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Dal rapper Salehi al regista Rasoulof: perché in Iran si colpisce sempre più duramente il dissenso

13 Maggio 2024 9 min lettura

Dal rapper Salehi al regista Rasoulof: perché in Iran si colpisce sempre più duramente il dissenso

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Rapper, cineasti, giornalisti. Ma anche attivisti per i diritti umani, esponenti sindacali, studenti e docenti universitari, cittadini di etnia curda e baluci, donne di ogni età ed estrazione che combattono contro l’obbligo del velo ma soprattutto per porre fine alle discriminazioni di genere nella società come nei codici civile e penale. È lungo l’elenco delle voci del dissenso che i vertici della Repubblica Islamica considerano come minacce al proprio sistema, da zittire con la repressione e con procedimenti giudiziari in cui – denunciano avvocati e organizzazioni per i diritti umani – non viene pienamente rispettato il diritto alla difesa e spesso vengono compiuti abusi e torture. 

Potrebbe essere un tragico basso continuo di arresti e sentenze contro persone sconosciute, di cui all’estero si verrebbe a sapere quasi soltanto come fossero numeri - come nel caso di quelle 853 esecuzioni contate da Amnesty International nel 2023, in aumento del 48% rispetto al 2022 e del 172% rispetto al 2021. Ma gli ultraconservatori che comandano a Teheran, di cui sono piene la magistratura e quelle Corti rivoluzionarie specializzate nel colpire gli oppositori, non esitano a prendere di mira perfino le figure più simboliche e popolari anche all’estero, o che possono in breve tempo diventarlo grazie alla potenza mediatica delle lobby anti-iraniane e dell’opposizione della diaspora. 

Gli ultimi casi sono la condanna a morte del rapper Toomaj Salehi, una delle voci più amate dai giovani attivisti del movimento Donna Vita Libertà, e quella a otto anni di carcere del regista Mohammad Rasolouf, che in questi giorni avrebbe dovuto essere a Cannes per accompagnare l’anteprima mondiale del suo ultimo film, The Seed of the Sacred Fig. Evidentemente, l’Iran è talmente determinato nel perseguire le sue politiche repressive da non temere alcun effetto boomerang dalla condanna internazionale. 

La Repubblica Islamica non cerca più, come faceva solo pochi anni fa, di tessere con l’Occidente un dialogo che aveva fini primariamente economici, ma doveva anche passare da un drastico ridimensionamento del suo programma nucleare. Nei negoziati di allora le troppe questioni aperte sul piano dei diritti umani erano state certo accantonate anche da parte occidentale, ma erano inserite fra i capitoli da affrontare in una fase successiva, nel nuovo clima di fiducia reciproca che l’accordo sul nucleare del 2015 avrebbe dovuto aprire. 

È ora accademico chiedersi se ciò sarebbe davvero avvenuto: a stroncare quell’accordo sono stati subito dopo gli USA, innescando una spirale di azioni e contro-reazioni che ha favorito l’attuale arroccamento della Repubblica Islamica su tutti i fronti.  E se nei casi del rapper Salehi e del regista Rasoulof si manifesta l’intrinseca natura liberticida della Repubblica Islamica, di molte sue leggi e dei suoi apparati repressivi, sarebbe sbagliato considerarli avulsi dal contesto geopolitico di questi anni e ora precipitato nei drammatici contesti bellici del presente.  

Il rapper che rischia il patibolo e la campagna internazionale per salvarlo  

Toomaj Salehi ha 34 anni e molto coraggio: ha dato voce alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, nel settembre 2022, ma anche alla rabbia diffusa contro il potere, il malgoverno, la corruzione, la repressione e le ineguaglianze economiche e sociali nella Repubblica Islamica. 

Appartenente alla minoranza bakhtiari, era stato arrestato a fine ottobre 2022 e aveva trascorso circa otto mesi in isolamento. Nel luglio 2023 è stato condannato a oltre sei anni di carcere per “corruzione sulla terra”, oltre al divieto di svolgere attività musicali e di lasciare il Paese per due anni. Il 18 novembre era stato rilasciato su cauzione dopo che la Corte suprema aveva riscontrato dei difetti nella sentenza, incaricando del riesame un tribunale di grado inferiore. Ma è stato nuovamente arrestato alcuni giorni dopo, con l'accusa di "false affermazioni senza prove", dopo la pubblicazione di un video in cui denunciava di essere stato torturato in prigione. Il 24 aprile scorso è stato infine condannato a morte dalla Corte rivoluzionaria di Isfahan, che ha singolarmente ritenuto il parere della Corte suprema solo “consultivo”. Lo stesso tribunale di Isfahan ha condannato a morte pochi giorni fa, per la sua attività sui social, anche Mahmud Mehrabi, che era già finito in carcere per la sua adesione alle proteste del 2022. 

