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L’attacco dei soldati israeliani ai giornalisti e la censura dei social contro gli attivisti palestinesi

22 Giugno 2021 11 min lettura

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L’attacco dei soldati israeliani ai giornalisti e la censura dei social contro gli attivisti palestinesi

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Nel rapporto 2021 di Reporters sans frontieres (RSF) sulla libertà di stampa e la sicurezza dei giornalisti a livello internazionale, pubblicato ad aprile, Israele è classificato all'86esimo posto su 180 paesi.

Nel documento si legge che in un “ambiente tossico” la copertura sulla vita nei territori palestinesi è scarsa, che i freelance stranieri hanno spesso difficoltà a ottenere o rinnovare l'accreditamento, che l'esercito israeliano viola spesso i diritti dei giornalisti palestinesi, specialmente quando sono al seguito di manifestazioni o scontri in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.

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Nel 2020 due giornalisti sono stati uccisi dai cecchini delle Forze di difesa israeliane (IDF) e molti altri sono rimasti feriti mentre seguivano le proteste.

In Cisgiordania, per disperdere le contestazioni l'IDF ha usato proiettili veri, esponendo i giornalisti a possibili lesioni gravi, tant'è che almeno tre hanno perso definitivamente l'uso di un occhio. Molti altri sono stati sottoposti a detenzione amministrativa, in base alla quale possono essere trattenuti a tempo indeterminato, senza accuse formali, non potendo usufruire di assistenza legale, sulla base di prove “riservate” secondo cui avrebbero incitato alla violenza o collaborato con organizzazioni terroristiche. Negli ultimi anni – secondo quanto riportato da RSF – l'IDF avrebbe messo a dura prova o chiuso molti media palestinesi con l'accusa di incitamento alla violenza.

In questo contesto si inserisce la difficoltà nel raccontare quanto sta accadendo a Sheikh Jarrah, un quartiere che si trova a Gerusalemme Est, dove nel corso degli anni il governo israeliano ha espropriato abitazioni di palestinesi per destinarle a coloni israeliani. Dalle proteste degli abitanti del quartiere, per le ennesime espropriazioni, è scaturito l'ultimo conflitto tra Israele e Palestina durato 11 giorni e terminato con un cessate il fuoco che fa fatica a rimanere in piedi inviolato.

La tensione si è infatti riaccesa una settimana fa, quando si è svolta a Gerusalemme la controversa “Marcia delle bandiere” organizzata dall'estrema destra nella “giornata della riunificazione” in cui Israele celebra l’occupazione di Gerusalemme est del 1967. La manifestazione era stata rimandata il mese scorso per evitare ulteriori frizioni e si è svolta lungo un percorso concordato che avrebbe evitato il Quartiere musulmano. Ciononostante i partecipanti al grido di “morte agli arabi” e “possa bruciare il tuo villaggio” si sono scontrati con i manifestanti palestinesi alla Porta di Damasco. Diciassette dimostranti palestinesi sono stati arrestati e cinque sono stati portati in ospedale. Anche due agenti della polizia israeliana hanno ricevuto cure mediche dopo essere stati colpiti da pietre. In risposta alla marcia venti roghi sono scoppiati al confine con Israele a causa di palloni incendiari lanciati da gruppi armati dalla Striscia di Gaza a cui l'esercito israeliano ha replicato con attacchi aerei che hanno colpito siti militari di Hamas a Khan Yunis e a Gaza.

In questo clima di tensione è indifferente l'emittente o la testata per cui si lavora. Il fatto stesso di portare una videocamera o un microfono per strada può determinare la possibilità di essere attaccato.

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Negli ultimi giorni di maggio erano tredici i giornalisti palestinesi che si trovavano in carcere per aver tentato di svolgere il proprio lavoro spesso in condizioni “estremamente stressanti e pericolose”, sia a Sheikh Jarrah come in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Tra loro la giornalista Zaina Halawani e il cameraman Wahbi Mikeh sottoposti dal 31 maggio agli arresti domiciliari dopo essere stati arrestati dalle forze di sicurezza israeliane a Sheikh Jarrah.

