AP: “L’Italia ha stretto accordi con le milizie libiche per fermare i flussi di migranti”
17 min letturadi Angelo Romano e Roberta Aiello
«Incomincio a vedere la luce alla fine del tunnel» (Marco Minniti, ministro dell'Interno, 15 agosto 2017).
«Nessuna polemica può oscurare i risultati di queste settimane, a cominciare dalla significativa riduzione del numero di sbarchi (-3.5% sul 2016). E i nostri ministri, bravi e capaci, stanno facendo un buon lavoro» (Matteo Renzi, segretario Pd ed ex presidente del Consiglio, 9 agosto 2017).
Tutti contenti. Nelle ultime settimane il fenomeno della migrazione irregolare nel Mediterraneo ha subito un netto calo. Rispetto al mese di luglio dello scorso anno gli arrivi sono diminuiti più del 50% e i dati rilevati ad agosto mostrano, in maniera ancora più evidente, questa riduzione: si è passati dai 21294 migranti sbarcati in Italia nel 2016 ai 2745 arrivati nello stesso mese di quest'anno.
Frontex, l'agenzia europea di controllo della guardia di frontiera e costiera, attribuisce questo calo a più cause: il cambiamento climatico, una maggiore attività della guardia costiera libica e l'aumento delle violenze nella città libica di Sabratha (divenuta ultimamente il polo principale del traffico di migranti), che rendono più difficili le partenze. Altri ritengono che i motivi siano da cercare nei controlli più rigidi messi in atto dal governo italiano, che ha fornito attrezzature e addestrato la guardia costiera libica e ha imposto restrizioni alle Ong che svolgono operazioni di ricerca e salvataggio al largo della costa libica, anche se, come spiega il centro di studi strategici ISPI, non sembra esserci alcuna connessione tra calo degli sbarchi e codice di condotta per le Ong, approvato un mese dopo la drastica diminuzione degli arrivi di migranti in Italia.
Codice #Minniti ha fatto diminuire gli #sbarchi?Non fatevi ingannare dalle apparenze, il calo inizia ben prima. @emmevilla pic.twitter.com/33iNC6fHyr
— ISPI (@ispionline) August 8, 2017
L’accordo tra Italia e Libia è stato elogiato da diversi paesi europei, tra cui Francia e Germania, e nell’ultimo vertice di Parigi è stato indicato come modello da seguire. Il presidente francese Emmanuel Macron ha sottolineato che le intese raggiunte tra Italia e Libia sono «un perfetto esempio di quello che vogliamo realizzare», mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha definito le misure adottate «estremamente concrete».
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Ma le cose sembrano essere un po’ più complesse e opache. Secondo un’inchiesta di Associated Press, per fermare l’arrivo dei migranti dal Nord Africa, l’Italia avrebbe stretto accordi direttamente con due milizie precedentemente coinvolte nel traffico di persone dalla Libia verso l’Europa. E sarebbe proprio il coinvolgimento diretto delle milizie una delle ragioni del drastico calo dei flussi migratori dal paese nordafricano. Il ministero degli Esteri italiano ha negato ogni coinvolgimento e affermato che «il governo italiano non negozia con i trafficanti».
Grazie a un accordo sostenuto dall’Italia, si legge nell’articolo, il governo di Tripoli sta pagando due milizie implicate nel traffico di persone verso l’Europa per impedire che i migranti attraversino il Mediterraneo.
