Israele e l’annessione illegale della Cisgiordania: “È la fine di qualsiasi soluzione di pace”
17 min letturaAggiornamento 16 luglio 2020: Abbiamo aggiornato l'articolo con la lettera dei ministri degli Esteri di 11 paesi europei.
Cosa vuole dire parlare di annessione?
L’annessione del primo luglio e la storia del conflitto israelo-palestinese
Tre scenari possibili: cosa potrebbe cambiare con l’annessione
Il fallimento del processo di pace
“La mattina dopo l'annessione sarà la cristallizzazione di una realtà già ingiusta: due popoli che vivono nello stesso spazio, governati dallo stesso Stato, ma con diritti profondamente diseguali. È questo l’apartheid del XXI secolo” (UNHCR). Si sono svolte in tutto il mondo in queste settimane manifestazioni contro l’annessione da parte di Israele di circa un terzo dei territori occupati della Cisgiordania e, in particolare, della fertile Valle del Giordano. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato che il primo luglio avrebbe dato il via al piano di acquisizione nonostante la crescente opposizione internazionale e la richiesta di sanzioni in caso di attuazione.
La data, però, è più un punto di partenza che una scadenza e non è ancora chiaro quanta porzione di territorio Netanyahu deciderà di annettere. Al momento non è stata presa alcuna decisione, in attesa probabilmente di trovare un accordo con gli Stati Uniti. Il 29 giugno, il ministro della Difesa israeliano, Binyamin Gantz, ha infatti riferito a un inviato della Casa Bianca, Avi Berkowitz, in Israele per colloqui sulla questione, che una scadenza del primo luglio non è "sacra" né urgente nel mezzo della crisi del nuovo coronavirus. Durante la riunione di gabinetto del 28 giugno, Gantz avrebbe sostenuto un approccio concordato con i partner di Israele nella regione e con i palestinesi, "per arrivare a uno schema che avvantaggia tutte le parti in modo responsabile, proporzionato e reciproco". Sul campo ci sono almeno tre scenari: Israele potrebbe annettere un terzo della Cisgiordania, poco o nulla, od optare per una via di mezzo. Ma quel che conta non è tanto cosa farà effettivamente il presidente israeliano ma che possa solo pensare di farlo.
Improponibile politicamente solo fino ad alcuni mesi fa, questo piano ha visto la strada spianata prima dal cosiddetto “piano di pace” americano proposto dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, lo scorso gennaio (che prevedeva tra i punti principali proprio l'acquisizione della Valle del Giordano e di parte della Cisgiordania), e poi dall’accordo che ha consentito la nascita del nuovo governo di unità nazionale guidato da Netanyahu e che ha fissato proprio nel primo luglio la data di avvio del processo di annessione.
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Già ad aprile 2019, Netanyahu aveva dichiarato di voler annettere insediamenti ebraici in Cisgiordania. Poi a settembre, il leader israeliano aveva aggiunto che avrebbe anche annesso la valle del Giordano. L'annessione sarebbe "un altro capitolo glorioso nella storia del sionismo", ha detto quando ha giurato come primo ministro il mese scorso.
Contro il piano si è espressa buona parte delle istituzioni e dei governi internazionali. Si teme che una mossa del genere possa rendere irreversibile il processo di pace tra Israele e palestinesi, avere effetti destabilizzanti sui paesi immediatamente vicini, come la Giordania, e sugli equilibri geopolitici su scala mondiale. Anche gli Stati Uniti sembrano divisi sulla questione, tra chi spinge per il programma di annessione spinta di Netanyahu e chi – come il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo – è invece preoccupato per le conseguenze nell’area medio-orientale, alla luce anche dell’inchiesta aperta contro Israele per crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dal procuratore del Tribunale penale internazionale, Fatou Bensouda, sulla quale il Tribunale sta per prendere una decisione.
