52 paesi chiedono all’ONU l’embargo delle armi verso Israele
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Il più recente tentativo per bloccare i bombardamenti su Gaza passa attraverso la richiesta dell’embargo al trasferimento di armi e munizioni a Israele. Lo ha promosso la Turchia, alla fine di ottobre, come capofila di oltre cinquanta paesi membri dell’ONU e di due organizzazioni sovranazionali. La lettera sull’embargo delle armi è, appunto, indirizzata ai tre organi principali – gli organi politici – delle Nazioni Unite. Il segretario generale, il consiglio di sicurezza, l’assemblea generale.
Alla fine, dunque, l’ONU è la tappa obbligata. A seconda delle circostanze, è un palcoscenico diplomatico oppure un ring. In altri frangenti è una sede processuale, o la macchina oliata degli aiuti umanitari. Oppure, come succede sempre più spesso, l’ultima spiaggia. Considerata un guscio che non contiene più la forza di difendere pace e sicurezza, oppure il retaggio di una concezione occidentale/coloniale del mondo, l’ONU continua – allo stesso tempo – a essere comunque l’extrema ratio. Il consesso costruito sulle regole che nessuno, però, riesce a far rispettare.
A scorrere la lista dei firmatari della lettera che chiede con estrema urgenza l’embargo nei confronti di Israele, ci si accorge subito di quanto quei fogli non siano un ballon d’essai. Troppi gli Stati che, pur da posizioni spesso distanti, hanno preso una posizione precisa. Non solo e non tanto la Turchia, paese capofila. Ci sono Russia e Cina. C’è la Norvegia che, unica, rappresenta una voce dissonante in Europa. C’è l’Indonesia e la Malaysia, il Sudafrica e la Nigeria. C’è la Lega Araba e l’Organizzazione della Conferenza Islamica. Ma ci sono soprattutto protagonisti di peso della regione. Ci sono Iran e Arabia Saudita, ancora una volta sullo stesso fronte, come sullo stesso fronte sono stati poche settimane fa nelle esercitazioni militari navali congiunte nel mare prospiciente l’Oman. E c’è appunto l’Oman, il paese-cerniera, da sempre negoziatore, assieme ad alcuni tra gli Stati che hanno composto l’asse degli accordi di Abramo di epoca trumpiana: Bahrein, Emirati Arabi, Marocco, Sudan. Ci sono Egitto e Giordania, gli storici unici due paesi che con Israele hanno un trattato di pace, sinché regge.
Non è solo una lista, dunque. È la regione che si è compattata, per ora sulle parole e su una lettera, con il sostegno di un pezzo importante di cosiddetto ‘sud globale’ e di due tra le superpotenze (Russia e Cina). Da domenica 10 novembre, e non sembra una coincidenza temporale, è in corso a Riyadh un summit arabo-islamico straordinario proprio su Palestina e Libano, dunque un vertice delle due organizzazioni – Lega Araba e Organizzazione per la Conferenza Islamica – che sostengono la richiesta di embargo delle armi.
Avrà rilevanza la lettera? Avrà rilevanza una mossa di questo tipo? L’ostacolo principale è il tempo, tiranno, breve, impietoso: il tempo dei bombardamenti incessanti, della completa distruzione del nord di Gaza, della messa in atto perdurante e senza sosta del genocidio a Gaza. Non c’è, insomma, il tempo che vi è stato, nel caso del Sudafrica dell’apartheid, per mettere in piedi sin dall’inizio degli anni Sessanta l’embargo delle armi, prima volontario poi divenuto obbligatorio nel 1977. Né il tempo lungo perché l’Assemblea generale dell’ONU decidesse, esattamente mezzo secolo fa, il 12 novembre del 1974, la sospensione del Sudafrica dai lavori del consesso. Fuori dall’assemblea generale ma non dall’Onu, per vent’anni, sino alla fine dell’apartheid e alla nascita di un Sudafrica democratico.
Ora non c’è questo tempo, ma la richiesta dei 52 paesi con capofila la Turchia è un passo obbligato, soprattutto visto che è stata lasciata sinora alla volontà dei singoli Stati la decisione di fermare il trasferimento di materiale bellico. Non lo ha fatto di certo Washington sotto l’amministrazione Biden: gli USA si sono al contrario profilati come un alleato fedelissimo, che ha continuato a foraggiare Tel Aviv con un ponte aereo senza sosta non di aiuti umanitari, ma di armamenti del valore di oltre venti miliardi di dollari. Non lo ha fatto il Regno Unito, non lo hanno fatto in misura formale i paesi dell’Unione Europea.
