Israele: il successo del piano vaccinale, il passaporto anche interno per tornare alla normalità e il caso Palestina
12 min letturaL’attenzione globale ora è rivolta verso Israele, il paese con il più alto tasso di persone che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino (il 53% secondo i dati più aggiornati raccolti su Our World in Data) e che ha deciso di sperimentare l’utilizzo di un passaporto vaccinale per consentire alle persone di poter frequentare i luoghi di aggregazione.
Dopo essere entrato in lockdown per la terza volta a fine dicembre a causa di una recrudescenza dei contagi, Israele ha deciso di allentare le misure restrittive dopo aver registrato un calo delle infezioni, esito delle misure di contenimento del virus e, stando a primi studi al riguardo, del vaccino. Pur mantenendo sempre distanziamento fisico e utilizzo delle maschere facciali, riaprono i negozi, le biblioteche, i musei, le palestre, gli hotel, le sinagoghe, i centri commerciali e attrazioni turistiche come gli zoo, riporta BBC. Le persone potranno tornare a seguire concerti dal vivo e gli eventi sportivi saranno aperti al pubblico fino al 75% della capienza, con un massimo di 300 posti disponibili al chiuso e 500 all’aperto. Restano ancora chiusi per due settimane gli aeroporti.
È il primo passo verso il ritorno a una vita normale, ha affermato il ministro della Salute Yuli Edelstein. Tuttavia, il “ritorno alla normalità” sarà possibile solo per coloro che potranno richiedere un “passaporto verde”, una certificazione di avvenuta vaccinazione rilasciata tramite una app dal Ministero della Salute una settimana dopo la somministrazione della seconda dose del vaccino e valida per sei mesi. Anche una piccola fascia della popolazione – Edelstein ha parlato di 740.000 persone – che si è ripresa dall’infezione ma non è eleggibile a ricevere il vaccino potrà ottenere il passaporto.
Una volta inseriti i dati personali, i cittadini riceveranno una versione stampabile del passaporto e un QR code scansionabile. La vice-presidente delle tecnologie dell’informazione per il Ministero della Salute, Rona Kaiser, ha voluto rassicurare tutti che saranno garantite la privacy e la sicurezza dei dati condivisi sulla app: “È un codice ad alta sicurezza con una firma digitale. Ci siamo consultati con alcuni consulenti per la sicurezza delle informazioni per fare in modo che il passaporto verde sia sicuro”.
Come funzionerà? Per poter andare al lavoro, entrare in un negozio o in un altro spazio chiuso, le persone dovranno mostrare la copia stampabile del passaporto verde o il QR code, aprendo l’app, insieme alla carta d’identità. I bambini potranno accompagnare i genitori a patto che risultino negativi al tampone mentre quelli che sono rimasti infetti e si sono negativizzati potranno ricevere una certificazione di avvenuta guarigione che verrà registrata sul passaporto dei loro genitori. Saranno previste sanzioni nei confronti delle persone trovate in possesso di passaporti verdi falsi.
L’utilizzo di un passaporto di vaccinazione – ha precisato Edelstein – non implica l’obbligo vaccinale. “Non è previsto e non ci sarà neanche in futuro. Chi sceglie di non essere vaccinato ha il suo diritto a farlo. Dovrebbe essere chiaro che farsi vaccinare è un grande privilegio che ci è stato concesso, qualcosa che molti paesi nel mondo non hanno ancora raggiunto”.
Secondo una lettera inviata dall’ufficio del procuratore generale, i datori di lavoro non possono imporre ai propri dipendenti di vaccinarsi. Tuttavia, le autorità israeliane stanno lavorando per chiedere a coloro che operano a stretto contatto con il pubblico di vaccinarsi o di sottoporsi a un test ogni due giorni.
Alcune aree saranno aperte anche ai cittadini non vaccinati.“Se continueremo ad avere un tasso di immunizzazione alto e a osservare le linee guida, non avremo bisogno di un quarto lockdown e aumenteranno anche le aree aperte a tutti”, ha sottolineato Edelstein.
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L’ipotesi di un passaporto vaccinale è stata discussa durante una videoconferenza il 25 febbraio dai capi di Stato dei 27 paesi del blocco Ue. L’idea – riporta DW – è stata sollecitata in particolare da Grecia, Spagna, Austria secondo i quali l’adozione di un certificato di vaccinazione potrebbe agevolare gli spostamenti tra i paesi europei e aiutare quei settori in difficoltà come le arti, lo sport e il turismo. A inizio febbraio il governo danese e quello svedese avevano annunciato l’intenzione di adottare nel giro di tre o quattro mesi un passaporto digitale che permettesse ai cittadini di dimostrare di essere stati vaccinati.
