Fuori da qui Post

In Iran, nove mesi dopo la morte di Mahsa Amini, la protesta diventa disobbedienza civile e ancora una volta a guidarla sono le donne

1 Luglio 2023 14 min lettura

In Iran, nove mesi dopo la morte di Mahsa Amini, la protesta diventa disobbedienza civile e ancora una volta a guidarla sono le donne

Iscriviti alla nostra Newsletter

14 min lettura

Che succede in Iran, a ormai nove mesi dalla nascita del movimento Donna Vita Libertà? È tutto rientrato o la rivolta continua? Basta guardare un sito di opposizione come Iranwire, basato a Londra e fondato dal  giornalista irano-canadese Maziar Bahari, per rendersi conto che le cronache delle manifestazioni e dei gesti di sfida della Generazione Z iraniana hanno per lo più ceduto il passo a nuove e tristi storie di repressione. Repressione più larvata magari, rispetto alle tante uccisioni (oltre 500, secondo i siti di opposizione) con cui le forze dell’ordine e soprattutto i basiji, miliziani volontari dei Sepah-e pasdaran-e Enghelab-e Eslami (i Guardiani della rivoluzione), hanno risposto ai manifestanti: arrestandone a migliaia e ferendone  molti, anche volutamente agli occhi per accecare. E meno clamorosamente inscenata, anche, dopo che per presunti reati strettamente legati alle proteste, sono finiti sul patibolo sette manifestanti finora, e speriamo che altri non se ne aggiungano – anche se nuove condanne a morte già sono state emesse.

Iranwire ci racconta per esempio, dell’arresto del padre, della sorella e dello zio di un adolescente, Abolfazl Adinezadeh, ucciso in ottobre nella provincia del Khorasan: vediamo la foto della madre seduta vicino alla tomba del ragazzo, su cui poggia una raccolta di foto che lo mostrano pieno di vita, e anche una scarpa sportiva di marca, nuova fiammante.

La mamma di Abolfazl Adinezadeh, ucciso in ottobre nella provincia del Khorasan, seduta vicino alla tomba del ragazzo, su cui poggia una raccolta di foto che lo mostrano pieno di vita, e anche una scarpa sportiva di marca, nuova fiammante.

È così che si consuma il lutto per le tante giovani vite perse, mentre le autorità continuano ad arrestare non solo chi ha partecipato alla rivolta, ma anche le famiglie che non accettano di tacere, magari alla vigilia di anniversari che potrebbero innescare nuove proteste. Sono dunque anche i familiari delle vittime a essere ancora bersagliati, come i parenti del piccolo e geniale Kian Pirfalak, ucciso mentre era in macchina con i genitori a Izeh, il 15 novembre: la sua morte ha lasciato uno dei segni più dolorosi tra attivisti e simpatizzanti delle proteste, e il suo compleanno è stato celebrato l’11 giugno in tutto il mondo, e non solo in Iran. Dove però un parente del bambino è stato ucciso dalle forze dell’ordine, mentre la madre è stata definita dai media ufficiali “sediziosa”.

La protesta diventa disobbedienza civile e non si ferma 

Eppure, se la repressione continua, la protesta non si è spenta. Scende meno nelle strade ma si esprime come disobbedienza civile: ancora una volta con le donne in prima linea, ancora una volta contro l’obbligo del velo, divenuto il simbolo non solo dei diritti negati alle donne - e in Iran vanno ben oltre questo pezzo di stoffa, passando per il valore dimezzato rispetto agli uomini delle eredità, delle testimonianza in tribunale e dei risarcimenti (il “prezzo del sangue”) in caso di morte –, ma anche dell’istanza di un cambiamento radicale diffusa in modo trasversale in tutti gli strati sociali. E in particolare tra i poveri precipitati in questi anni in una ancora peggiore povertà, e nelle classi medie,  che hanno smesso da tempo di essere tali, vedendo il proprio potere d’acquisto eroso oltre ogni previsione da tassi di inflazione che hanno toccato anche il 40-50%. E questo mentre le oligarchie economiche, politiche, clericali e militari al potere hanno continuato ad arricchirsi, paradossalmente anche grazie alle sanzioni re-imposte nel 2018 dagli USA, dopo la loro uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano di tre anni prima. 

Le donne, dunque, continuano a ignorare le norme sempre più stringenti sull’obbligo del velo, almeno in molte zone urbane, mostrandosi in pubblico con i capelli scoperti e sfidando la possibilità di essere riconosciute dalle telecamere di sorveglianza, di incorrere in procedimenti giudiziari, di far confiscare la vettura a chi le accompagna, di veder sequestrare i locali commerciali che le servono comunque. Come se la #IranRevolution fosse solo temporaneamente sospesa, ma penetrasse sempre più a fondo nel sociale e nei comportamenti quotidiani, sollecitando tutti a cambiare – a cominciare da quegli uomini che proprio grazie al movimento Donna Vita Libertà sembra abbiano finalmente cominciato anche loro stessi a mettere in discussione le gerarchie di genere di una società rimasta finora, anche tra i ceti medi urbani e non solo nelle comunità rurali e meno acculturate, profondamente tradizionale. 