La  vicenda di Toomaj Salehi - esaminata nel dettaglio in un recente articolo dell’Atlantic Council -  ha dato il via a una vasta mobilitazione internazionale,  e indotto oltre cento musicisti, icone culturali e attivisti per i diritti umani, tra cui grandi nomi come Coldplay e Sting, a firmare una lettera per il suo immediato rilascio. “L’arte deve poter criticare, provocare, mettere in discussione e sfidare l’autorità – vi si legge -. Questo è sia il nostro diritto che il nostro dovere come artisti". 

Fra le iniziative per la liberazione del rapper, quella di un team di avvocati internazionali che, per conto della famiglia e di Index on Censorship, ha presentato un appello urgente al Relatore speciale dell’Onu per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie e al Relatore speciale sulla tortura: vi si afferma che l’Iran viola i suoi obblighi legali internazionali non rispettando molteplici diritti di Salehi, compresi quelli alla vita, alla libertà dalla tortura, a un processo equo e alla libertà di espressione. 

Quanto alla possibilità di una revisione della sentenza, il periodo di appello in Iran è di appena una ventina di giorni. C’è dunque la preoccupazione che le autorità iraniane possano agire molto velocemente per attuare la sentenza, come era accaduto con il giovane Mohsen Shekari, accusato di guerra contro Dio e ucciso l’8 gennaio 2023 a poco più di un mese dalla condanna. Si trattò allora della prima esecuzione di un partecipante alle manifestazioni Donna Vita Libertà (otto da allora in totale).  

Salehi incarna la voce di quel movimento, ha scritto di lui dal carcere la Premio Nobel Narges Mohammadi, facendo appello alle “mani unite e resilienti degli iraniani” a non permettere che la condanna sia portata a termine. 

Otto anni a Rasoulof, il mondo del cinema e delle cultura nel mirino

Otto anni di carcere è invece la pena per Mohammad Rasoulof, condannato anche a una multa, alla confisca dei beni e alla fustigazione. La corte lo ha giudicato per le sue dichiarazioni pubbliche, ma anche per i suoi film e documentari, che costituirebbero “esempi di collusione al fine di commettere un crimine contro la sicurezza del paese”. Il regista aveva subito il suo ultimo arresto nel luglio 2022, per aver firmato una petizione che chiedeva alle forze dell’ordine moderazione verso chi manifestava per il crollo di un edificio ad Abadan, in cui morirono una trentina di persone. 

Prima della condanna erano stati convocati e interrogati esponenti della produzione e attori del suo film, ai quali veniva vietato di lasciare il paese. Lo scopo delle autorità sarebbe stato quello di ottenere il ritiro dal festival di Cannes del film, incentrato sulla figura di un giudice della Corte rivoluzionaria di Teheran. Il tema è sensibile quanto quello della pena di morte, che era invece al centro del film “Il male non esiste”: un lavoro che interroga le coscienze dei suoi protagonisti e che ha vinto nel 2020 l’Orso d’Oro al festival di Berlino – premio allora ritirato dalla figlia, perché lui si trovava agli arresti domiciliari. 

Un documento a suo favore è stato appena lanciato in Italia dall’associazione nazionale 100autori, presieduta da Francesca Comencini e che raccoglie molte voci del cinema italiano. Si tratta di un appello alla mobilitazione rivolto al governo italiano e in particolare al ministero della cultura. “Ribadiamo che la libertà di opinione e il diritto di realizzare film come autori e registi in piena autonomia – vi si legge - siano alla base di ogni opera creativa ed intellettuale. Siamo vicini a Rasoulof e a tutti gli autori che si battono per la libertà”. 

Il cinema iraniano è stato sempre apprezzato e più volte premiato all’estero per la sua capacità di partire da vicende individuali per affrontare temi esistenziali universali, mentre la dirigenza della Repubblica Islamica si divide tra l’orgoglio per tanto successo della cinematografia nazionale e le accuse ai festival di premiarne gli autori indipendenti per ragioni politiche. 