Il primo ministro palestinese, Mohammad ShtayyehIl, ha annunciato che dichiarerà lo Stato di Palestina sulla Cisgiordania nel momento in cui inizierà il piano di annessione mentre il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha detto di essere pronto a porre fine a ogni forma di cooperazione con lo Stato israeliano, sia in termini di sicurezza, lasciando così spazio alle frange palestinesi più radicali, sia in termini economici, rinunciando alle entrate fiscali provenienti da Israele (che costituiscono il 60% del bilancio dei palestinesi, in un momento in cui gli aiuti e le donazioni sono in calo), anche a costo di far collassare l’Autorità Palestinese. Azioni che prefigurano la fine di qualsiasi soluzione di pace per uno scenario che Abbas stesso ha definito da “Giudizio di Dio”. Il 26 giugno, due missili sono stati lanciati da Gaza verso Israele dopo che il gruppo palestinese Hamas aveva avvertito che l'annessione equivaleva a una "dichiarazione di guerra". In risposta, l'esercito israeliano ha riferito di aver colpito due strutture militari nella Striscia meridionale di Gaza.
L'inviato delle Nazioni Unite in Medio Oriente ha avvertito che è forte il rischio di nuovi conflitti e una maggiore instabilità in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza anche se è probabile che gli Stati Uniti blocchino ogni tentativo di approvare una risoluzione di condanna nei confronti di Israele da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’annessione viola il diritto internazionale "proprio perché incita guerre, devastazione economica, instabilità politica, violazioni sistematiche dei diritti umani e diffusa sofferenza umana”, hanno dichiarato in una lettera oltre 50 esperti delle Nazioni Unite.
«L'annessione è illegale. Punto. Sono profondamente preoccupata che anche la forma minima di annessione possa portare a un aumento della violenza e alla perdita di vite umane, all’innalzamento di muri, al dispiegamento di forze di sicurezza con le due popolazioni a stretto contatto», ha dichiarato l’Alto commissario ONU per i diritti umani, Michelle Bachelet.
Il capo del Mossad si è recato in visita ad Amman per discutere il piano con il re Abdullah dopo che la Giordania – uno dei due soli paesi arabi ad aver firmato trattati di pace con Israele – ha affermato che si troverebbe costretto a rivedere le sue relazioni con il paese guidato da Netanyahu se dovesse proseguire il piano di annessione. Secondo alcuni analisti israeliani, re Abdullah potrebbe chiudere l'ambasciata della Giordania in Israele, rivedere l’accordo per importare gas naturale da Israele o, addirittura, ridurre la cooperazione in materia di sicurezza che include la condivisione di informazioni e consente ai jet israeliani che attaccano obiettivi iraniani in Siria di sorvolare lo spazio aereo giordano.
Anche i paesi arabi – in particolare quelli del Golfo che hanno relazioni non ufficiali con Israele – potrebbero esprimere la loro solidarietà ufficiale ai palestinesi, riporta BBC. Il 12 giugno, in un commento sulla prima pagina del quotidiano israeliano Yediot Aharonot, l'ambasciatore degli Emirati a Washington, Yousef Al Otaiba, ha detto a Netanyahu e ad altri funzionari che sono chiamati a scegliere tra annessione e "miglioramento dei legami di sicurezza, economici e culturali con il mondo arabo". In altre parole, non possono avere entrambi.
Sebbene alcuni Stati membri abbiano chiesto un’azione più dura, comprese eventuali sanzioni, l'Unione europea ha affermato che ricorrerà a iniziative di carattere diplomatico per "scoraggiare" Israele dall'attuazione dei suoi piani.
Regno Unito, Germania e Francia sono stati tra i sette membri europei del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a rilasciare una dichiarazione congiunta in cui hanno affermato che il piano di annessione è "una chiara violazione del diritto internazionale" che metterebbe a repentaglio la possibilità di un futuro Stato palestinese e minaccerebbe la sicurezza nella regione. "L'annessione avrebbe conseguenze sulla nostra stretta relazione con Israele e non avrebbe alcun nostro riconoscimento", si legge nel testo. Oltre mille parlamentari europei hanno firmato una lettera in cui invitano i leader europei ad “agire con decisione” e in cui si afferma che "l'acquisizione del territorio con la forza... deve avere conseguenze proporzionate".
