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Dal 1967 a Gaza: l’involuzione della democrazia israeliana

10 Agosto 2024 7 min lettura

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Dal 1967 a Gaza: l’involuzione della democrazia israeliana

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“Hanno contaminato le nostre norme come una falda acquifera avvelenata”, constatava A.B. Yehoshua, il grande scrittore israeliano, riguardo alle conquiste territoriali della guerra dei Sei giorni. “Dal 1967 in Israele hanno incominciato a funzionare due sistemi paralleli: il sistema normativo, costituzionale, democratico dello Stato d'Israele e, dall'altro lato, i Territori amministrati dove le norme morali e di polizia erano completamente differenti”.

“Mi capita di pensare”, continuava Yehoshua, “che allora, quando incominciò l'impresa delle colonie, avremmo dovuto opporci con più forza per fermare la faccenda che ci ha impigliati e ha impigliato così tanto il nostro futuro”. L'occupazione armata di un altro popolo e della sua terra è un'attività naturale per un regime illiberale. Se è una democrazia a praticarla, prima o poi diffonderà come un'epidemia i suoi germi malsani.

Era il 2007 quando lo scrittore, scomparso nel 2022, fece questa riflessione. Già allora il sistema praticato nei territori palestinesi occupati - il sistema immorale secondo Yehoshua - aveva incominciato ad uscire dai confini della Cisgiordania e penetrare nelle menti della società civile, nei progetti dello Stato: l'idea della Grande Israele fino ad allora limitata alle farneticazioni della minoranza nazionalista, diventava un obiettivo raggiungibile.

L'occupazione aveva contagiato l'altro Israele, quello democratico, intaccandone prima l'anima, poi le consuetudini e le norme che regolano una società civile moderna. Oggi il contagio è arrivato al cuore delle istituzioni dello Stato. È al potere. La Torah e gli altri libri sacri sono diventati testi politici. Nella brutalità dell'aggressione di Hamas e nella ferocia della reazione israeliana, la guerra di Gaza non è che un prodotto dell'occupazione iniziata nel giugno 1967: era stata una grande vittoria militare ma anticipava una catastrofe politica.

Per conservare il potere, Benjamin Netanyahu, premier da troppi anni, gioca con la tragedia di Gaza, col pericolo di un confronto con l'Iran, col destino degli ostaggi israeliani ancora vivi. Continuare il conflitto e i pericoli alle frontiere d'Israele sono anche necessari per tenere lontani tre processi per corruzione e abuso di potere.

Nella sua lunga tenuta, Netanyahu ha guidato coalizioni di ogni colore, alla fine deludendo o tradendo gli alleati. Per sopravvivere, non gli era rimasta che un'intesa con i peggiori estremisti del quadro politico israeliano: Itamar Ben Gvir e Bezelel Smotrich, i leader dei partiti nazional-religiosi, quelli dei coloni. Violenti, razzisti, sostenitori del suprematismo ebraico: un'eresia ancor più dissennata quando viene da un popolo che è stato pesantemente vittima di altri predomini razziali. Pochi giorni fa Smotrich ha affermato che, tutto sommato, “potrebbe essere giustificato” affamare i palestinesi di Gaza. Solo la prevedibile reazione internazionale, aveva spiegato, lo tratteneva dal farlo.

Fino a un decennio fa Ben Gvir e Smotrich venivano messi in galera dalle autorità israeliane. A causa delle loro idee razziste era stato loro vietato il servizio militare. Ora siedono in Parlamento. Sono ministri importanti del governo, prendono decisioni sulla sicurezza nazionale, l'economia e sull'allargamento dell'occupazione in Cisgiordania.

Peace Now, il movimento pacifista israeliano, ha da poco pubblicato il suo nuovo rapporto su ciò che sta accadendo nei Territori mentre si combatte a Gaza.

