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Qual è la strategia di Israele a Gaza?

17 Ottobre 2023 5 min lettura

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Qual è la strategia di Israele a Gaza?

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Il primo risultato, prevedibile sin dal 7 ottobre 2023, è che sono civili gli uccisi, i massacrati, gli ostaggi, gli sfollati, i feriti. Dall’una e dall’altra parte del confine tra Gaza e Israele. Sono i civili i protagonisti, le vittime, e persino – nel caso palestinese – il rovello diplomatico che coinvolge i paesi confinanti e l’amministrazione Biden.

Ne è chiara testimonianza il tour diplomatico compiuto da Antony Blinken– qualcuno l’ha perfino definito shuttle diplomacy, in ricordo di un ben differente tour, quello compiuto dall’allora Segretario di Stato Henry Kissinger mezzo secolo fa, all’epoca della guerra dello Yom Kippur e delle sue conseguenze sull’area. Blinken ha fatto tappa, in appena tre giorni, in Israele ma non in Cisgiordania, in Giordania per incontrare sia il presidente palestinese Mahmoud Abbas sia il re hashemita Abdallah II, per poi andare in Qatar, in Bahrein, in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi, e quindi tornare in Arabia Saudita, volare in Egitto, tornare in Giordania e concludere il suo tour a Tel Aviv. In ballo sono proprio quei palestinesi a cui le autorità israeliane hanno imposto di abbandonare nel giro di un giorno e mezzo le proprie case per sfuggire ai bombardamenti e spostarsi verso il sud di Gaza, a Khan Younis e Rafah. Un vero e proprio esodo.

Perché è così importante l’umanità dolente costretta a un penoso trasferimento forzato (qualificato di per sé stesso come crimine di guerra)? Perché fa intravedere uno degli obiettivi del governo di destra israeliano, già indicato nei programmi di partiti come quello del più importante alleato di Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich. Mandare via i palestinesi da Gaza, nel numero più alto possibile. 

Lo ha detto Danny Ayalon, già viceministro degli esteri israeliano, in una intervista con Marc Lamont su Al Jazeera English, il 15 ottobre: "Non diciamo ai gazani di andare sulle spiagge o di affogare in mare... No, Dio non voglia... Andate nel deserto del Sinai. C'è un'enorme distesa, uno spazio quasi infinito nel deserto del Sinai, proprio dall'altra parte di Gaza", ha detto Ayalon. E poi: "L'idea è che se ne vadano nelle aree dove noi e la comunità internazionale prepareremo infrastrutture... tendopoli, con cibo e acqua, proprio come per i rifugiati della Siria".

Profughi, rifugiati. Questa è la ricetta proposta da Ayalon a centinaia di migliaia di palestinesi, forse un milione, che in gran parte sono già profughi, rifugiati di un’altra fuga, quella del 1948. La nakba, la catastrofe, come i palestinesi la definiscono. La maggior parte della popolazione di Gaza è, infatti, composta da chi si rifugiò sulla costa meridionale della Palestina mandataria, nella zona del porto commerciale di Gaza, abbandonando le case e la vita di Jaffa, di Majdal, dell’attuale Ashkelon. Anche allora, ad attendere loro – così come tutti i rifugiati del 1948 – c’erano tende e tendopoli. Chi conosce il modo di appellare i settecentomila della nakba e tutti i loro discendenti, sa che proporre una città di tende nel Sinai significa ricordare, come se ce ne fosse bisogno, che i rifugiati sono il “popolo delle tende”, coloro che abitano i campi di tende, i campi profughi. Una proposta irricevibile.

Lo sanno i palestinesi. Lo sanno i paesi arabi confinanti, Egitto e soprattutto Giordania, la cui stabilità fragile sarebbe messa a durissima prova da una possibile nuova massa di profughi in ingresso. La richiesta di accogliere palestinesi da Gaza attraverso corridoi umanitari, come detto a chiare lettere da più dirigenti israeliani, ha ricevuto dunque molti no, durante il tour diplomatico di Blinken. Non è solo e non è tanto questione di soldi, di sostegno economico americano e/o internazionale. La possibile uscita di una massa di palestinesi da Gaza ripropone una questione che nessuno vuole riaprire, in tempi diversi, in un clima diverso, di fronte a popolazioni arabe che, appena pochi anni fa, hanno dimostrato che la ribellione, addirittura la rivoluzione può essere una opzione.

È per questo che Rafah, il valico tra Gaza e l’Egitto, praticamente sempre chiuso negli ultimi anni, è divenuto il cuore della crisi nel giro di due giorni. Per molti, Hamas e l’Egitto in primis, ma anche per altri paesi arabi, il valico può essere aperto solo in direzione Gaza. Per far entrare, cioè, gli aiuti umanitari di cui hanno disperatamente bisogno i civili palestinesi: acqua, cibo, medicine. I camion sostano da giorni dall’altra parte del confine, nel Sinai, e la Tv egiziana li ha mostrati con dovizia di particolari, proprio perché Abdel Fattah al-Sisi deve convincere la propria opinione pubblica che il sostegno ai palestinesi sarà dentro Gaza. E che lui non vuole passare alla storia come il primo presidente della storia repubblica egiziana che ha permesso una nakba 2.0, proprio alla vigilia delle elezioni del prossimo dicembre che devono decretare il suo consolidamento al potere.

Vale la stessa cosa per la Giordania, come dimostra l’offensiva diplomatica di re Abdallah II, volato prima a Londra e poi a Roma. Proprio a Londra, il re hashemita ha messo in guardia il primo ministro Rishi Sunak, estremamente sbilanciato verso Israele, “da qualsiasi tentativo di trasferire con la forza i palestinesi dal proprio territorio”, poiché “costituirebbe una violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale e avrebbe ramificazioni catastrofiche sui Paesi della regione”. È il Jordan Times, il giornale ufficiale, a riferirlo, e a indicare “il rifiuto della Giordania dei tentativi di spingere la crisi sui paesi vicini e di esacerbare la questione dei rifugiati, sottolineando che la comunità internazionale deve rifiutare di infliggere punizioni collettive ai residenti della Striscia di Gaza”.

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Blinken, dunque, è tornato a Tel Aviv dopo essersi sentito dire che non possono essere gli Stati arabi a pagare una mancanza di strategia di Israele. Qual è l’obiettivo israeliano a Gaza? Espellere con un esodo dalle proporzioni inedite tutta o quasi la popolazione di Gaza, dopo averla tenuta costretta per diciassette anni in un bacino di meno di quattrocento chilometri quadrati? Distruggere Hamas dentro Gaza, cioè nello spazio in cui esercita il potere? Hamas, però, è anche fuori Gaza, in Cisgiordania e in diverse capitali arabe, come dimostra l’incontro di alcuni dei suoi leader più importanti a Doha con il ministro degli esteri iraniano, con la ‘benedizione’ delle autorità del Qatar.

I bombardamenti a tappeto, la guerra, la possibile invasione di terra, insomma, non bastano se a monte non c’è una precisa strategia. O meglio, una strategia realizzabile. Cosa dirà, dunque, il presidente statunitense Biden agli israeliani che ha immediatamente deciso di sostenere? Ha già detto, nella più recente intervista televisiva, che invadere con truppe di terra Gaza e occuparla è un errore, ma nel contempo che bisogna eliminare Hamas. Forse chiarire meglio l’una e l’altra cosa è opportuno. Lo capiremo forse già da domani 18 ottobre in Israele.

Immagine in anteprima: Frame video Il Sole 24 Ore

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