Come riportato da Al Jazeera, i due stavano cercando di raccontare le proteste degli abitanti del quartiere.

Dopo aver trascorso cinque giorni in carcere, il giudice della Corte centrale di Gerusalemme li ha rilasciati dietro pagamento di una cauzione di 4.000 shekel (1.027 euro) ciascuno, disponendo gli arresti domiciliari per un mese e vietando di comunicare tra loro per 15 giorni.

«La polizia li ha accusati di aggressione, intralcio al lavoro della polizia e minacce», ha spiegato il loro avvocato, Jad Qadamani. «Avrebbero voluto tenerli rinchiusi per ulteriori indagini, ma non c'erano prove sufficienti», ha proseguito.

La condanna, infatti, è stata emessa nonostante siano stati mostrati al giudice alcuni video, che riprendevano i disordini e l'arresto, che smentivano quando dichiarato dalla polizia.

Per Mikeh, con gli arresti, i militari israeliani vogliono spaventare i giornalisti.

«Le forze di occupazione hanno dichiarato che ho cercato di ostacolare l'arresto della mia collega Zaina e che ho aggredito l'esercito. Non è vero.», ha detto Mikeh, colpito alla testa con il calcio di una pistola che gli ha provocato ferite e che ha descritto i cinque giorni di detenzione come i più duri della sua vita.

La sua collega, Zaina Halawani, è stata accusata di aggressione, di aver sventolato la bandiera palestinese e di aver incitato i giovani ad attaccare la polizia.

«Niente di tutto questo è vero. Ho lividi sul corpo a causa delle percosse di due poliziotte», ha detto Halawani ad Al Jazeera.

Rajai al-Khatib, un cameraman palestinese che lavora da anni a Gerusalemme per la televisione giordana ha perso il conto del numero di volte in cui è stato attaccato dalle forze israeliane.

«Sono stato ferito molte volte in passato ma nell'ultimo mese, mentre mi occupavo delle espropriazioni dei palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est e delle irruzioni nella moschea di Al-Aqsa, il comportamento e l'atteggiamento delle forze israeliane è peggiorato», ha detto.

«Alcune settimane fa, la mia gamba è stata colpita da un proiettile di gomma nei pressi della Città Vecchia di Gerusalemme e sono dovuto andare in ospedale. In un'altra occasione, mentre mi trovavo a Sheikh Jarrah, la mia macchina fotografica è stata rotta e sono stato picchiato dalla polizia israeliana che mi ha preso alle spalle. Gli agenti la mettono sul personale e le loro azioni sembrano ritorsioni contro i giornalisti per la copertura mediatica negativa che Israele riceve a livello internazionale», ha specificato.

A molti giornalisti palestinesi in possesso di vari tesserini è stato impedito di entrare a Sheikh Jarrah dalla polizia israeliana che affermava di aver bisogno per l'accesso di una tessera rilasciata dall'Ufficio stampa del governo israeliano (GPO). Nonostante al-Khatib fosse in possesso di quel documento è stato ugualmente aggredito.

«Fare il giornalista qui è estremamente stressante e anche pericoloso e la mia famiglia è costantemente preoccupata».

Il 5 giugno agenti della polizia israeliana hanno aggredito la giornalista araba di Al Jazeera Givara Budeiri mentre procedevano al suo arresto e hanno distrutto l'attrezzatura del suo collega Nabil Mazzawi.

Budeiri si trovava a Sheikh Jarrah per raccontare un sit-in organizzato in occasione del 54esimo anniversario della Naksa (ricaduta), un termine usato dai palestinesi per descrivere la seconda diaspora successiva alla conquista di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, dopo la terza guerra arabo-israeliana del 1967.