A metà luglio, i ministri degli Esteri di 11 paesi europei hanno inviato una lettera all'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea, Josep Borrell, per chiedergli di individuare il prima possibile delle azioni che scoraggino l’annessione di parte della Cisgiordania da parte di Israele e di indicare potenziali “conseguenze legali”.
"La possibile annessione da parte di Israele di parti del territorio palestinese occupato rimane fonte di grave preoccupazione per l'Ue e i suoi Stati membri", afferma la lettera, firmata dai ministri degli Esteri di Belgio, Irlanda, Italia, Francia, Malta, Portogallo, Svezia, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi e Finlandia.
Nella lettera, inviata a Borrell venerdì, i ministri hanno ribadito quanto già richiesto durante una riunione informale dello scorso maggio. Alcuni paesi dell'Ue avevano chiesto misure sanzionatorie, incluse quelle economiche, nonché il possibile riconoscimento di uno Stato palestinese. “Comprendiamo che si tratta di una questione delicata, ma il tempo a disposizione è poco. Siamo preoccupati che la finestra per scoraggiare l'annessione si stia rapidamente chiudendo", scrivono i ministri degli Esteri degli 11 paesi. A febbraio, Borrell aveva affermato che l'annessione israeliana, "se attuata, non avrebbe potuto passare incontrastata", ma aveva ammesso che l'Ue non può muoversi facilmente senza un pieno accordo di tutti i paesi membri. E Israele fa affidamento sul sostegno degli alleati dell'Europa centrale e orientale per bloccare ogni iniziativa dell’Ue.
La sollecitudine di Netanyahu sembra essere strettamente legata alle imminenti elezioni presidenziali statunitensi, previste a novembre 2020, come rivelato da un un documento del ministero dell’Intelligence israeliano rilanciato dall’agenzia di stampa dpa. Secondo il documento, il momento di agire è ora perché il livello di minaccia di azioni di Hamas o di “disordini gravi” in Giordania è basso, l’attenzione della comunità internazionale è rivolta tutta verso la lotta contro il nuovo coronavirus e “non si sa cosa possa accadere con le elezioni negli USA a novembre”: un’eventuale vittoria del candidato dei Democratici, Joe Biden, potrebbe ribaltare gli equilibri geopolitici attuali e rendere impossibile il piano che ha in mente il primo ministro israeliano.
Intanto, in un sondaggio di Channel 12 di alcune settimane fa che chiedeva agli israeliani di indicare quale avrebbe dovuto essere la priorità più importante del nuovo governo, solo il 5% degli intervistati aveva selezionato l'annessione, ben al di sotto della pandemia di COVID-19 e della situazione economica del paese. Secondo un altro sondaggio dell’Israel Democracy Institute, il 50% degli intervistati israeliani (e il 57% degli ebrei israeliani) si è detto favorevole in termini generali all'annessione, anche se il 60% di loro ha risposto che quest’azione potrebbe innescare una rivolta palestinese su larga scala.
Cosa vuole dire parlare di annessione?
L’utilizzo del termine “annessione” è di fondamentale importanza per comprendere la gravità dell’azione in atto.
Si parla di annessione quando uno Stato proclama unilateralmente la propria sovranità su un territorio al di fuori dei suoi confini. Spesso avviene dopo una occupazione militare al di là se le persone che vivono nel territorio occupato lo vogliano o meno. Un’azione del genere è espressamente vietata dal diritto internazionale. Un esempio recente è stata l'annessione da parte della Russia della Crimea in Ucraina nel 2014. In precedenza, l’Indonesia ha annesso Timor Est nel 1975, l’Iraq per breve tempo il Kuwait nel 1990, Israele ha già annesso nel 1980 la maggior parte di Gerusalemme Est, abitata dai palestinesi e un anno dopo le alture del Golan, sottratte alla Siria.
Netanyahu ha affermato che il suo non sarebbe un vero e proprio piano di annessione, nonostante preveda la sovranità di Israele su parti della Cisgiordania in cui ci sono insediamenti ebraici e sulla Valle del Giordano. Se applicato, il piano potrebbe portare circa il 4,5% dei palestinesi in Cisgiordania sotto la giurisdizione di Israele, secondo una mappatura del Washington Institute. Netanyahu ha detto che questo non avverrà, che «nessun palestinese nelle aree annesse diventerà cittadino israeliano», e ha parlato di “enclavi” che faranno capo all’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen.