Le due milizie, note col nome di “Al-Ammu” (ufficialmente chiamata “Martire Abu Anas al Dabbashi”) e “Brigata 48”, hanno sede a Sabratha, uno dei principali punti di partenza dei barconi e gommoni dei migranti, e sono guidate da due fratelli della grande famiglia Dabbashi, definiti da un funzionario di sicurezza “i re del traffico” a Sabratha. Anche un rapporto del gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia, a giugno, ha identificato al-Ammu come i principali facilitatori del traffico di esseri umani. La prima milizia è nota ai funzionari italiani perché dal 2015 si occupa della sicurezza dell’impianto della Mellitah Oil and Gas (una joint venture tra Eni e Noc, la compagnia statale libica, che gestisce concretamente le attività in loco, scrive Guido Rampoldi sul Fatto Quotidiano) per l’estrazione di petrolio nel vicino paese di Mellita dopo che quattro dipendenti italiani di un'altra società petrolifera che lavorano in Libia erano stati rapiti. La seconda, si legge nella traduzione del Post del pezzo di AP, è stata oggetto di un’inchiesta di Reuters, pubblicata il 21 agosto, che descriveva l’efficacia della campagna anti-trafficanti in corso a Sabratha.
Come raccontato ad AP da Bashir Ibrahim, portavoce di al-Ammu, un mese fa le due forze hanno raggiunto un accordo “verbale” con il governo italiano e il governo di Fayez al Serraj, che di fatto integra le due milizie rispettivamente nelle forze del ministero della Difesa e dell’Interno. Da allora in cambio di attrezzature, barche e di un compenso, le milizie hanno impedito alle imbarcazioni migranti di lasciare le rive intorno a Sabratha e detto ai contrabbandieri di porre fine al loro lavoro. Una situazione di “tregua”, come l’ha definita lo stesso Ibrahim, strettamente legata al continuo flusso di attrezzature e denaro alle milizie.
L’integrazione ufficiale delle due milizie nelle forze di sicurezza di Serraj metterebbe l’Italia nelle condizioni di lavorare direttamente con loro in quanto considerate parte del governo riconosciuto, anche se, prosegue AP, questa collaborazione sembra essere solo di facciata.
Il contatto diretto con i leader delle due milizie è stato confermato all’agenzia di stampa internazionale anche da testimonianze di fonti della sicurezza libica e di attivisti impegnati con i migranti. Abdel-Salam Helal Mohammed, un dirigente del ministero dell’Interno del governo di Tripoli incaricato di combattere il contrabbando, ha raccontato di un incontro fra membri di al-Ammu di Sabratha e funzionari italiani per stringere un accordo per fermare il traffico di migranti, mentre un funzionario di sicurezza e un agente di polizia (che hanno chiesto ad AP di restare anonimi), sempre di Sabratha, hanno aggiunto che al momento dell’incontro non erano presenti rappresentanti del governo e pertanto l’Italia aveva fatto l’accordo direttamente con le milizie. Di questo incontro, ricostruisce Il Post nella sua traduzione dell'inchiesta di AP, aveva parlato anche la giornalista Francesca Mannocchi in un articolo pubblicato su Middle East Eye lo scorso 25 agosto, senza però trovare conferme ufficiali.
«I trafficanti di ieri sono le forze anti-trafficanti di oggi», ha detto la fonte della sicurezza libica, sottolineando come con i finanziamenti che riceveranno le milizie costruiranno nuove armi. «Quando la luna di miele con gli italiani finirà ci troveremo ad affrontare una situazione ancora più pericolosa e noi abbiamo troppe poche risorse per affrontarli in una lunga battaglia», ha aggiunto.
Dopo la caduta del leader libico Gheddafi, nel 2011, le bande armate sono diventate sempre più potenti e hanno gradualmente riempito il vuoto di potere creatosi. Centinaia di bande e milizie hanno trasformato il traffico di esseri umani in un’impresa, rendendolo più efficiente e anche più brutale.
«Non è possibile che un'area che da anni è bivio del traffico umano sia diventata improvvisamente calma. La calma è stata determinata da accordi economici realizzati con le milizie locali. Non esiste alcuna negoziazione, eccetto con le milizie», dice a Mannocchi un uomo che ha preferito non rivelare il suo nome per motivi di sicurezza. «Con i soldi si può comprare tutto qui».