Altri paesi, come Francia e Germania, si sono mostrati più reticenti perché un passaporto del genere potrebbe portare “all’obbligo di vaccinazione e rivelarsi discriminatorio” e i dati sulla contagiosità dei vaccinati e sull’impatto delle varianti sono ancora incompleti.
Il vice primo ministro greco Akis Skertsos ha respinto i timori di Francia e Germania. Un certificato digitale comune non sarebbe affatto discriminatorio, ha detto Skertsos alla BBC.
Grecia e Cipro faranno entrare quest’estate i turisti israeliani provvisti del “passaporto verde” e un accordo del genere potrebbe essere raggiunto con il Regno Unito, ha aggiunto il ministro del turismo greco Harry Theocharis, nonostante il governo britannico non abbia ancora approvato alcun certificato di vaccinazione né dato il via libera alle vacanze all’estero. La Grecia sarà aperta anche ai turisti non vaccinati, ha spiegato ancora Skertsos, a patto che abbiano fatto un test prima di partire e si isolino una volta arrivati.
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Nel frattempo, anche le compagnie aeree - come Etihad Airways ed Emirates – si stanno muovendo in questa direzione. Dover dimostrare di essere stati vaccinati per andare in determinati paesi, partecipare ad alcuni eventi o svolgere alcune attività non è una novità. Ad esempio, per potersi spostare in particolari regioni del mondo i viaggiatori devono provare di essersi vaccinati contro malattie come la febbre gialla, la malaria o il colera presentando un certificato internazionale di vaccinazione o profilassi. In questo caso, però, il passaporto che si intende adottare è digitale e la sfida globale è creare un documento o un’app accettata da tutti, che protegga la privacy e sia accessibile a ciascuno di noi indipendentemente dal paese in cui viviamo, dalle nostre condizioni economiche e sociali, scrive Tariro Mzezewa sul New York Times. In un mondo in cui più di un miliardo di persone non è in grado di dimostrare la propria identità perché non ci sono passaporti, certificati di nascita, patenti di guida o carte d'identità nazionali, i documenti digitali che provano lo stato di avvenuta vaccinazione potrebbero inasprire le disuguaglianze, considerato anche che la distribuzione dei vaccini sta avvenendo in maniera disuguale nel pianeta.
Digital Health Passports for COVID-19: Data Privacy and Human Rights Lawhttps://t.co/4UZ2P7uc2a pic.twitter.com/lqz1IxFAn2
— Fabio Chiusi (@fabiochiusi) February 24, 2021
I passaporti vaccinali saranno “fattibili” quando avremo maggiori certezze sulla durata dell’immunizzazione e se soddisferanno alcuni standard etici e legali, scrive la Royal Society in un rapporto. “E se diventasse uno strumento per impedire alle persone di accedere a beni e servizi essenziali? C'è il rischio di discriminare ingiustamente nel reclutamento lavorativo, nella partecipazione a eventi, nell’accesso alle assicurazioni, nella possibilità di avere un alloggio, gli esempi sono tanti”, spiega una delle autrice del rapporto, la professoressa Melinda Mills. Sarà cruciale essere chiari sugli utilizzi di questi certificati, che si tratti di viaggi internazionali o di maggiori libertà nazionali, sottolinea la Royal Society.
Gli studi sull’efficacia dei vaccini
Il ministro della Salute Edelstein ha spiegato che l’allentamento del lockdown è arrivato dopo aver consultato alcuni studi secondo i quali il vaccino sviluppato da Pfizer & BioNTech sarebbe in grado di ridurre del 95,8% il rischio di ammalarsi dopo la somministrazione di entrambe le dosi e di prevenire in egual misura ricoveri e decessi. Inoltre, il vaccino sarebbe efficace al 98% nella prevenzione di febbre o problemi respiratori.
A gennaio Israele ha stretto un accordo con la Pfizer in base al quale l'azienda farmaceutica si impegnava ad assicurare una fornitura tempestiva e costante di vaccini in cambio di dati (qui il testo dell'accordo reso pubblico dal Ministero della Salute israeliano). Lo "scambio" tra dati e vaccini aveva generato un dibattito molto acceso tra esperti di privacy dei dati, ricercatori biotecnologici e il comitato di etica medica del paese sul rapporto tra i potenziali benefici sanitari globali e i costi in termini di privacy personale di quello che la ricercatrice dell'Israel Democracy Institute, Tehilla Shwartz Altshuler, aveva definito "il più grande esperimento medico sugli esseri umani del 21° secolo". Le autorità israeliane hanno più volte detto che avrebbero fornito solo dati statistici anonimi, come il numero di ricoveri e contagi settimanali e ricoveri, mentre la Pfizer ha dichiarato in una comunicazione ufficiale che non avrebbe ricevuto alcuna informazione individuale identificabile e che il Ministero della Salute avrebbe condiviso solo dati epidemiologici aggregati. Tuttavia, una voce del contratto prevede che Israele possa rendere disponibili all'azienda farmaceutica non specificate "analisi dell'efficacia dei vaccini su particolari sottogruppi, come concordato dalle parti", facendo così pensare alla possibilità di utilizzare anche categorie di dati più personalizzati.