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La donna, che lavora per il media arabo dal 2000, indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta “stampa” al momento dell'arresto ed era in possesso di un tesserino rilasciato dall'ufficio stampa del governo israeliano (GPO). È stata rilasciata alcune ore dopo.

Il suo arresto ha suscitato una dura condanna da parte dei sostenitori della libertà di stampa e dei gruppi che monitorano la libertà dei media.

«Sono venuti da ogni parte, non so perché, mi hanno spinto verso il muro», ha raccontato Budeiri, pochi istanti dopo il rilascio.

«Mi spingevano in macchina con molta violenza... mi hanno spinto da ogni parte».

La giornalista ha detto di essere stata “trattata come una criminale” alla stazione di polizia e che le è stato impedito di togliersi il giubbotto antiproiettile o di chiudere gli occhi. L'accusa a suo carico – che ha negato con forza – è di aver preso a calci una soldatessa.

Il rilascio è stato disposto a condizione di non recarsi a Sheikh Jarrah per 15 giorni.

Hoda Abdel-Hamid, corrispondente di Al Jazeera, ha affermato che Budeiri è stata arrestata senza un motivo apparente mentre cercava di recuperare e mostrare la sua tessera stampa.

«È stata spinta per tutto il tempo in cui ha cercato di prendere la sua tessera per mostrarla», ha detto Abdel-Hamid.

«Abbiamo parlato con diversi testimoni e tutti hanno detto che non c'era motivo per quel tipo di tensione e che non era chiaro perché abbiano deciso di prendersela con Givara mentre altri giornalisti stavano facevano esattamente quello che lei stava facendo», ha concluso.

Mostefa Souag, direttore generale ad interim di Al Jazeera Media Network, ha condannato fermamente l'arresto.

“Condanniamo con la massima fermezza le azioni delle forze di occupazione israeliane. Prendere di mira sistematicamente i nostri giornalisti è in totale violazione di tutte le convenzioni internazionali. Le azioni violente commesse dalle forze di occupazione israeliane contro Givara Budeiri e Nabil Mazzawi sono in totale disprezzo dei diritti umani fondamentali dei giornalisti”, si legge nella nota.

“Il silenzio dei giornalisti ottenuto terrorizzandoli è diventata un'attività di routine per le autorità israeliane, come testimoniato nelle ultime settimane a Gaza e nella parte di Gerusalemme occupata. Queste azioni non possono essere prese in esame isolatamente”, ha proseguito.

“Questi tentativi di impedire ai giornalisti di svolgere il proprio dovere professionale di informare il mondo e riferire quanto accade sul campo rappresentano un crimine contro la professione giornalistica”.

Il tentativo di non permettere di raccontare quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah non è limitato alla stampa ma ha coinvolto anche gli abitanti palestinesi del quartiere i quali – dopo essere riusciti ad attirare l'attenzione internazionale attraverso i social con la campagna #SaveSheikhJarrah guidata da alcuni membri della comunità, in particolare dai fratelli attivisti Mohammed e Muna al-Kurd particolarmente seguiti e nei giorni scorsi arrestati e rilasciati – non possono condividere ciò che accade.

Utenti di Instagram, Facebook, Twitter e Tik Tok che condividono contenuti da e su Sheikh Jarrah hanno riferito che i loro account sono stati censurati, limitati o chiusi.

Lo stesso Mohammed al-Kurd ha affermato di aver ricevuto un avviso da Instagram che i suoi post su Sheikh Jarrah e la brutalità del regime israeliano hanno violato “gli standard della community” per cui il suo account potrebbe essere eliminato.

Per un breve periodo è stato sospeso l'account della sorella Muna il cui video in cui si confronta con un colono israeliano che le dice “Se non ti rubo la casa, te la ruberà qualcun altro” è diventato virale.