«I migranti sono sempre stati un business», dice una seconda fonte. «Lo erano quando volevano andarsene e i trafficanti organizzavano ogni giorno decine di gommoni. Lo sono ora quando l’Europa deve fermarli perché… tutto ha un prezzo». È impensabile, prosegue la persona sentita dalla giornalista, che i trafficanti perdano milioni di dollari, fermando le loro attività illecite, solo perché il governo di Sarraj ha raggiunto un accordo per rafforzare la guardia costiera libica. «I trafficanti pensano solo al denaro e hanno armi, quindi per assicurare la stabilità dell'area dovete pagarle e pagarle molto».
L’accordo è stato confermato anche da due attivisti locali che si occupano dei diritti umani dei migranti: le milizie avrebbero preso il controllo della prigione della città per ospitare i migranti bloccati e stavano preparando una pista di atterraggio vicino l’ospedale per ricevere aiuti umanitari dall’Italia. Il 19 agosto la milizia aveva detto in un post sulla propria pagina Facebook di aver coordinato tra l'ambasciata italiana e l'ospedale di Sabratha la consegna di tre spedizioni di assistenza medica del governo italiano. Circostanza non confermata dal ministero degli Esteri italiano, che ha fatto sapere di aver consegnato 5000 “kit igienico-sanitari e di primo soccorso per migranti” alla città di Zuwara senza fare alcun riferimento a consegne all’ospedale di Sabratha.
«Quello che gli italiani stanno facendo a Sabratha è davvero sbagliato», ha raccontato ad AP uno degli attivisti contattati, Gamal al Gharabili: «state accrescendo il potere delle milizie».
Un portavoce del governo italiano, contattato da AP, non ha voluto rilasciare dichiarazioni dicendo che l'Italia non commenta i rapporti sulle attività di intelligence.
In un commento su Facebook, Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia, ha detto che secondo sue fonti di Sabratha gli italiani non hanno partecipato ai negoziati, ma «hanno tracciato la linea dei finanziamenti alle autorità libiche per loro legittime (...) L'Italia tratta con le istituzioni libiche che trattano con le milizie».
Francesca Mannocchi, subito dopo, ha invece risposto che da sue fonti le risultano confermati più incontri con rappresentanti italiani.
L’accordo Italia - Libia
Quanto sollevato dall’articolo di AP si inserisce in un particolare contesto caratterizzato da accordi internazionali che definiscono il quadro dei compiti dei diversi paesi nel controllo delle frontiere, nella gestione del traffico dei migranti e degli interventi in mare, da una situazione di grande instabilità politica, istituzionale e di equilibri di potere e da legami molto opachi tra contrabbandieri di esseri umani, milizie e guardia costiera libica, che l’Italia è chiamata ad addestrare in base al Memorandum of Understanding con la Libia siglato nel febbraio scorso.
L’accordo prevedeva che l’Italia fornisse “supporto tecnico e tecnologico” alla Guardia costiera libica affinché fosse in grado di arginare i flussi di migranti illegali e che i due paesi cooperassero per chiudere il confine meridionale della Libia, principale punto di transito per i migranti dell’Africa sub-sahariana, per “adeguare e finanziare” i “centri di accoglienza” (che sembrano essere più centri di detenzione, come testimoniato da tante inchieste giornalistiche sul campo) presenti nel paese nord-africano. L’Italia avrebbe provveduto al finanziamento di tutte le iniziative previste dall’accordo, incluso “l’avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dall’immigrazione illegale (...) senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato”.
In sintesi, la Libia si impegnava a chiudere il suo confine a sud e a fermare i barconi in partenza verso le coste europee, l’Italia avrebbe offerto supporto organizzativo, dando attrezzature e formando la Guardia Costiera libica e finanziando non precisati “programmi di sviluppo”. Nel suo insieme, il memorandum d’intesa tra i due paesi rientrava nella strategia di esternalizzazione delle frontiere (affidare a paesi terzi la gestione dei flussi migratori) inaugurata con l’accordo tra Unione europea e Turchia per bloccare la rotta balcanica.
