l'occupazione negli impianti industriali è estremamente ridotta, c’è inquinamento e profili di salute delle comunità evidenziano eccessi di rischio: questi sono elementi di ingiustizia ambientale. All’epoca poteva essere definita tale? Nei primi decenni si vedevano solo gli aspetti positivi, poi è arrivata la contaminazione, la perdita di lavoro, le conseguenze sanitarie. Il fenomeno della giustizia ambientale è complesso. Oggi si può dire che alcune di queste comunità, prevalentemente quelle del Sud e delle Isole, presentano condizioni di ingiustizia ambientale”.

Gli impianti petrolchimici della grande industria nazionale

Il rapporto assegna a “impianti petrolchimici e/o raffinerie oppure impianti siderurgici” gran parte della responsabilità delle contaminazioni.

Quando si parla di industrie di questo genere, nel nostro paese, c’è solo una sigla che si staglia su tutte le altre. Come a Gela, una cittadina di poco più di 70.000 abitanti lungo la costa meridionale della Sicilia, il golfo più vasto dell’isola, e a Mestre, poco meno di 90.000 abitanti, all’interno della città metropolitana di Venezia, dove gli stabilimenti di ENI hanno costituito l’unico volano di sviluppo industriale nel corso del secolo scorso e la contaminazione ambientale è tra le più taciute a livello mediatico.

“Sono figlio di un operaio metalmeccanico che ha lavorato dentro l'ex raffineria per più di 25 anni - dice a Valigia Blu  Andrea Turco, giornalista di Gela - negli ultimi anni mio padre non ha fatto altro che partecipare a funerali di suoi ex colleghi, tutti (o quasi) morti dopo aver contratto un tumore”. Gli fa eco Franco Rigosi, di Medicina Democratica di Mestre: “Negli anni ‘70 i medici di base si accorsero che molti bambini avevano una forte asma correlata all’inquinamento dell’aria - ha spiegato - Ci dissero che era come se fumassero 20 sigarette al giorno. Negli anni successivi i medici allertarono le autorità del territorio per l’alto numero di tumori e partirono gli studi epidemiologici. SENTIERI ha effettuato per la prima volta un monitoraggio continuativo”.

Turco e Rigosi raccontano la storia dei propri territori, l’abbraccio mortale tra sviluppo industriale e contaminazione che ha caratterizzato le loro vicende. 

“La relazione - ha detto Turco - è prettamente politica, anche perché il tribunale di Gela ha sempre negato ogni nesso causale tra attività industriale e contaminazione ambientale”. “Senza quello scatto ci sarà sempre una dipendenza dall’ENI: dipendenza economica (il Comune attualmente è in pre fallimento e l'unico rimedio immaginabile è quello di provare a ottenere le royalties dal gasdotto Argo-Cassiopea), sociale (senza ENI non c'è lavoro), culturale (il racconto della città che viene fatto dal progetto di ENI "Gela le radici del futuro”), mentale (nel senso di un immaginario incapace di costruirsi senza l'industria)”. 

Un connubio indissolubile che negli anni ha portato sviluppo e che adesso ha lasciato solo macerie. Una storia identica anche dal lato opposto dello Stivale: “Da poco abbiamo festeggiato i 100 anni del petrolchimico di Marghera - dice Rigosi a Valigia Blu - uno dei più grandi d’Europa e del mondo, che con la sua produzione ha inquinato negli anni l’aria, l’acqua e il suolo. L’impatto sanitario è stato pesante ma non ci si è resi conto del numero delle morti per tumori nella zona fino a che non è partito il processo sul CVM [cloruro di vinile monomero, sostanza emessa dagli impianti e altamente inquinante, indicata come cancerogena], dopo la denuncia di Gabriele Bortolozzo di Medicina Democratica, che aveva visto i suoi compagni di lavoro in reparto morire tutti di tumore al fegato. Era l’unico sopravvissuto”. 