Per Yara Hawari, accademica palestinese, scrittrice e analista politica di Al-Shabaka, un think tank il cui obiettivo è “educare e favorire il dibattito pubblico sui diritti umani e sull'autodeterminazione dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale”, le piattaforme come Facebook, WhatsApp, Twitter e YouTube collaborano da tempo con il regime israeliano e i suoi numerosi alleati per censurare la lingua palestinese.

Gli attivisti palestinesi – sostiene Hawari – sanno fin troppo bene che se da un lato queste piattaforme sono state molto efficaci nell'aiutarli a raggiungere una platea internazionale, dall'altro sono state anche usate per censurare e sorvegliare. Nell'ultimo decennio molti palestinesi sono stati arrestati dal regime israeliano per aver pubblicato post sulla loro causa e per aver invitato le persone all'azione sui social.

Secondo Hawari nonostante Israele si sia sempre impegnato per mettere a tacere i palestinesi, il suo giro di vite sulla campagna #SaveSheikhJarrah e sui giornalisti che ne parlano è stato particolarmente aspro e violento. Il quartiere è ormai circondato da posti di blocco. Soltanto ai palestinesi che sono residenti registrati di Sheikh Jarrah è consentito l'accesso mentre i coloni israeliani armati possono attraversare il quartiere in qualsiasi momento. Per questo motivo molti paragonano la situazione di Sheikh Jarrah a un assedio.

La campagna di Sheikh Jarrah è stata presa di mira in modo particolarmente accanito non solo per aver mostrato al mondo la brutalità e l'ingiustizia del regime israeliano, ma anche per essere riuscita a unire i palestinesi di tutta la Palestina colonizzata in una resistenza condivisa definita da alcuni “l'Intifada dell'unità”. Ed è per questo che Sheikh Jarrah continuerà ad essere una spina nel fianco del regime israeliano.

Per protestare contro la sospensione degli account o la cancellazione di contenuti di centinaia di utenti o la limitazione delle funzioni, 18 associazioni e più di 50 artisti hanno lanciato la campagna #StopSilencingPalestine chiedendo la fine della censura delle voci palestinesi da parte di Facebook.

«Mentre i palestinesi combattevano per la loro sopravvivenza sul campo, le piattaforme di social media stavano attivamente mettendo a tacere le loro voci online», ha dichiarato Marwa Fatafta, MENA Policy Manager di Access Now, un'organizzazione che difende ed estende i diritti civili digitali delle persone in tutto il mondo che ha aderito all'iniziativa.

«L'enorme censura dei contenuti palestinesi è l'epitome dell'incapacità delle aziende tecnologiche di proteggere i loro utenti più vulnerabili e di dimostrare il loro impegno a difendere i diritti umani», ha commentato Fatafta.

In un rapporto pubblicato il 21 maggio, intitolato “ Gli attacchi ai diritti digitali palestinesi” 7amleh, il Centro arabo per lo sviluppo dei social media, ha documentato più di 500 casi di rimozione di contenuti tra il 6 maggio – all'indomani dell'annuncio della Corte suprema israeliana, dopo un tentativo di accordo, di rimandare l'udienza nel corso della quale avrebbe dovuto esprimersi sul ricorso presentato da sei famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah contro le espropriazioni disposte da una Corte distrettuale di Gerusalemme – e il 19 maggio.

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Secondo il documento, contenuti e account sono stati rimossi, ridotti e limitati, gli hashtag sono stati nascosti e i contenuti archiviati sono stati eliminati. Il 50% di queste segnalazioni riguardava Instagram, il 35% Facebook, l'11% Twitter e l'1% Tik Tok. Il 3% non includeva informazioni sufficienti per poter essere segnalati alle aziende.

«Questa censura c'era già prima di quest'ultima crisi e continuerà a verificarsi», ha affermato Nadim Nashif, direttore esecutivo di 7amleh. «Chiediamo maggiore trasparenza nella moderazione dei contenuti: così non è sufficiente».

Foto anteprima via Stop Silencing Palestine

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