Una soluzione che non poteva che rendere soddisfatti l'Italia e i paesi dell'Unione Europea, commenta The Economist, ma che non sembra la scelta migliore per almeno due motivi. La prima è che, sebbene la maggioranza di coloro che tentano di arrivare in Europa siano migranti economici, esiste una minoranza che fugge dalla persecuzione (spesso proprio in Libia). Il fatto che in Libia vengano detenuti nega loro la possibilità di chiedere il diritto di chiedere asilo. La seconda criticità riguarda le terribili condizioni in cui versano i campi libici in cui sono trattenuti i migranti. Lo scorso mese di giugno, alcuni giornalisti tedeschi in visita a un campo profughi popolato da sole donne, hanno raccontato di aver incontrato una detenuta che ha affermato di essere stata violentata ripetutamente e che "ha mostrato i vestiti macchiati di sangue". Un rapporto dell'Onu del 2016 ha descritto le condizioni di questi centri come "generalmente inumane" in cui "gli agenti percuotono, umiliano e ricattano i migranti". Condizioni ampiamente riportate anche in un reportage dell’Espresso dello scorso febbraio a Garian, uno dei 30 centri allestiti in Libia per rinchiudere i clandestini, “gabbie di lamiera in cui vivono 1400 migranti trattati come animali”, si leggeva nell’articolo. Proprio oggi Medici Senza Frontiere ha pubblicato un lungo reportage che testimonia le condizioni"né umane né dignitose" dei migranti detenuti nei centri di detenzione di Tripoli in condizioni.
Inoltre, aggiunge Guma El-Gamaty, professore e politico libico, in un articolo pubblicato da Al Jazeera, i migranti dovranno richiedere asilo mentre sono reclusi nei centri e nei campi profughi in Libia. E poiché la stragrande maggioranza di coloro che faranno richiesta non sarà accolta in Europa, quella che dovrebbe essere una dimora temporanea in Libia è destinata a diventare permanente. Questa strategia è destinata a trasformare il paese in una zona tampone al fine di "proteggere" l'Europa dai migranti sub-sahariani. L'insediamento permanente di milioni di migranti in Libia provocherà cambiamenti demografici drammatici portando a grandi sconvolgimenti sociali ed economici che determineranno instabilità, povertà e violenza tali che si ripercuoteranno in tutto il Mediterraneo.
Per quanto riguarda i finanziamenti, a marzo, si era parlato di un piano da almeno 800 milioni di euro per rendere operativo l’accordo siglato a febbraio. Serraj aveva chiesto navi, elicotteri, fuoristrada, macchine, ambulanze, sale operative, apparecchiature. All’epoca Bruxelles aveva stanziato in via d’urgenza 200 milioni di euro. Attualmente, scrive Luca Misculin su Il Post, si è ancora molto distanti da quelle cifre: a luglio la Commissione Europea ha stanziato 46 milioni di euro per «potenziare le attività della guardia di frontiera e della Guardia costiera libica», ma non è chiaro se questi soldi siano stati già spesi. L’Italia, invece, ha approvato una nuova missione tra fine luglio e i primi giorni di agosto, che prevede un appoggio alla Guardia costiera e l’invio di una nave e di alcuni uomini, che dovrebbero poter intervenire soltanto durante le operazioni di soccorso. Secondo alcuni, aggiunge Misculin, praticando dei respingimenti di persone, considerati illegali dal diritto internazionale.
Tecnicamente, spiega Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia, l’Italia non sta finanziando la Guardia costiera libica, ma sta rifornendo il paese nordafricano di attrezzature (restituendo fondamentalmente le motovedette già date nel 2008 e poi restituite all’Italia tra il 2011 e il 2012 perché danneggiate perché venissero riparate) e formazione grazie alla riattivazione del vecchio trattato di amicizia italo-libico siglato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. Ha potuto farlo perché la comunità internazionale ha riconosciuto il governo di Serraj e finalmente ha trovato un interlocutore legittimato con cui interloquire e stringere accordi. «Diciamo che si sta facendo un “gioco delle tre carte”. (...) Si può insomma dire che c’è una sorta di complementarietà tra l’azione dell’Europa e quella dell’Italia – con l’Europa che mette i fondi per i centri in Libia, e l’Italia che fornisce i mezzi (e l’addestramento) alla Guardia costiera libica».
