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La più grave crisi costituzionale, politica, istituzionale e di sistema della sua storia, Israele davanti a un bivio: “O soluzione o disastro”

12 Marzo 2023 5 min lettura

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La più grave crisi costituzionale, politica, istituzionale e di sistema della sua storia, Israele davanti a un bivio: “O soluzione o disastro”

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“La scelta è solo una: o il disastro o una soluzione”. Il presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, riassume così, con poche, dure parole, la situazione in cui si trova il paese, da oltre due mesi al centro della più grave crisi costituzionale, politica, istituzionale, di sistema della sua storia.

Herzog è sempre stato noto per i suoi toni moderati. Stavolta, però, è apparsa con tutta evidenza la sua appartenenza alla élite ashkenazita che ha creato lo Stato e la sua macchina istituzionale. Figlio di un presidente di Israele come Chaim Herzog, nipote di un rabbino capo, imparentato con il ministro degli Esteri più noto della storia nazionale (Abba Eban), Herzog sa che – per il suo DNA politico – ci sono soglie che non possono essere valicate.

La soglia da non valicare è lo stesso sistema istituzionale, la separazione dei poteri, la catena di comando sulle questioni di sicurezza interna e di gestione dell’occupazione della Palestina. E se è vero che proprio il sistema israeliano è l’oggetto di uno stravolgimento legislativo a opera del governo di destra estrema guidato da Benjamin Netanyahu, allora si comprende di più la pesantezza delle parole del presidente Herzog.

“Questa legislazione deve scomparire dalla faccia della terra”, ha detto Herzog il 9 marzo scorso in un discorso in diretta anche sulla sua pagina Facebook, proprio nelle stesse ore e minuti in cui Netanyahu stava iniziando la sua visita in Italia, uno dei paesi europei in cui può avere più chance, con i segnali più che positivi inviati dal governo Meloni all’esecutivo di destra israeliano. Herzog si riferisce alle leggi approvate o in via di approvazione alla Knesset, dove il governo Netanyahu detiene la maggioranza.

Nei giorni scorsi era stato reso noto il tentativo del presidente Herzog di arrivare a un compromesso: un tentativo che aveva suscitato critiche da tutte le parti. Sia nella maggioranza di governo, sia nelle opposizioni. Le parole del 9 marzo, la durezza dell’espressione di Herzog, scuro in volto, testimoniano della frattura in atto in Israele, e di quanto questa stessa divisione sia il “convitato di pietra” in una possibile mediazione del presidente. Una frattura profondissima, che sta scavando nella società solchi difficili da rimarginare. Tutti i testimoni contattati in queste settimane raccontano una storia simile: Israele non è mai stata così in pericolo come ora. E solo per questioni interne. La legislazione che la coalizione di destra al governo vuole far approvare quanto prima mina alle basi la separazione dei poteri, svuota del suo ruolo la Corte suprema, cambia gli stessi equilibri del sistema militare e di sicurezza israeliano.

Così, il governo Netanyahu è riuscito a compattare – non nella Knesset, bensì per le strade – una opposizione di carattere trasversale, composta da segmenti della società israeliana che mai si sono uniti in una protesta che dura da oltre due mesi e che si allarga a macchia d’olio. Dagli esponenti del Likud alla sinistra-sinistra, dalla maggioranza (sino a poco fa) silenziosa a chi, al contrario, si era già schierato contro il ritorno al potere di Netanyahu.

Ricompaiono, ovunque e in gran numero, le bandiere israeliane nelle proteste, nei blocchi stradali e nei flash mob del giovedì, nelle grandi manifestazioni che di sabato riempiono le arterie stradali di Tel Aviv, assieme a Haifa, a Gerusalemme, alle cittadine che finora non avevano visto assembramenti. Si approfondisce, al contempo, la frattura tra settori diversi della società israeliana, soprattutto la frattura tra i laici e gli ortodossi legati al sionismo religioso, la vera ossatura che sostiene il governo attraverso le sue ali più estreme che i manifestanti non esitano a definire “fasciste”.

Il vero assente, dicono in molti, è la questione palestinese. Eppure, nella storia di Israele, proprio l’occupazione della Palestina è considerata il cancro che ha eroso la solidità dello Stato dal punto di vista etico e politico. Perché, dunque, di questione palestinese non si parla, e perché i palestinesi non scendono in piazza? Sembra, a ben guardare, che per la prima volta ci sia Israele allo specchio, come raccontato nel "Libro della scomparsa", il romanzo della scrittrice palestinese Ibtisam Azem (pubblicato in Italia da hopefulmonster editore), in cui si immagina da un momento all’altro la scomparsa misteriosa di tutti i palestinesi e la società israeliana che deve fare i conti solo con sé stessa.

D’altro canto, i palestinesi con cittadinanza israeliana hanno sperimentato – soprattutto dal maggio del 2021 – rinnovati pericoli verso la stessa sicurezza della comunità, che ora rappresenta il 20% della popolazione di Israele. Gli attacchi dei settori della destra estrema nelle città israeliane dov’è concentrata la popolazione palestinese sono ancora vivi nella memoria. E ancora vive sono le scene del pogrom a Huwwara a opera dei coloni radicali che vivono attorno a Nablus. In più, la situazione politica in Cisgiordania è – anche lì – di totale separazione tra l’ANP, Abu Mazen e i corpi di sicurezza legati al sistema di potere di Ramallah, da una parte, e la società palestinese frammentata nei diversi cantoni in cui l’occupazione israeliana ha suddiviso il territorio.

La ferocia dei coloni israeliani ad Hawara non è uno shock ma la vita quotidiana dei palestinesi in Cisgiordania

In maniera profonda, inattesa, e diffusa, i nodi sono arrivati al pettine in Israele, dopo anni di continue elezioni anticipate e di una lotta politica in cui il principale obiettivo delle opposizioni era stato quello di concludere l’era dei governi Netanyahu. Il risultato delle ultime elezioni legislative, con l’inattesa, ennesima vittoria di Netanyahu, sommato alla galoppata della riforma legislativa sembra aver fatto saltare il tappo.

Israele-Palestina: la democrazia in pericolo e il rischio di una terza intifada – Conversazione con Paola Caridi [podcast]

Le incognite, a questo punto, sono molte. Quasi tutte di ordine interno, e cioè di cosa potrebbe succedere dentro Israele. La protesta di piazza continuerà, si allargherà? E se sì, quanto inciderà su un possibile compromesso politico guidato dal presidente Herzog? Oppure la situazione è ormai andata oltre, e la frattura tra le diverse componenti della società, dell’economia, del sistema istituzionale, della sicurezza in Israele ha già provocato separazioni insanabili?

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C’è però una incognita che mette in gioco lo scenario regionale. In molti osservatori, in Israele, nella regione, sino a Washington, lanciano segnali di allarme per un possibile attacco israeliano all’Iran. Le notizie che si sono diffuse sull’arricchimento dell’uranio in Iran arrivato a soglie pericolose, a livelli che rendono possibile il nucleare militare, preoccupano ancor di più in questo momento in cui Netanyahu è paradossalmente debole. Debole per le proteste di piazze, debole perché a dettare la linea del governo sono gli esponenti più estremisti. E debole per il disagio sempre più diffuso, e ormai pubblico, di settori del sistema della sicurezza, militare e di polizia, non solo da parte dei riservisti, ma anche da parte di chi ha avuto ruoli dirigenziali.

Volgere lo sguardo al di fuori dei propri confini, com’è spesso successo nella storia globale, può essere uno strumento, il più conosciuto, per rinsaldare il consenso interno.

Immagine in anteprima via wikimedia commons

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