Le aree che saranno annesse sono ancora da definire. Inizialmente Israele potrebbe acquisire il 3% della Cisgiordania e attendere di concordare i confini del restante 27% con gli Stati Uniti. In ogni caso, il piano finirebbe con il frammentare le aree dove sono presenti i palestinesi, ridurre le terre a loro disposizione e pregiudicare la realizzazione di uno Stato indipendente che comprenda l’intera Cisgiordania – sulla quale i palestinesi rivendicano un diritto storico – insieme alla Striscia di Gaza.
La stragrande maggioranza della comunità internazionale considera gli insediamenti illegali ai sensi del diritto internazionale, mentre Israele e gli Stati Uniti sotto l'amministrazione Trump contestano questa interpretazione. Per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Corte di Giustizia Internazionale sono “territori occupati”, Israele li definisce, invece, “contestati”, ritiene la Cisgiordania la terra ancestrale del popolo ebraico e giustifica la sua presenza in quei territori perché strategicamente vitale per la sua autodifesa.
L’annessione del primo luglio e la storia del conflitto israelo-palestinese
Il piano di annessione annunciato da Netanyahu è solo l’ultimo atto della questione della delimitazione dei confini tra Israele e Palestina e del riconoscimento di uno Stato palestinese che si trascina dal 1949.
La Cisgiordania è un pezzo di terra situato sulla riva occidentale del fiume Giordano e delimitato a est dalla Giordania e a nord, ovest e sud da Israele. L’area è stata occupata da Israele dopo la cosiddetta Guerra dei 6 giorni nel 1967 ed è stata suddivisa in tre zone dopo gli accordi di Oslo del 1995 che avrebbero dovuto portare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese: in caso di nascita di due Stati distinti e separati, alcuni dei coloni israeliani avrebbero dovuto lasciare la Cisgiordania, mentre alcuni insediamenti di confine sarebbero diventati terra israeliana. In cambio, Israele avrebbe consegnato parte del suo territorio alla Palestina.
Gran parte dei palestinesi (quasi 3 milioni) si trova nelle due parti più piccole della Cisgiordania, l’area A (pari al 18% di tutto il territorio) e l’area B (pari al 22%). L’area C, la zona più dotata di risorse naturali, inclusa la maggior parte dei terreni agricoli e dei pascoli palestinesi, è abitata da quasi 386mila ebrei e circa 300mila palestinesi e corrisponde a circa il 63% della Cisgiordania. La popolazione ebraica è amministrata dalla giurisdizione della Giudea e della Samaria (il nome utilizzato dagli ebrei per definire quella parte dell’area), la popolazione palestinese direttamente dal Coordinatore dell’Attività di governo (una delle unità del Ministero della Difesa israeliano) e indirettamente dall’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah. Parte dell’area sarebbe dovuta finire sotto il controllo dei palestinesi entro il 1999: dopo la nascita di un parlamento palestinese eletto, l’Amministrazione civile israeliana avrebbe dovuto ritirarsi e il Consiglio (eletto poi nel gennaio 2016) avrebbe dovuto ottenere alcuni poteri. Invece, il numero dei coloni israeliani è cresciuto nel tempo: nel 1972 erano 1000, 110mila nel 1993, 400mila secondo le ultime stime.
Tra il 1896 e il 1948, centinaia di migliaia di ebrei si trasferirono dall'Europa in quello che allora era un territorio, abitato da arabi, sotto il controllo del Regno Unito. I due popoli combatterono duramente.
Nel 1947 le Nazioni Unite votarono per suddividere la terra in due paesi: quasi tutti i circa 650mila ebrei andarono nel territorio contrassegnato in blu nella mappa sottostante, la popolazione araba, quasi il doppio di quella ebraica, andò nell’area in verde.