Proprio a partire da questa sua nuova posizione di forza, prosegue Porsia, la Guardia Costiera libica ha imposto a tutte le navi straniere il divieto di soccorrere i migranti nelle aree cosiddette aree di “search and rescue” (Sar), molto oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali, in cui le navi straniere non sono mai potute entrare.
In diverse occasioni la Guardia Costiera libica si è resa protagonista di incidenti e violazioni dei diritti umani, di speronamenti e colpi di armi da fuoco verso le navi delle Ong che soccorrono in mare e di maltrattamenti nei confronti dei migranti. Sea-Watch racconta di un attacco a ottobre 2016 da parte dell’equipaggio di una nave, che si presentò come Guardia Costiera libica, a un barcone di migranti che provocò la morte di 4 persone. Anche un rapporto della missione Onu in Libia, pubblicato nel dicembre 2016, parla di incontri pericolosi e potenzialmente mortali tra migranti e uomini armati che si ipotizza lavorino per la Guardia Costiera libica. «Dopo essere stati fermati, i migranti vengono spesso picchiati, derubati e portati nei centri di detenzione o in case o fattorie private, dove sono soggetti a lavori forzati, stupri e altre violenze di natura sessuale». Per questo, denunciava Human Rights Watch subito dopo l’annuncio del supporto operativo delle navi della Marina militare al governo di Tripoli, «l’aiuto dell'Italia alla Guardia costiera libica rischia di tradursi in complicità negli abusi sui migranti».
Chi stiamo addestrando?
«In Libia è difficile capire chi è chi», spiega a Il Post Eugenio Cusumano, docente di Relazioni internazionali all’università di Leida (Pesi Bassi) ed esperto di ONG e soccorsi in mare. Una persona che appartiene a una milizia può in momenti diversi combattere i propri nemici, sorvegliare il mare ed esercitare funzioni di polizia e controllo, essere coinvolto in traffici per arricchirsi.
Il rapporto di inizio giugno del gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia, precedentemente citato, evidenzia che la Guardia Costiera libica è “direttamente coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani”, insieme alle reti dei trafficanti e ai gestori dei centri di detenzione per migranti, al cui interno c’è una sistematica violazione dei diritti umani, come denunciato dal rapporto dell’Unicef “A Deadly Journey for Children”. In alcuni casi, non si riesce a distinguere tra le operazioni della Guardia costiera e quelle delle milizie armate.
Chi stiamo addestrando, dunque? Quel che viene fuori, scrive Luca Misculin, è che la forza di sicurezza che dovrebbe pattugliare 600 chilometri di costa libica e fermare i migranti è un insieme di milizie e personaggi dal profilo ambiguo. Anzi, il ruolo delle milizie è diventato così rilevante che si ipotizza che non esista un solo corpo di Guardia Costiera, ma ce ne siano tante quante sono le milizie che controllano le città costiere. Una situazione generata dal vuoto di potere creatosi dopo la caduta del regime di Gheddafi nel 2011 e che oggi vede la Libia controllata da almeno due governi diversi: quello di Serraj, a ovest, e quello del generale Khalifa Haftar, appoggiato da Russia ed Egitto, a est. I diversi analisti che si occupano del paese nord-africano concordano nell’individuare un corpo centrale controllato dal governo di Serraj, a Tripoli, alleato con una serie di milizie che controllano le città di Zuwara e Sabratha, due dei principali punti di partenza dei migranti verso l’Europa.
Il governo italiano, prosegue Misculin, ha scelto di collaborare con la Guardia Costiera di Tripoli, legittimandola rispetto alle altre. È questo il corpo che l’Italia sta addestrando e sta provando a far diventare sempre più indipendente: l’idea è quella di realizzare a Tripoli due centri operativi per il soccorso in mare e il contrasto all’immigrazione e di lasciare sempre più spesso il coordinamento dei soccorsi alle autorità locali.