“Tutti pensavano fosse una risorsa perché forniva il pane a migliaia di famiglie. Nessuno sapeva degli scarichi cancerogeni. Anche perché la legislazione al tempo era abbastanza permissiva”, prosegue Rigosi. Fino alla denuncia di Gabriele Bortolozzo, l’operaio i cui esposti, nella torrida estate del 1994, hanno portato al maxiprocesso sul petrolchimico di Marghera concluso il 19 maggio del 2006 con la condanna di tre amministratori delegati, del responsabile medico-sanitario centrale e di un direttore generale centrale. Bortolozzo, classe 1934, è entrato nel petrolchimico nel ‘56 e per anni ha visto i suoi colleghi cadere uno a uno. Ha raccolto dati, storie, numeri e informazioni sugli incidenti. Nel 1990 è andato in pensione. Passa gli anni successivi a riordinare le sue carte e nel 1994 varca la soglia dello studio del magistrato Felice Casson, dando vita alla sua personale rivoluzione. Non la vedrà mai: morirà, per un incidente stradale, l’anno successivo. La sua storia è riportata in un cortometraggio animato: El mostro

“Quando Gabriele Bortolozzo denunciò le morti di CVM dei suoi colleghi i sindacati lo attaccarono e isolarono - spiega Rigosi - dimostrando come anche loro fossero succubi del potere economico e politico di ENI. Per fortuna trovò un magistrato indipendente, Casson, che andò avanti con gli esposti e la denuncia. Come associazione ambientalista ci avevamo provato già prima degli anni 90 ma eravamo stati ignorati”.

La parabola dello sviluppo industriale

Quello che è accaduto a Brescia, a Gela e Porto Maghera è molto simile. Racconta della stessa situazione che ha visto portare in diverse aree dell’Italia - da Casale Monferrato a Manfredonia, da Porto Torres a Taranto e Brindisi - prima un’industria fiorente e benessere sociale, poi crisi ambientale ed economica, povertà e malattie. 

A Porto Marghera è andata esattamente così: “La fabbrica - spiega Rigosi - ha lavorato con il boom economico, era pane per le famiglie. Tra gli anni ‘70 e ‘80 le riduzioni del personale hanno innalzato le tensioni sociali”. Qui, alla fine degli anni ‘70, le Brigate Rosse hanno ucciso due vicedirettori del petrolchimico. Adesso l’area è caratterizzata da una forte disoccupazione. Alle chiusure non sono seguite le aperture di nuovi impianti promessi e, quelle che ci sono state, erano nettamente ridimensionate rispetto alle aspettative. 

“Penso proprio che il nostro sia un territorio sfruttato e sacrificato - prosegue Rigosi -. Oltre ad aver stabilito da regolamento comunale che a Marghera debbano essere installati gli impianti nocivi e pericolosi e sacrificare scientemente questo territorio, adesso i politici hanno deciso che la nostra vocazione territoriale è trattare i prodotti nocivi, così gli impianti petrolchimici sono stati sostituiti da inceneritori. Ce n’è già uno, ne vogliono aprire un altro e c’è in progetto la costruzione di un inceneritore per i fanghi degli impianti di depurazione”. L’elenco delle matrici di contaminazione ambientale continuerebbe, tra le ex centrali a carbone divenute poi a metano, lo spostamento della destinazione delle Grandi Navi, faticosamente allontanate da Venezia, oltre al transito delle merci liquide, solide e gassose provenienti da Cina e Medioriente.

“Ci sono anche i grandi depositi di container, i parchi serbatoi di ENI, che ha chiuso gli impianti, ma che ancora stocca nel sito sostanze chimiche acquistate e poi commercializzate in Italia e Sud Europa…”. Porto Marghera è anche interessata da importanti percentuali di smog dovuti al traffico di camion per i diversi snodi autostradali, le navi merci e il Marco Polo, il terzo aeroporto più importante l’Italia. “Proporre inceneritori in una zona così - commenta amareggiato Rigosi - è veramente criminale. Questa società sta accettando di sacrificare popolazione, ambiente e territorio solo per il profitto”. 

Andrea Turco pensa le stesse cose rispetto a Gela: “Non mi pare che sinceramente ci sia chi possa obiettare che Gela è un territorio sacrificato e la sua comunità marginalizzata” - ha detto il giornalista, che ha poi enumerato: - “i quasi 700 ettari di proprietà dell'ex raffineria, la piana di Gela disseminata di trivelle, il mare che deve fare i conti con 4 piattaforme e un gasdotto e le navi cisterne, l'area attorno al gasdotto GreenStream (quello che arriva dalla Libia) che è di interesse strategico (e dunque con un presidio armato). L'ingiustizia ambientale per me è proprio questo: dover subire le conseguenze di mega impianti industriali non scelti”.