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Il 24 febbraio i ricercatori del Clalit Research Institute e dell’Università di Harvard hanno pubblicato sul New England Journal of Medicine i risultati di uno studio su quasi 1,2 milioni di persone in Israele, il più grande fatto finora per valutare l’impatto del vaccino al di fuori degli studi clinici randomizzati. I ricercatori hanno abbinato a ogni persona vaccinata una che non aveva ricevuto il vaccino, potendo così fare delle comparazioni particolarmente puntuali. A detta di diversi esperti di salute pubblicati, i dati sono molto promettenti e sembrano suggerire che le vaccinazioni potrebbero porre fine alla pandemia.
Due dosi del vaccino hanno prevenuto il 94% dei casi di COVID-19 in quasi 596.618 persone vaccinate tra il 20 dicembre 2020 e l’1 febbraio 2021, circa un quarto delle quali aveva più di 60 anni.
Nearly 600,000 people in a large Israeli health care organization were followed after vaccination for infection, hospitalization, and severe #COVID19. Estimated vaccine effectiveness in preventing death was 72% after the first dose, and hospitalization was reduced by 92%.
— NEJM (@NEJM) February 24, 2021
Dopo due dosi, il vaccino è risultato altrettanto efficace sulle persone dai 70 anni in su e sui giovani e ha protetto nell’89% dei casi dall’insorgenza dei sintomi della COVID-19 sette giorni dopo la somministrazione anche le persone con tre o più patologie, come l'ipertensione e il diabete.
Inoltre, sebbene lo studio non fosse stato progettato per studiare la trasmissione del virus, secondo i dati il vaccino è stato in grado di prevenire il 92% delle infezioni documentate, incluse quelle asintomatiche, tra le persone vaccinate. Un dato molto interessante considerato che nella fase finale dello studio, i quattro quinti delle infezioni rilevate erano della cosiddetta “variante inglese”.
I risultati del nuovo studio suggeriscono che “il vaccino offre almeno una certa protezione anche da quella variante”, ha commentato Zoe McLaren, professore associato presso la School of Public Policy dell'Università del Maryland, nella contea di Baltimora. “Sono tutte ottime notizie. Le implicazioni di questo studio sono chiare: alti livelli di vaccinazione nella popolazione ridurranno la trasmissione e manterranno bassi i casi”.
“Questo è il tipo di vaccino che ci fa sperare che l’immunità di gregge possa essere raggiunta”, ha aggiunto Raina MacIntyre, professoressa di biosicurezza presso l'Università del New South Wales di Sydney, non coinvolta nello studio. Con i livelli di efficacia rilevati in Israele, vaccinare circa il 60-70% della popolazione dovrebbe essere sufficiente per prevenire infezioni, malattie e decessi, “poter riprendere una vita normale e aprire la società", ha aggiunto la docente.
Tuttavia, commenta Eran Segal, biologo computazionale allo Weizmann Institute of Science, “gli aspetti da prendere in considerazione nel valutare l'impatto di un programma vaccinale sono tanti, non dipendono solo dall'efficacia del vaccino, ma anche da altri fattori, tra cui la copertura vaccinale nazionale, l'allocazione del vaccino in sottogruppi con diversi livelli di rischio e la mescolanza sociale tra gruppi che possono influenzare la trasmissione per effetti indiretti”.
Lo studio condotto dal Clalit Research Institute e dall’Università di Harvard è solo l'ultimo di una serie di analisi su Israele. Ai primi di febbraio erano stati diffusi i dati di tre studi diversi condotti dal Ministero della Salute, dal team di ricercatori del Weizmann Institute of Science, dell'Università di Tel Aviv e del Technion (Israel Institute of Technology), e dal Maccabi, il secondo più grande operatore sanitario israeliano.
Lo studio del Ministero della salute mostrava che su 750.000 ultrasessantenni vaccinati, solo 531 (lo 0,07%) erano risultati positivi al nuovo coronavirus, e appena 38 avevano dovuto ricoverarsi in ospedale sviluppando forme moderate, gravi o critiche (una percentuale molto piccola) della malattia. Tre sono stati i decessi anche se non è stato possibile appurare se avessero contratto l’infezione prima che il vaccino cominciasse a fare effetto. I dati dello studio mostrano, infatti, che infezioni e malattie iniziano a diminuire 14 giorni dopo la prima dose e 7 giorni dopo il richiamo.
Questo studio, però, non prevedeva un gruppo di controllo di persone non vaccinate, come avviene nelle sperimentazioni cliniche, e pertanto non ha dato indicazioni sull’effettiva efficacia dei vaccini, come invece ha fatto il Maccabi.