Contestualmente, vari esponenti del miglior cinema iraniano, insieme ad altre figure della scena artistica, sono più volte entrati nell’arena del dibattito politico considerato la propria notorietà come un dovere all’impegno sociale e politico. In questo filone si colloca appunto anche Rasoulof, la cui storia giudiziaria si è significativamente affiancata a quella di Jafar Panahi. Entrambi erano stati arrestati nel 2010 e condannati a sei anni di carcere e al divieto di fare film per lunghi anni, ma poi le loro vicende giudiziarie hanno seguito percorsi diversi. Ma Panahi venne di nuovo arrestato nel luglio 2022, e detenuto per alcuni giorni, quando si recò in procura per testimoniare su un nuovo arresto di Rasoulof e di un terzo regista pochi giorni prima. 

Quest’ultima sentenza, sottolinea il Guardian, è la più dura mai pronunciata per un regista. Se la prima condanna nel 2010 era poi stata ridotta a un anno, nel 2017 era stato vietato a Rasoulof di lasciare il Paese e nel 2019 si era aggiunta un’altra condanna a un anno di carcere, con divieto di espatrio e di partecipare ad attività sociali o politica. Questo a seguito del suo film  A Man of Integrity sulla corruzione endemica in Iran, vincitore della sezione Un certain Regard a Cannes. Nel 2020 era stato condannato a un ulteriore anno di prigione e a due anni di divieto di girare film per "propaganda contro il sistema". Riarrestato appunto nel 2022, è stato rilasciato sette mesi dopo per motivi di salute ma non ha potuto recarsi a Cannes, dove era stato invitato come giurato. 

Il nuovo contesto generale che alimenta il giro di vite repressivo 

Al di là di come le singole vicende giudiziarie si sono sviluppate, tra ricorsi in appello e riduzioni e mitigazioni discrezionali di pena, resta il fatto che i registi indipendenti sono sempre stati nel mirino delle autorità per i contenuti critici delle loro opere. Rafforzando o allentando la stretta su di loro, magistratura e potere politico possono così esercitare un costante controllo, esponendoli al perenne rischio di nuove accuse, come propaganda contro il sistema e attività contro la sicurezza nazionale. Ma l’ultima sentenza per Rasoulof sembra inserirsi perfettamente nel giro di vite contro qualunque forma di opposizione avvenuto in particolare negli ultimi due anni, anche contro un cinema molto prolifico e spesso di grande qualità. 

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E guardando ancora al contesto generale, nell’ottica evidenziata all’inizio, c’è poco di cui essere ottimisti: i recenti ballottaggi per gli ultimi seggi da assegnare nel nuovo Parlamento uscito dalle urne del primo marzo, disertate da quasi il 60% degli elettori, hanno definitivamente consegnato l’assemblea (233 su 290 seggi) agli oltranzisti conservatori e anti-occidentali. La possibilità che l’Iran si doti effettivamente di un’arma nucleare come strumento di deterrenza, fino ad oggi ufficialmente esclusa da una fatwa del leader Khamenei, si è fatta ormai apertamente strada anche nel dibattito interno, per  effetto del clima di rovente tensione con Israele che ha portato prima all’attacco attribuito a Tel Aviv contro il consolato di Teheran a Damasco, e poi alla sventagliata di centinaia di missili e droni partiti, per ritorsione, per la prima volta direttamente dal territorio iraniano contro quello israeliano. Inoltre, alle autorità iraniane non è parso vero di poter accusare ancora una volta l’Occidente di doppio standard nel condannare la repressione delle proteste, evidenziando il pugno di ferro usato negli USA contro gli studenti universitari che protestano contro Israele per il massacro di civili in corso a Gaza. 

In realtà tutto si tiene: la guerra uccide o riduce i diritti umani non solo dove si combatte, ma anche nei paesi che vi sono indirettamente coinvolti. E se davvero li si vuole difendere, questi diritti, forse soltanto il difficile lavoro della diplomazia e i negoziati mirati a certi obiettivi possono sperare di farlo con qualche efficacia. 

Come già sottolineavo in un recente articolo, infatti, anche lo strumento delle sanzioni contro l’Iran ha dimostrato di avere scarsa efficacia. Meglio sarebbe forse architettare una qualche politica di incentivi, pragmaticamente circoscritti ai risultati parziali che si vorrebbero ottenere. Ma certo, finché la guerra a Gaza continua a uccidere e la regione resta pericolosamente sulla soglia di una sua apocalittica estensione, anche questa è accademia. Non restano che gli appelli per salvare chi rischia il patibolo o per liberare chi è stato ingiustamente condannato, per tenere alta l’attenzione su quelle vite sospese. A meno che qualche politico non abbia – dopo le condanne di rito contro l’Iran, sempre buone per tutte le stagioni - qualche idea realisticamente migliore. O qualcuno non pensi a una guerra salvifica per togliere di mezzo la Repubblica Islamica.

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