Che democrazia è quella israeliana? Sopravviverà a sé stessa? La presunzione di essere “l'unica del Medio Oriente” è ancora reale o solo uno slogan? Tecnicamente Israele è una democrazia: chi è al potere è eletto dai cittadini; nonostante i suoi errori, Bibi Netanyahu può essere rimosso solo da una crisi parlamentare e un voto anticipato. A dispetto dei suoi scontri quotidiani con i generali dello stato maggiore, non esiste l'ipotesi di un colpo di stato militare. 

Ma anche il Sudafrica dell'apartheid era una democrazia. Il Partito Nazionale sostenitore della segregazione razziale vinceva le elezioni. I partiti che vi si opponevano le perdevano perché i boeri erano più numerosi e più conservatori dei sudafricani di origine anglosassone. C'erano una stampa libera e un dibattito aperto. Per partecipare bastava solo essere bianchi. Neri, meticci, asiatici, indiani erano esclusi.

Fatte le debite differenze, come in Israele. Poco più del 20% della popolazione è palestinese: cittadini arabo-israeliani che non godono degli stessi diritti dei concittadini ebrei. La differenza è stata rafforzata nel 2018 con la legge fondamentale (il paese non ha una Costituzione) “Israele come Stato-Nazione del Popolo Ebraico”. I palestinesi cittadini d'Israele possono godere dei diritti umani (le razze non bianche del Sudafrica non avevano nemmeno quelli). Ma “il diritto di esercitare l'autodeterminazione nazionale nello Stato d'Israele è solo del Popolo Ebraico”, chiarisce la legge.

Molti israeliani ricordano che nonostante questo, il 20% dei palestinesi israeliani ha molti più rappresentanti alla Knesset di quanti ne abbia il 70% dei giordano-palestinesi nel parlamento di Amman. È vero. Ma l'obiezione è irrilevante perché agli arabo-israeliani importa ciò che accade nel loro paese, non in Giordania.

Una democrazia non è fatta solo di elezioni. È garantita da un sistema di pesi e contrappesi, i check and balance fra i poteri dello Stato. Israele li ha ma prima della guerra di Gaza questo governo di estrema destra aveva iniziato a intaccare pesantemente il sistema. A partire dall'autonomia del giudiziario.

L'aggressione di Hamas del 7 ottobre e l'attacco israeliano su Gaza hanno messo in secondo piano quello scontro. Ma hanno posto questioni altrettanto gravi e pericolose per una democrazia. L'elenco è particolarmente lungo e incomincia con i 40mila palestinesi uccisi dai bombardamenti e dall'offensiva terrestre israeliana.

In ogni guerra il bilancio delle vittime è il campo di battaglia della propaganda. In quella cifra – 40mila, più un numero imprecisato di vittime rimaste sotto le macerie - sono compresi anche i miliziani di Hamas. Ma questi ultimi restano una minoranza rispetto a donne, bambini e civili. 

Gli israeliani sostengono che le cifre vengono date da Hamas, dunque sono false. Le loro sono diverse ma non verificabili: non offrono prove. Al contrario le cifre che danno le autorità mediche di Gaza, presumibilmente affiliate ad Hamas, vengono verificate dalle Nazioni Unite: l'80% delle vittime sono state identificate. Anche gli americani credono più a questi bilanci che a quelli dell'alleato israeliano.

Risultato? Come un qualsiasi governo egiziano che non pretende di dirsi democratico, gli israeliani puniscono l'ONU, negando o ritirando il visto ai suoi funzionari. Nove del migliaio di dipendenti palestinesi dell'UNRWA sono stati accusati di aver partecipato ai massacri del 7 ottobre. L'agenzia ONU per i rifugiati li ha subito sospesi ma ancora attende le prove da Israele. Che nel frattempo ha fatto chiudere l'Unrwa. Desiderava farlo da molto tempo: l'agenzia era la prova dell'esistenza dei profughi palestinesi e della loro aspirazione all'indipendenza nazionale.

“Nessuna democrazia credibile intraprende quello che effettivamente è un regime di censura”, scrive il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), un'importante organizzazione indipendente di New York. Al-Jazeera, il network all-news del Qatar, continua a raccontare al mondo cosa sta accadendo nella striscia: il canale in arabo è molto di parte, quello internazionale meno. Ma entrambi sono i soli a informare e dare le immagini che contano per capire cosa stia accadendo.