L'impatto dei rapporto scientifici, la distanza delle istituzioni e questioni di giustizia ambientale

Dall’analisi sulla giustizia ambientale redatta dal dottor Pasetto e dalla dottoressa Marsili emergono due dati: gran parte dei luoghi contaminati si trova tra il Meridione e le isole; le fasce di popolazione esposte alla contaminazione sono le più fragili dal punto di vista economico. I più poveri vivono nei luoghi più degradati dal punto di vista ambientale e si ammalano di più, e questo dato vale sia sul macro, a livello nazionale, che sul micro, territorio per territorio. 

Nulla di sorprendente per gli addetti ai lavori, ma un avanzamento importante dal punto di vista della produzione di sapere istituzionale. Se anche le popolazioni coinvolte avevano già la consapevolezza della condizione di ingiustizia in cui versavano, il fatto che il direttore dell’Istituto Brusaferro abbia dichiarato: “Le pressioni ambientali, per queste popolazioni, sono molteplici, e spesso si mescolano con lo svantaggio socio-economico, producendo indicatori di segno negativo e ponendo la questione dell’importanza dei determinanti ambientali”, rende le loro condizioni più ufficiali. 

Quella di Ceprano - come anche Brescia, Gela o Porto Marghera - è una storia di contaminazione e ingiustizia ambientale: il sito contaminato si trova in un’area abitata sulla quale il Comune ha disposto un’ordinanza che vieta alla popolazione il consumo di acqua potabile a causa dei veleni che hanno inquinato la falda. Le ordinanze comunali sono uno strumento molto importante nelle specifica vicenda delle industrie Ex Olivieri: praticamente gli unici interventi istituzionali a tutela della popolazione di Ceprano. 

“Dopo 9 anni di amministrazione, con più di 6 milioni di euro di finanziamenti destinati alla rimozione dei rifiuti e al risanamento su diversi siti nel nostro territorio, con un accordo di programma già in essere e con nessuno degli interventi di caratterizzazione e rimozione dei rifiuti ancora attuato”, dice, amareggiata l’assessora Guerrero. “Non è concepibile che un amministratore debba assistere a situazioni simili, senza poter avere strumenti di difesa della collettività. Noi in fondo rappresentiamo lo Stato sul territorio, perciò anche su queste tematiche la normativa dovrebbe sempre avere un percorso ordinario e uno straordinario per le emergenze ambientali”. 

“Che ci siano state condizioni di ingiustizia - ha spiegato il dottor Pasetto - si sa, si percepisce. Ma è importante averne una formalizzazione, come fa SENTIERI. Così queste condizioni vengono riconosciute come tali a tutti i livelli, anche perché è un’istituzione a farlo”. Secondo il ricercatore lo studio interviene a formalizzare una condizione di ingiustizia ma anche a fornirne informazioni, a raccontarla, inserendo i dati territoriali in un quadro generale: “Ogni sito ha la sua individualità - ha spiegato - ma è importante avere visione d’insieme, questo può essere il contributo di SENTIERI: aver evidenziato che c’è differenza tra Nord, Centro e Sud, ad esempio, è importante, perché questo indica priorità d’intervento a livello paese secondo la prospettiva di promozione della giustizia ambientale”.

“C’è un’ingiustizia di fondo - secondo l’assessora Guerriero - Su tutta la Valle del Sacco dal 2005 in poi c’era un’emergenza legata al lindano. Dopo 18 anni ancora la chiamano emergenza e intanto non sono partite le caratterizzazioni, i campionamenti delle acque sotterranee sono stati parziali e continuano a verificarsi sversamenti, fenomeni di schiume sul Sacco o su suoi affluenti e pressioni negative di vario genere”. I suoi margini di intervento, racconta, sono risicatissimi: “Gli strumenti in mano a un amministratore sono molto limitati. Dopo tanto lavoro sono riuscita a far entrare ben 3 diversi progetti nel nostro Comune: rientrano tra i finanziamenti dell’intero SIN Sacco, ma i lavori non partono ancora. Il sacrificio della mia comunità è stato grandissimo perché negli anni, probabilmente, il binomio lavoro – danno ambientale ha visto la predominanza delle questioni occupazionali su quelle ambientali e magari per molto tempo non si è mai riflettuto su quanto determinati comportamenti avrebbero causato sul nostro territorio”. 