Secondo i dati del secondo più grande operatore sanitario del paese – che ha comparato il tasso di infezione di due gruppi, con profili demografici simili, uno con 248.000 vaccinati e un altro con 900.000 persone non vaccinate – il vaccino è risultato efficace al 92%, un dato molto vicino al 95% riscontrato da Pfizer negli studi clinici controllati valutati dalle agenzie del farmaco che ne hanno autorizzato l’uso d’emergenza.
I dati dello studio del Maccabi mostrano che 66 persone su 248.000 hanno contratto il virus (lo 0,03%) più di una settimana dopo aver ricevuto la seconda dose, tutte con sintomi lievi tali da non richiedere il ricovero in ospedale. Nel gruppo di non vaccinati, le infezioni sono state 8.250, oltre 30 volte di più.
I prof. Malka Gorfine, Hagai Rossman, Eran Segal e il dottor Uri Shalit del Wiezmann Institute of Science, dell'Università di Tel Aviv e del Technion hanno tentato di stabilire, invece, se la diminuzione dei contagi osservata in Israele fosse più effetto del lockdown o dei vaccini. Lo studio ha riscontrato che le infezioni hanno avuto calo maggiore sia tra i gruppi vaccinati per primi (gli ultracinquantenni) sia nelle città che hanno vaccinato la maggior parte della popolazione prima, e che questo decremento non era stato registrato durante i lockdown passati. Per quanto i dati siano ancora precoci, i ricercatori ritengono che si tratti di segnali incoraggianti se proiettati al futuro con l’aumento delle vaccinazioni.
L’obiettivo del governo è ora vaccinare il 95% degli israeliani oltre i 50 anni entro le prossime due settimane.
E in Palestina?
Intanto, all’inizio di questa settimana, la Striscia di Gaza ha ricevuto le prime dosi di vaccino dopo che Israele ha approvato il trasferimento attraverso il suo confine, finora bloccato per le restrizioni imposte per la presenza di Hamas nell’area.
Sono state inviate 2.000 dosi del vaccino russo “Sputnik V” che verrà somministrato a pazienti con insufficienza renale o che hanno subito un trapianto di organi, ha detto un funzionario alla Reuters, ma in attesa di essere vaccinati ci sono 5 milioni di palestinesi. Secondo gli ultimi dati forniti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ci sono stati più di 200.000 casi confermati di positività al nuovo coronavirus e oltre 2.200 morti tra i palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza dall’inizio della pandemia. Il tasso di letalità in queste aree è dell'1,1%, superiore dello 0,4% rispetto a Israele.
Nel frattempo, il ministro della Salute palestinese ha raggiunto un accordo con il suo omologo israeliano per vaccinare 100.000 palestinesi che lavorano in Israele, mentre tutti i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est hanno il diritto di essere vaccinati da Israele perché hanno la residenza fisica e fiscale e l’assicurazione sanitaria israeliana. Il Ministero della Salute palestinese – che opera in Cisgiordania – ha anche dichiarato alcune settimane fa di avere raggiunto accordi con quattro società che forniranno vaccini sufficienti a coprire il 70% della popolazione, e di aspettarsi di vaccinare circa il 20% dei palestinesi con dosi fornite nell'ambito del programma internazionale COVAX.
COVAX ha a sua volta affermato di poter inviare in Cisgiordania e a Gaza 240.000 dosi del vaccino AstraZeneca e 37.440 dosi di quello sviluppato da Pfizer e BioNTech.
Sulla questione, a gennaio, era intervenuto l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite che in una dichiarazione ufficiale ha affermato che è responsabilità di Israele fornire un accesso equo ai vaccini anti-COVID per gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania e ha definito “moralmente e legalmente” inaccettabile ogni discriminazione di questo tipo ai sensi del diritto internazionale stabilito nelle Convenzioni di Ginevra sulla regolamentazione dei territori occupati.
Posizioni contestate dal ministro della Salute israeliano Edelstein che alla BBC aveva detto che secondo gli accordi di Oslo, concordati nel 1993 e nel 1995, “si dice forte e chiaro che i palestinesi devono prendersi cura della propria salute”, secondo i principi dell'autodeterminazione. Ma, secondo le autorità palestinesi, un’altra parte di quegli accordi sottolinea che “Israele e la parte palestinese si scambieranno informazioni riguardanti epidemie e malattie contagiose, coopereranno nel contrastarle e svilupperanno metodi per lo scambio di cartelle e documenti medici”.
Gli esperti delle Nazioni Unite affermano che il diritto internazionale ha la priorità su questi accordi: nonostante la posizione di Israele sulla questione, la Quarta Convenzione di Ginevra è specifica sul suo dovere di fornire assistenza sanitaria.
Immagine anteprima: frame video via DW