“Come ex soldato dell’IDF e storico del genocidio, sono rimasto profondamente turbato dalla mia recente visita in Israele”
|
Omer Bartov è uno storico israeliano, tra i maggiori studiosi dell'Olocausto, nello specifico sul coinvolgimento della Wehrmacht nel genocidio messo in atto dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Ha anche prestato servizio per quattro anni nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF), in un periodo che ha incluso la guerra dello Yom Kippur del 1973 e le missioni in Cisgiordania, nel Sinai settentrionale e a Gaza.
Lo scorso giugno Bartov è tornato in Israele per una serie di lezioni all’Università Ben-Gurion del Negev (BGU), nel Be'er Sheva, per parlare delle proteste dei campus di tutto il mondo contro Israele e se fossero una forma di indignazione o motivate da antisemitismo e, più in generale, della guerra contro Hamas a Gaza. Era la prima volta che lo studioso tornava dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha portato al massacro di oltre 1.200 persone e la cattura di oltre 200 ostaggi. Ma le cose non sono andate come previsto. Una di queste lezioni è stata duramente contestata da un gruppo di studenti e attivisti di estrema destra che ne hanno impedito l’inizio fino a quando Bartov non ha deciso di invitarli a entrare, trasformando la lezione in una improvvisata tavola rotonda.
“Non si è trattato di uno scambio di opinioni amichevole”, scrive Bartov in un articolo sul Guardian, “ma è stato rivelatore. Questi studenti non erano necessariamente rappresentativi del corpo studentesco israeliano nel suo complesso. Erano attivisti di organizzazioni di estrema destra. Ma per molti versi, quello che dicevano rifletteva un sentimento molto più diffuso nel paese”, e la loro retorica ha rievocato “alcuni dei momenti più bui della storia del XX secolo”.
A Bartov venivano contestati un articolo sul New York Times del novembre 2023 in cui si chiedeva se in Palestina fosse in atto un genocidio e la sottoscrizione di una petizione che descriveva Israele come un “regime di apartheid” (in realtà, la petizione si riferiva a un regime di apartheid in Cisgiordania).
L’accaduto è stato però un’occasione per riflettere su alcune dinamiche in atto nella società e nell’opinione pubblica israeliana – “non nate di certo oggi, ma dalle radici molto profonde”, scrive Bartov – rivelatrici di una trasformazione della democrazia israeliana e di un sentimento di rabbia mista a paura e di mancanza di empatia verso la popolazione palestinese. Uno slittamento – prosegue Bartov – per certi versi simile alla Germania pre-Olocausto: “Ci sono voluti molti altri anni perché i tedeschi si rendessero conto di quanto i loro stessi padri e nonni fossero stati complici dell'Olocausto e dell'assassinio di massa di molti altri gruppi nell'Europa orientale e nell'Unione Sovietica”.
L'attacco di Hamas del 7 ottobre è stato uno shock tremendo per la società israeliana, dal quale non ha ancora cominciato a riprendersi, spiega lo storico israeliano, che aggiunge:
“Oggi, in vaste fasce dell'opinione pubblica israeliana, compresi coloro che si oppongono al governo, due sentimenti regnano sovrani. Il primo è una combinazione di rabbia e paura, un desiderio di ristabilire la sicurezza ad ogni costo e una totale sfiducia nelle soluzioni politiche, nei negoziati e nella riconciliazione. (...) Il sentimento che ora prevale in Israele minaccia di fare della guerra il proprio fine. In questa visione, la politica è un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi piuttosto che un mezzo per limitare la distruzione. È una visione che non può che portare all'auto-distruzione.
Il secondo sentimento dominante - o meglio, la mancanza di sentimento - è il rovescio della medaglia del primo. È l'assoluta incapacità della società israeliana di oggi di provare empatia per la popolazione di Gaza. La maggioranza, a quanto pare, non vuole nemmeno sapere cosa sta accadendo a Gaza. (...) La portata di ciò che viene perpetrato a Gaza in questo momento dall'IDF è senza precedenti, così come la completa indifferenza della maggior parte degli israeliani nei confronti di ciò che viene fatto in loro nome. Nel 1982, centinaia di migliaia di israeliani protestarono contro il massacro della popolazione palestinese nei campi profughi di Sabra e Shatila, nella parte occidentale di Beirut, da parte delle milizie cristiane maronite, agevolate dall'IDF. Oggi questo tipo di risposta è inconcepibile. Il modo in cui gli occhi della gente si abbassano quando si parla della sofferenza dei civili palestinesi e della morte di migliaia di bambini, donne e anziani è profondamente sconvolgente”.
In questo momento – prosegue Bartov – anche in chi riconosce l’ingiustizia dell’occupazione non c’è spazio per lo sterminio in atto a Gaza. Il trauma subito, la paura, la rabbia hanno la prevalenza: “Nella lotta tra la giustizia e l'esistenza, l'esistenza deve vincere, e nella lotta tra una causa giusta e un'altra - quella degli israeliani e quella dei palestinesi - è la nostra causa che deve trionfare, a qualunque prezzo. A chi dubita di questa scelta netta, l'Olocausto viene presentato come un'alternativa, per quanto irrilevante per il momento attuale”.
In tutto questo, Bartov si chiede che cosa sarebbe successo se il neonato Stato di Israele avesse rispettato l'impegno di promulgare una costituzione basata sulla sua Dichiarazione di Indipendenza.
Che effetto avrebbe avuto una simile costituzione sulla natura dello Stato? Come avrebbe attenuato la trasformazione del sionismo da un'ideologia che cercava di liberare gli ebrei dalla degradazione dell'esilio e dalla discriminazione e di metterli sullo stesso piano delle altre nazioni del mondo, a un'ideologia statale di etnonazionalismo, oppressione degli altri, espansionismo e apartheid? (...) Sarà mai possibile per Israele abbandonare gli aspetti violenti, escludenti, militanti e sempre più razzisti della sua visione, così come è abbracciata ora da tanti suoi cittadini ebrei? Sarà mai in grado di reimmaginarsi come i suoi fondatori l'avevano immaginato: come una nazione basata sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace?
Al momento sembra non esserci spazio per la speranza e queste domande sembrano solo fantasie. Ma, forse proprio perché siamo vicini al punto di non ritorno, si leveranno finalmente voci alternative, “perché – conclude Bartov, citando il poeta Anadad Eldan – 'c'è un tempo in cui le tenebre ruggiscono, ma c'è l'alba e la luce'”.
Immagine in anteprima: Bildungsstätte Anne Frank, CC BY 3.0 , via Wikimedia Commons