Una delle figure più opache è quella di Abd al-Rahman Milad, 31 anni, noto col nome di al Bija, capo della Guardia costiera di Zawiyah, si legge ancora nell’articolo di Misculin. Nel 2011 al Bija lasciò l’accademia navale per unirsi ai ribelli che volevano rovesciare il regime di Gheddafi. Durante la guerra, il gruppo a cui apparteneva si impadronì dei pozzi di petrolio di Zawiyah e al Bija diventò il capo della Guardia costiera locale e cominciò a collaborare con i trafficanti locali di esseri umani. Ancora oggi tutti i trafficanti di Zawiyah, scrive Nancy Porsia in una lunga inchiesta, sono tenuti a cedere ad al Bija una percentuale delle loro entrate, mentre chi non paga viene intercettato dalla “sua guardia costiera” e vengono rubati loro i motori, lasciando i migranti in mezzo al mare oppure portandoli nel centro di detenzione Al Nasser di Zawiyah.
“È come se giocassero a guardie e ladri, ma in salsa libica: con i ruoli degli uni e degli altri che si invertono di continuo a seconda delle convenienze”, scrive Amedeo Ricucci a proposito di al Bija in un lungo reportage su Repubblica. La sua tribù, l’Awlad Bu Hmeira, controlla la zona del porto e la raffineria di Zawiyah, consentendogli di essere al centro di tutti i traffici della città, compreso quello dei migranti. Secondo il rapporto del Consiglio di sicurezza dell’Onu consegnato a giugno (e precedentemente citato), “Bija è in affari con Mohamed Koshlaf, capo della Petroleum Facilities Guard, il quale controlla la raffineria locale e gestisce inoltre, attraverso la milizia Nasr, il centro di detenzione per migranti che si trova nell’area del porto”.
Bija nega il suo coinvolgimento e dice a Ricucci di combattere i migranti. “Quello che Bija non dice – prosegue il giornalista – è che la sua è solo una milizia armata, anche se ufficialmente veste i panni della Guardia costiera; e le sue operazioni navali contro i trafficanti sono solo abili mosse di risiko nella guerra senza quartiere che oppone le milizie locali per il controllo del territorio. D’altra parte sarebbe impossibile bloccare tutti i gommoni in partenza per l’Italia. E allora – come ci spiega una fonte del posto che preferisce restare anonima – «la milizia di Bija sceglie con chi fare affari, quali gommoni cioè lasciar passare e quali bloccare. Lo stesso fa con i contrabbandieri di petrolio: quelli che non vogliono guai, pagano. È un grosso affare». (...) A Tripoli il nome di Bija comincia a creare qualche imbarazzo”.
Secondo Porsia, il comando centrale di Tripoli non è riuscito a portare Zawiyah sotto il proprio controllo, ma spiega Misculin che un portavoce della Marina militare di Tripoli (in alcune occasioni citato come portavoce della Guardia Costiera), ha difeso sul Washington Post il lavoro di al Bija, affermando che è uno dei più attivi nelle missioni di soccorso e interruzione del flusso clandestino.
«Con il tracollo della situazione in Libia», racconta Nancy Porsia su Open Migration, «i giovani miliziani che prima erano solo sul fronte – ventenni ai tempi della rivoluzione, che spesso hanno problemi di alcol e droga – hanno visto nel business dei migranti una grossa opportunità e quindi hanno iniziato a infiltrare questo mercato, trasformando anche la natura del rapporto coi migranti: da liberi acquirenti di un servizio a soggetti vittime di coercizione e violenza». Si tratta di “cavalli pazzi”, spiega Porsia, che non hanno competenze né scrupoli nel trasporto di esseri umani e che hanno sotto controllo solo la tratta finale della rotta migratoria, «quella che passa attraverso il loro paese, perché poi nell’ambito dell’economia regionale è la vera mafia strutturata, che esiste da ben prima della rivoluzione in Libia e ha saputo sfruttare il vuoto di potere determinatosi nel paese, a controllare il viaggio per intero».