L’ingiustizia ambientale ha dei responsabili?

Se c’è ingiustizia ambientale, ci sono anche responsabili di questa ingiustizia? Secondo il dottor Pasetto possiamo essere tutti in qualche modo corresponsabili: i diversi attori in gioco quali le istituzioni nazionali e locali, financo i cittadini quando non fanno la loro parte per contrastare le ingiustizie ambientali, piccole e grandi. Adesso, almeno, che certe nozioni sono chiare e riconosciute a livello tecnico-scientifico. Ma prima? “Bisognerebbe essere nell’idea di coloro che hanno pensato lo sviluppo del meridione d’Italia, come a Gela, Porto Torres, Taranto: che idea avevano? Probabilmente avrebbero dovuto riflettere: Quale idea di sviluppo per il paese avevano? E per lo sviluppo delle comunità locali? C’è stato interesse soprattutto a livello nazionale, mentre era mascherato, non considerato, o sottovalutato il mancato ritorno di medio e lungo termine alle comunità locali, così come le conseguenze negative e di lungo termine delle contaminazioni”.

Oltre al suo incarico istituzionale, Elisa Guerriero è un’ingegnera ambientale e sta svolgendo un dottorato, dedicato proprio al SIN che include la sua città: “Sono molto frustrata, arrabbiata nei confronti del sistema perché per le mie diverse attività conosco bene tutti i possibili vulnus, ma so altrettanto bene che ci sono farraginosità del sistema amministrativo, fors’anche dovute all’elefantiaca macchina della burocrazia, che non porteranno mai veramente a risolvere completamente i problemi. Il semplice fatto che nel nostro sistema giuridico il reato di disastro ambientale sia stato inserito solo negli ultimi 8 anni, implica anche che il sistema giuridico non porti ad acclarare le responsabilità penali di chi ha inquinato e che spesso il responsabile della contaminazione, anche conclusa la fase di indagini, non venga sanzionato, generando nella collettività questo sentimento comune di sconforto che “tanto non succede niente a nessuno”. 

La difficoltà della macchina amministrativa è enorme - ci spiega l’assessora - perché ci sono diverse sovrapposizioni di responsabilità da un lato, e mancanza di strumenti definiti dall’altro. “Comune e Regione non hanno gli strumenti economici spesso e nemmeno le risorse umane: spesso manca il personale adeguatamente formato e i responsabili dei comuni, soprattutto in quelli più piccoli, devono occuparsi di ambiente, urbanistica, cimitero, lavori pubblici ecc…. Non si investe in assunzioni e figure al servizio di queste tematiche. È da più di un mese che ho scritto al ministero e ancora non mi ha risposto. Mentre gli enti sovraordinati possono anche perdersi nei meandri burocratici o in quelli del lavoro perché il Ministero, fors’anche giustamente, non ha certo il front office con i cittadini, io invece le responsabilità me le sento tutte sulle spalle e mi bussano alla porta di casa e, anche se non bussano, io i manifesti dei morti li vedo tutti i giorni, e questo non ti permette di dormire”. 

Quando le istituzioni tacciono, spesso interviene l’attivazione dei cittadini e delle cittadine, perché in quei territori ci abitano e questo impone loro di trovare una soluzione. “Essere madre in un territorio contaminato - ha raccontato Claudia Cauzzi, impegnata a Brescia per la bonifica dei parci cittadini - vuol dire prestare, sempre, estrema attenzione. A quello che fanno i tuoi figli, ma anche a capire bene cosa succede al tuo territorio, poter poterlo denunciare e poter manifestare”. “Qui - ha spiegato l’attivista - quando sono arrivata i sette parchi erano tutti aperti; ho saputo della contaminazione solo quando i bimbi sono cresciuti e ho iscritto il più grande alla Deledda. Lì sono entrata nel comitato dei genitori, impegnato a spingere l’amministrazione a bonificare i giardini. Dal 2018, grazie alle pressioni dei cittadini, i parchi cittadini sono contrassegnati da diversi codici di colore che indicano il grado di pericolosità”. Così, se un parco ha il codice rosso vuol dire che l’accesso è interdetto, ma se ad esempio è contrassegnato col giallo significa che è consentito passeggiarvi, ma non correre, far gattonare i bambini, scavare o movimentare la terra”. Claudia racconta delle proteste dei genitori, dell’occupazione dei locali della Deledda la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2012 e di quella che è seguita, di lì a un mese, all’Agenzia di Tutela della Salute (ATS) di Brescia. “Chiedevamo a gran voce la bonifica del giardino della scuola, così che i bambini potessero giocare almeno là”. 