L’accordo fu accettato dagli ebrei e respinto dai palestinesi, che vedevano nel piano un tentativo di acquisizione di quella che percepivano essere la loro terra. Egitto, Giordania, Iraq e Siria dichiararono guerra a Israele. Le forze israeliane sconfissero le milizie palestinesi e gli eserciti arabi conquistando un terzo dei territori assegnati ai palestinesi dall’Onu. Per i palestinesi fu la Nakba, la catastrofe. Alla fine del conflitto, dopo l’Armistizio del 1949, Israele possedeva il 77% della ex Palestina britannica (tutta tranne la Cisgiordania, Gerusalemme est, controllata dalla Giordania, e la Striscia di Gaza, controllata dall’Egitto. I nuovi confini, così stabiliti, presero il nome di “Green Line”, la linea verde, chiamata così per il colore dell’inchiostro usato per tracciare la demarcazione sulla mappa. La linea, corrispondente al fronte militare del 1948, divideva centri e villaggi, finendo con il separare i contadini con quelli che erano i loro terreni.
È a questa linea di demarcazione che i palestinesi hanno fatto riferimento quando pensavano a una delimitazione della Cisgiordania e a un futuro Stato palestinese. Negli anni successivi all’armistizio, Israele ha, infatti, provato più volte, riuscendoci, a espandere i propri confini, andando oltre i limiti tracciati su mappa.
Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Israele diventa a tutti gli effetti una forza occupante. Alla fine dei combattimenti gli israeliani occuparono tutta l’attuale Cisgiordania, Gerusalemme est, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai (poi restituita all’Egitto nel 1979). Sono i cosiddetti territori occupati, situati tutti oltre la “linea verde”, divenuta da quel momento in avanti militarmente irrilevante e dallo status incerto.
Queste nuove conquiste non sono mai state riconosciute dalle Nazioni Unite, che – ricostruisce Giovanni Fontana su Il Post – nelle risoluzioni 242 e 338 avevano chiesto a Israele di ritirarsi nei territori precedenti al conflitto del 1967. Per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Corte di Giustizia Internazionale, sono “territori occupati”, Israele li definisce “contestati”. Al contrario di quanto chiesto dall’Onu, dal 1967 in poi, lo Stato israeliano ha cominciato a costruire sempre più insediamenti sui territori che ha occupato al di fuori della legalità internazionale, come stabilito dalla Quarta convenzione di Ginevra (secondo Israele non applicabile nel suo caso), secondo la quale una potenza occupante non può trasferire i propri civili su un territorio occupato. È proprio sulla legittimità dell’occupazione di questi territori, sulla ridefinizione dei confini, costantemente in bilico, e sulle terre da “scambiare” che non c’è accordo tra israeliani e palestinesi.
La ridefinizione dei confini e l’espansione dei propri insediamenti è avvenuta in due modi. A partire dalla primavera del 2002, Israele ha pianificato la costruzione di una barriera di separazione (fatta di muri e reticolati con porte elettroniche) per evitare le incursioni di terroristi palestinesi. La barriera, lunga 730 km e ridisegnata più volte in seguito a pressioni internazionali (rinegoziata fra il 2004 e il 2005 su richiesta dei palestinesi, dell’Europa e della Corte di giustizia suprema israeliana), ricalca la “linea verde”, penetrando però qua e là all’interno della Cisgiordania e inglobando al suo interno la maggior parte delle colonie israeliane nei territori occupati e la quasi totalità dei pozzi d’acqua.
Contestualmente, Israele, che controlla strettamente gli insediamenti palestinesi, le concessioni edilizie e lo sviluppo dell’area C, continua a concedere permessi di edificazione agli israeliani e a respingere le domande presentate dai palestinesi. Secondo un importante documento della Banca Mondiale, in 12 anni, dal 2000 al 2012, sono stati concessi solo 211 permessi ai palestinesi su 3750 richieste presentate. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il sistema di pianificazione dell’area C rende virtualmente impossibile per i palestinesi ottenere permessi. Tra il 1998 e il 2014 Israele ha emesso 14087 ordini di demolizione di strutture palestinesi costruite senza permesso, di cui solo il 20% è stato eseguito. Gli ordini non eseguiti restano attivi, lasciando gli abitanti in una condizione di costante incertezza. Inoltre, sempre secondo il documento della Banca Mondiale il 75% degli insediamenti israeliani è stato costruito senza gli adeguati permessi dell’Amministrazione civile.