A gestire i traffici lungo la rotta è la mafia di nigeriani e sudanesi. I libici, conclude la giornalista esperta di Libia, «tendenzialmente sono sul libro paga dei trafficanti della Nigeria, del Sudan e dall’Etiopia, e gli stessi migranti pagano a questi soggetti il prezzo del viaggio e non ai “cavalli pazzi” libici».
Il vertice di Parigi
Il 28 agosto a Parigi si sono incontrati i leader di quattro paesi europei (Italia, Francia, Germania e Spagna) e tre paesi africani (Niger, Ciad e Libia) per trovare un’intesa sulla gestione dei flussi migratori verso l’Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. All’incontro hanno partecipato, il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Federica Mogherini, il presidente nigerino Mahamadou Issoufou, il presidente ciadiano Idriss Derby Itno e il primo ministro del governo libico di unità nazionale Fayez al Serraj, che controlla la zona di Tripoli.
Nel documento integrale del vertice si legge che Niger e Ciad saranno sostenuti dall’Europa con “l'appoggio a strutture governative a nord del Niger e del Ciad per permettere di soccorrere gli individui in pericolo nel deserto e il rafforzamento della loro frontiera nord con la Libia". Questo significa che l’obiettivo è fermare i flussi migratori ben prima che arrivino nel paese libico. In Libia l'impegno Europeo punta su rafforzare "una coooperazione economica che renda possibile un'alternativa al profitto economico della tratta umana". Infine, i migranti dovranno sottoporre la loro richiesta di asilo o altre forme di protezione internazionale direttamente in Ciad e Niger per scoraggiare le partenze di persone che non hanno la possibilità di ottenere lo status di rifugiato in Europa.
Come ha spiegato Macron al termine dell’incontro, si è deciso di «attuare azioni concrete a monte, nei due grandi paesi di transito, e cioè Niger e Ciad». Il modello seguito è stato quello degli accordi con la Turchia, per quanto riguarda la rotta balcanica, e dell’Italia con la Libia e segue la cosiddetta strategia delle esternalizzazioni delle frontiere.
La soluzione che arriva da Parigi sposta il problema in Niger, commenta Gianluca Di Feo su Repubblica. Lì è stata annunciata la creazione degli hotspot dove vagliare le richieste di asilo, valutando la possibilità di trasferirvi le persone fermate in Libia sotto la vigilanza di un contingente militare.
Le conclusioni del vertice sono state criticate anche da alcune organizzazioni umanitarie. Per Medici Senza Frontiere, solo quando il piano diventerà operativo potrà essere espresso un giudizio definitivo. «Oggi per le persone è sempre più difficile fuggire dalla Libia, un Paese in cui sono a rischio e dove vengono respinti, in situazioni terribili, da parte della guardia costiera libica, addestrata dell'Ue», ha dichiarato Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti sull’immigrazione dell’organizzazione. I migranti che attraversano Ciad, Niger e Libia «affrontano numerosi pericoli da parte dei trafficanti. Queste persone hanno urgentemente bisogno di alternative reali. La creazione delle condizioni per consentire alle persone di accedere a un'adeguata assistenza umanitaria e a procedure di asilo eque ed efficienti non si effettua da un giorno all’altro. Mentre il processo è in atto, le persone che non hanno altra scelta che fuggire devono essere in grado di farlo in modo sicuro. I leader dell'Ue devono garantire che le loro buone intenzioni non si trasformino in una trappola per le stesse persone che intendono proteggere dai trafficanti».
Per il Centro Astalli, «i diritti umani sono stati i grandi assenti del vertice» e la Libia, «di cui si ribadisce la necessità di stabilizzazione e transizione politica, è uno snodo fondamentale per la riuscita del piano di azione».
Immagine in anteprima via abcnews – AP Photo/Emilio Morenatti