Anche lei pensa che la sua comunità sia stata vittima di un’ingiustizia ambientale. “Ancora adesso, sto conducendo una battaglia personale per come si stanno effettuando le bonifiche dei parchi: i camion si caricano di terra avvelenata e poi vanno via spargendola lungo tutto il tragitto. Non si presta alcuna attenzione a chi ha già subito, è già stato martoriato. Sai perché accade questo?” - ha chiesto - “Perché questo è un territorio di periferia: qui ci sono le case popolari, le famiglie più povere. Nessuno andrà a battere i pugni in Comune pretendendo quello che gli spetta. L’ingiustizia ambientale qui è ingiustizia sociale: chi è più ricco, semplicemente, va via”. 

In molti territori l’assenza di una risposta istituzionale efficace e la mortificazione degli strumenti a disposizione di amministrazioni e comunità locali sono vissute come un tradimento da parte delle istituzioni. La cosiddetta Terra dei Fuochi, l’area della Regione Campania tra Caserta Sud e l’area nord di Napoli, è da tempo oggetto di diverse attività di smaltimento illegale e altamente nocivo dei rifiuti: interramenti, incendi, roghi spontanei, discariche abusive a cielo aperto ma anche insediamente perfettamente legali, imposti al territorio da un governo dopo l’altro, da una gestione commissariale dopo l’altra. C’è chi, in questo marasma da veleni e tumori, ha deciso di fare una scelta di vita: praticare agricoltura agroecologica. Dedicare la propria vita alla natura, ai suoi cicli, ai suoi tempi e al profondo rispetto per ogni elemento, in netta controtendenza con il contesto in cui si trova. 

Miriam Corongiu è una contadina del territorio e lo conosce molto bene, ha partecipato e partecipa a tutte le reti di attivazione e denuncia: ”Da troppi anni ci troviamo in un luogo molto inquinato e questo influisce sulla salute di territori e persone - ci ha detto -  Bastano gli occhi per capire che sversamenti illegali e roghi sono un gravissimo problema per la nostra salute. Conosciamo tutti gli studi in materia, è un problema solo delle autorità non riconoscere ancora il nesso diretto tra inquinamento e salute”. 

Anche Miriam Corongiu ritiene di essere parte di una comunità sacrificata: “Penso che la mia sia una comunità estremamente sacrificata: sappiamo benissimo che tutto il sud Italia è la parte del paese economicamente più depressa, nella quale però è anche molto più facile per ragioni culturali e di povertà andare a installare cattedrali nel deserto, impianti inquinanti e sdoganare una certa lentezza nel prendere decisioni sul piano politico. Qui - ha constatato la contadina - le persone non hanno gli stessi strumenti che in altre zone del paese, dove gli investimenti sono stati sempre più forti in termini culturali”.  

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Parlando della sua terra, Corongiu parla di un “laboratorio di cancerogenesi a cielo aperto”: “L’ingiustizia ambientale è il nostro pane quotidiano, ed è molto difficile organizzare le forze: nelle zone in cui c’è scollamento dal punto di vista sociale è anche più difficile organizzare una resistenza in questa direzione”.

Gran parte delle difficoltà deriva da una profonda disillusione rispetto agli strumenti della politica: “È un dato evidente, è sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni - ha spiegato - basta guardare la strada in cui faccio agricoltura: anche interessare le autorità amministrative locali al problema è sempre estremamente difficile. Questa ingiustizia genera atteggiamenti differenti, spesso indifferenza vera e propria, sia delle persone sia soprattutto da parte delle autorità”. Le denunce si ripetono negli anni, nonostante protocolli e strumenti di monitoraggio territoriale le aree non vengono ripulite e gli illeciti non sono impediti: “Abbiamo la sensazione di scontrarci continuamente con un muro di gomma. Manca la volontà politica: si trincerano tutti dietro la mancanza di fondi e di personale ma nessuno si batte davvero per i diritti di cittadini e cittadine. Le donne sono le più penalizzate: i dati ci dicono che il tumore al seno è tra le principali cause di morte delle donne campane”.

Immagine in anteprima via italiaunderground.it

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