Tre scenari possibili: cosa potrebbe cambiare con l’annessione
Secondo il Washington Institute, sono tre gli scenari che possono prospettarsi:
- Piena annessione
In questo scenario, Israele annetterebbe tutti i 130 insediamenti in Cisgiordania (tra cui quindici che finirebbero sotto il controllo israeliano pur trovandosi nel futuro Stato palestinese), come previsto dal piano Trump, per un territorio pari al 29% della Cisgiordania. Se Israele incorporasse formalmente e permanentemente tutta questa area, includendo anche le 78 comunità e gli oltre 109.000 palestinesi, renderebbe notevolmente difficile ogni sforzo per raggiungere una vera separazione tra i due popoli e arrivare a una soluzione a due Stati.
Inoltre, l’annessione della valle del Giordano potrebbe avere implicazioni nei rapporti con la Giordania, preoccupata dall’instabilità che potrebbe crearsi in Cisgiordania e che potrebbe portare a una migrazione di massa verso Amman.
- Annessione degli insediamenti israeliani
Secondo questo scenario, verrebbero annessi i grandi blocchi densamente popolati da insediamenti israeliani situati nei pressi della barriera di separazione. In questo caso finirebbero sotto la sovranità israeliana i 52 insediamenti nei quali risiedono 358.405 coloni (il 77% del totale), per un territorio pari a circa il 7% della Cisgiordania. Con l’annessione 18.918 palestinesi (lo 0,8% dei palestinesi in Cisgiordania) presenti in 24 comunità rischierebbero di venire spazzati via.
Questo tipo di mossa potrebbe aprire la strada a ulteriori annessioni e potrebbe rendere ancora più difficile fare concessioni per nuovi insediamenti ai palestinesi.
- Annessione minima
In questo caso, verrebbero annessi uno o due grandi insediamenti. Si parla di Gush Etzion (a sud di Gerusalemme) e Ma’ale Adumim (a est di Gerusalemme) più altri insediamenti nei pressi alla “linea verde” del 1967.
È questa l’ipotesi portata avanti dal ministro della Difesa israeliano Benny Gantz (che dovrebbe diventare primo ministro nel governo di unità nazionale nella seconda metà del mandato) e dal ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi. Inoltre, riporta il Washington Institute, secondo alcuni documenti trapelati, anche negoziatori palestinesi avrebbero incluso Gush Etzion all’interno del territorio israeliano durante i colloqui del 2008.
Gli Stati Uniti sembrano propendere per quest’ultima ipotesi anche se all’interno dell’amministrazione Trump si sono fatte strada altre scuole di pensiero tra chi spinge per l’annessione più ampia, come l’ambasciatore americano David Friedman, e chi invece sottolinea i potenziali aspetti negativi innescati dal piano di Netanyahu, come il Segretario di Stato Mike Pompeo. Proprio la complessità geopolitica della situazione sembra favorire lo scenario minimo, anche se, al momento, la principale preoccupazione degli USA è tenere su una posizione comune Netanyahu, Gantz e Ashkenazi. Sostenendo le posizioni del ministro degli Esteri e di quello della Difesa israeliani, l’amministrazione Trump ha inoltre controbilanciato gli equilibri all’interno della coalizione del governo che vede la destra a sostegno di Netanyahu e favorevole all’annessione del 29% della Cisgiordania preponderante.
In caso di annessione completa, scrive BBC, da un punto di vista legislativo, probabilmente, aumenteranno ancora di più le disparità tra israeliani e palestinesi nella costruzione di nuovi insediamenti. Inoltre, aggiungono David M. Halbfinger e Adam Rasgon sul New York Times, relegare i palestinesi in “enclavi” che faranno capo all’Autorità Nazionale, come prospettato da Netanyahu, lascerà i palestinesi indefinitamente in uno stato di seconda classe.