Pensare che un atto di questo genere abbia un risultato rapido e immediato è, certo, una illusione. Riporta, però, la politica internazionale dentro l’ONU, che in questo anno ha vissuto, invece, soprattutto il ruolo di bersaglio. Un bersaglio simbolico e reale, incarnato nelle più recenti decisioni prese da Israele. La prima, presa dal governo di Tel Aviv, indica Antonio Guterres come persona non grata, impedendogli quindi di entrare nel paese e di poter visitare non solo Israele, ma il Territorio Palestinese Occupato. Gaza, in primis, e la Cisgiordania e Gerusalemme est. La seconda, altrettanto eclatante, è la messa al bando dell’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA) votata a larga maggioranza (opposizioni comprese) dal parlamento israeliano. Un passo non solo pericoloso, ma fuori dalla legalità internazionale, visto che l’UNRWA è un’agenzia il cui mandato è nelle mani dell’Assemblea Generale dell’ONU, e che Israele è obbligata a rispettarne i compiti sia in quanto stato membro delle Nazioni Unite, sia come potenza occupante.
L’attacco diretto contro la figura del segretario generale dell’ONU è da questo punto di vista un banco di prova e, allo stesso tempo, la chiara rappresentazione dello scontro tra Israele e la più importante organizzazione internazionale. È un attacco eminentemente politico, come politico è il profilo del Segretario Generale, organo politico alla pari degli altri organi decisionali, come il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale. Tanto è vero che non è la prima volta che un Segretario Generale riceve un attacco di questo tipo: persona non grata, in quel caso per l’Unione Sovietica, fu il primo segretario generale, il norvegese Trygve Lie, per il ruolo decisivo assunto sulla Guerra di Corea, per bloccare il conflitto e definire la linea del 38esimo parallelo. La caratura politica di Lie, però, non dispiacque per nulla a Tel Aviv, allora, visto che un ruolo altrettanto politico lo aveva assunto a favore della creazione dello stato d’Israele.
Diverso l’attacco di Israele all’UNRWA, che va avanti da anni e che, dal 7 ottobre 2023, ha preso vigore e corpo. Diverso, ma non meno politico. Anzi. L’attacco all’UNRWA è il tentativo – che va di pari passo con la strategia militare messa in atto da Israele – di chiudere definitivamente la questione palestinese distruggendo i campi profughi. Obiettivo già riuscito dentro Gaza e in stadio molto avanzato dentro tutta la Cisgiordania, soprattutto nel nord ma non esclusivamente. Il bando dell’UNRWA da Israele, e dunque dai territori controllati dalla potenza occupante, è uno degli elementi fondamentali in una strategia complessa che può avere un solo obiettivo: l’espulsione dei palestinesi, privati del loro riconoscimento come appartenenti alla terra di Palestina. Per traslato, infatti, il bando dell’UNRWA cerca di togliere non solo ai rifugiati palestinesi, possessori di un documento che indica la loro appartenenza e le proprietà che sono state loro tolte, ma a tutti i palestinesi il legame formale con la terra. Israele prova, e lo hanno detto a chiare lettere ministri del governo Netanyahu ed esponenti politici di diversi partiti, a chiudere definitivamente la partita e a definire anche formalmente i confini di Eretz Israel dal mare al fiume, confini solo per israeliani.
Svilita e considerata senza potere, l’ONU diventa – lo è nei fatti – l’ultimo ostacolo che si frappone tra le mire del governo israeliano (con il sostegno di buona parte delle opposizioni) e la legalità internazionale. Ne è ennesimo esempio e conferma ciò che le forze armate israeliane stanno facendo in Libano, in questo caso con gli attacchi diretti alle forze dell’UNIFIL, attacchi di diverso tipo alle postazioni delle forze di peacekeeping dell'ONU di stanza nel sud del paese.
Negli stessi giorni di metà luglio, mentre la Corte Internazionale di Giustizia cercava di imporre la fine dell’occupazione, dopo ben cinquantasei anni, oltre mezzo secolo, con un suo dispositivo, il parlamento israeliano mostrava, con un voto passato abbastanza sotto silenzio, che la larga maggioranza dei suoi rappresentanti (68 a 9, con l’uscita dall’aula del centro-sinistra) non vuole la creazione dello Stato di Palestina. La rappresentazione plastica di una tragedia di cui siamo tutti corresponsabili.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera English via YouTube