Come quasi tutti i regimi illiberali arabi, anche il democratico Israele ha messo fuori legge Al-Jazeera. Continuando a pretendere di essere un avamposto dell'Occidente nel caos del mondo arabo, in qualche modo Israele si sta invece mediorientalizzando. 

In questo processo di mutazione non solo impedisce alla stampa internazionale di entrare a Gaza e fornire un'informazione indipendente. Le forze armate israeliane hanno già ucciso più di un centinaio di giornalisti palestinesi che lavoravano dentro la striscia. Come i civili, molti sono stati vittime dei bombardamenti indiscriminati israeliani. Altri però sono stati volutamente assassinati.

Nei suoi quotidiani assalti dentro la Striscia, i soldati hanno arrestato migliaia di uomini palestinesi. Molti sono stati portati nella famigerata prigione di Sde Teiman. Da questa Abu Ghraib israeliana sono usciti racconti e immagini raccapriccianti.

Un'accademica dell'Università Ebraica di Gerusalemme dubita che il 7 ottobre i miliziani di Hamas abbiano violentato le prigioniere israeliane: la polizia la arresta [nda, poi è stata rilasciata]. La Norvegia riconosce lo Stato palestinese: le autorità israeliane revocano le credenziali ai suoi diplomatici presso l'Autorità Palestinese. Dall'inizio della guerra di Gaza è senza fine l'elenco delle violazioni dei diritti umani, delle norme civili, delle palesi contraddizioni del vivere democratico.

Ma il conflitto è solo il punto d'arrivo, forse non l'ultimo, di un processo involutivo iniziato con l'occupazione del 1967 e diventato visibile molto prima di ciò che sta accadendo da 10 mesi.

Dal 1977, quando Menahem Begin e le destre del Likud,  andarono per la prima volta al potere, i laburisti hanno vinto le elezioni solo due volte: Yitzhak Rabin dal 1992 al 1995, quando fu assassinato da un nazionalista religioso israeliano; ed Ehud Barak dal 1999 al 2001. Cinque anni in tutto. Nel resto degli ultimi 47 hanno quasi sempre vinto il Likud o sono andati al potere partiti e leader venuti dal Likud.

Il sionismo socialista di David Ben Gurion, fondatore d'Israele, prevedeva uno Stato forte e una forza armata agguerrita. Ma pensava anche che per rompere l'isolamento d'Israele di allora, servisse la diplomazia. Il suo avversario del sionismo revisionista di destra, Zeev Jabotinsky, un ammiratore di Mussolini, pensava invece che con gli arabi, gli israeliani dovessero parlare dall'alto di “un muro di ferro”: cioè solo quando fossero stati i vincitori. “Gli arabi – riconosceva Jabotinsky – hanno lo stesso amore istintivo per la Palestina che gli Aztechi avevano per il Messico e i Sioux per le praterie. Ogni popolo di nativi combatte i coloni stranieri fino a che spera di potersene liberare... La Palestina dovrà essere loro sottratta con la forza”.

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Zeev Jabotinsky non è mai stato primo ministro. È morto nel 1940, otto anni prima che nascesse Israele, fondato dal sionismo socialista di Ben Gurion. Ma sul lungo periodo il vincitore nel confronto fra i due modelli di nazionalismo ebraico è lui. Israele oggi è quello che Jabotinsky sognava.

Se andate a Gerusalemme e poi a Tel Aviv, scoprirete facilmente che sono così opposte da sembrare città di due paesi diversi. Sono la sintesi delle pericolose diversità d'Israele, che la guerra di Gaza ha reso ancor più inconciliabili. Entrando nell'undicesimo mese di combattimenti, ancora non sappiamo quando né come finirà la guerra. Ma è quando i cannoni finalmente taceranno che per la democrazia d'Israele verrà il momento della verità.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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