A questo proposito lo scrittore israeliano di origini sudafricane, Benjamin Pogrund, vecchio alleato di Mandela, ha parlato espressamente di apartheid. «[Finora] è stata un'occupazione militare. Ora metteremo le altre persone sotto il nostro controllo e non daremo loro la cittadinanza. Questo è l'apartheid. Questo è esattamente ciò che era l'apartheid [in Sudafrica]», ha detto Pogrund in un'intervista su Times of Israel la scorsa settimana. In passato, lo scrittore era stato contrario all’utilizzo del termine “apartheid” per descrivere il trattamento israeliano nei confronti dei palestinesi in Cisgiordania.
Anche se, spiega a Il Manifesto Ahmed Ghawanmeh – da qualche anno a capo del consiglio amministrativo locale di Jiftlik, una delle più importanti comunità palestinesi nella Valle del Giordano – di apartheid bisognerebbe parlare già per la condizione attuale dei palestinesi in Cisgiordania. «Tutti parlano di al dammu (“annessione” in arabo) imminente ma qui siamo annessi (a Israele) già da anni, viviamo già in un sistema di apartheid e nessuno lo ha visto», racconta Ghawanmeh. «Se sei un colono (israeliano) hai tutto, l’acqua, l’elettricità, le strade asfaltate. Se sei un palestinese devi lottare ogni giorno per spostarti, lavorare e per conservare quel poco che hai».
Secondo l’avvocato Michael Sfard (avvocato e attivista politico specializzato in diritto internazionale dei diritti umani e delle leggi di guerra), è alto il rischio che l’annessione porti “a massicci espropri, automatici in alcuni casi, di terre e proprietà palestinesi, alla successiva espulsione di individui, famiglie e intere comunità dai territori annessi”. Mentre la situazione nella Striscia di Gaza, che ospita due milioni di palestinesi, potrebbe rimanere invariata.
Le speranze per un nuovo accordo di pace sembrano ormai svanite e anche la credibilità della loro leadership è fortemente indebolita. Oltre metà dei palestinesi, riporta The Economist, sarebbe pronta a imbracciare la lotta armata in caso di annessione, e quasi la metà auspicherebbe la dissoluzione dell’Autorità Palestinese costringendo Israele ad assumersi la responsabilità dei territori occupati.
Il fallimento del processo di pace
La sola possibilità di poter parlare di annessione è la dimostrazione compiuta del fallimento del processo di pace avviato dagli accordi di Oslo del 1993, scrive The Economist in lungo editoriale.
Gli accordi di Oslo avrebbero dovuto portare alla nascita dello Stato palestinese dopo un breve periodo di transizione. Sono passati 30 anni e il mondo sta lottando non per ratificare una volta per tutte la soluzione a due Stati, ma per preservare lo status-quo sancito da quell’accordo che avrebbe dovuto concludersi nel 1999.
Israele aveva già annesso in passato Gerusalemme Est e le alture del Golan, ma questa volta è diverso, spiega The Economist. Lo status della Cisgiordania è dirimente per un accordo di pace finale tra Israele e i palestinesi e la sola ipotesi di una sua annessione sancisce che la “realtà a uno Stato” è in atto da molto tempo e che la storia dei due Stati non era altro che fantasia, “una foglia di fico per un processo di espansione avviatosi nel 1967 [ndr, con la “Guerra dei Sei Giorni”] e che ha visto un’accelerazione negli ultimi due decenni”, aggiunge Ian Black, giornalista esperto di Medio Oriente per il Guardian.
La comunità internazionale impegnata contro COVID-19, il “piano di pace” proposto dall’amministrazione Trump, le divisioni in seno all’Unione europea tra Ungheria, Polonia e Austria più vicine alle posizioni di Netanyahu rispetto ai governi di Francia, Gran Bretagna e Germania che sostengono ancora il processo di pace post-Oslo pur sapendo che è ormai moribondo, hanno creato un vulnus nel quale si è infilato il primo ministro israeliano, spiega Simon Tisdall sul Guardian.
“L'annessione unilaterale – conclude Black – condurrà israeliani e palestinesi e il loro conflitto profondamente asimmetrico in un territorio inesplorato. Ma se la storia insegna qualcosa, è improbabile che il futuro sia privo di violenza. Che l’annessione venga ritardata o evitata, la situazione non migliorerà. Nessun lieto fine è in vista”.
Immagine in anteprima via nbcnews