Il grido disperato di un padre alla figlia: “Sono stato io a ucciderti prima di loro” 

Una breve digressione può aiutare a rendere più plasticamente le trasformazioni profonde che sembra aver avviato il movimento che ha percorso le strade dell’Iran dal 16 settembre, giorno della morte della giovane curdo-iraniana Jina Mahsa Amini, fino al mese di gennaio, quando le autorità avevano ripreso il controllo della maggior parte del territorio, giusto in tempo per una trionfale celebrazione del 44/o anniversario della Rivoluzione islamica (ci soffermeremo più avanti sull’eccezione del Sistan e Baluchistan).

Il racconto giunge dall’Italia, tramite il monologo teatrale che l’attore iraniano Arash Abbasi, basato a Bologna, ha portato di recente in scena anche a Roma. Un testo struggente sulla vita e la morte delle sedicenne Nika Shakarami, una delle prime e più iconiche vittime della repressione, che secondo la versione ufficiale si sarebbe gettata dal piano alto di un edificio. Un testo sofferto, capace di scavare alle radici di una cultura misogina, evidentemente diffusa nella società iraniana. Nel disperato racconto del padre di Nika c’è infatti non solo l'orrore della scoperta che la ragazza è morta per le indicibili violenze subite, non solo l'umiliazione di dover sottoscrivere la versione ufficiale su quel decesso e non solo il dolore per il furto della salma, sepolta altrove. Ma anche un inconsolabile senso di colpa. Era stato lui per primo, da padre, a punire la ragazza per il suo innocente desiderio di libertà, rispetto al modello femminile tradizionale. Nel suo inconsolabile dialogo immaginario con la figlia, il padre ricorda di averla vista un giorno parlare con un ragazzo, mentre il velo le era sceso sulle spalle:  al ritorno a casa della ragazza, lui le aveva dato uno schiaffo chiedendole come aveva potuto offendere la “dignità” sua, cioè quella del genitore. “Sono stato io a ucciderti per primo, non loro”, è la consapevolezza disperata di quel padre rimasto solo: era stato lui per primo a negare alla figlia il diritto di essere se stessa, facendosi guardiano di un ordine patriarcale  che solo ora, nel dolore, riesce a riconoscere.  

Un'indagine dolente e impietosa sulla violenza del potere politico nella  Repubblica Islamica, ma anche su quella del potere maschile innervata nella società, e sulla rivoluzione culturale che proprio il movimento Donna Vita Libertà ha innescato. Proprio grazie alla  forza delle donne, nel nuovo Tempo delle donne (per parafrasare il titolo dell’ultimo libro di chi scrive) che il movimento nato dalla morte di Mahsa Amini ha cominciato. Un cambiamento profondo che i giovani per primi continuano a voler spingere nella società: pochi giorni fa a protestare contro l'hijab erano gli studenti della Tehran Art University, la polizia ha attaccato e una decina sono stat arrestati.

In Baluchistan si manifesta ancora ogni venerdì, contro le discriminazioni delle minoranze 

Il Sistan e Baluchistan, si diceva. Perché in effetti qui le proteste non si sono mai fermate, o perlomeno tornano puntuali ogni venerdì dopo il sermone di Molavi Abdulhamid, l’imam sunnita di Zahedan che ha saputo interpretare da una parte la voce dirompente delle proteste diffuse in tutto il paese, dall’altra le specifiche e urgenti richieste della minoranza dei baluchi:  due milioni circa di persone che vivono nel sudest del Paese al confine con il Pakistan, condannate come e più di altre minoranze etnico-religiose a una drammatica marginalità economica e sociale.

È probabilmente proprio la povertà estrema di questa gente,  insieme alla personalità carismatica del suo leader religioso, a far tornare puntuali le proteste nonostante ampi schieramenti delle forze dell’ordine. Qui il movimento era nato indipendentemente dalla morte di Mahsa Amini, come reazione allo stupro subito da una ragazzina da parte di un funzionario di polizia: nonostante la repressione sanguinosa del 30 settembre (il tragico  “venerdì di sangue” di Zahedan, in cui sarebbero stati uccisi dalle forze dell’ordine quasi un centinaio di manifestanti, con oltre 300 feriti), qui la gente ha continuato a manifestare, testimoniando l’urgenza delle rivendicazioni anche economiche -  per una vita dignitosa, come nella canzone-inno Baraye di Shervin Hajipour - che hanno sostenuto il movimento Donna Vita Libertà. E proprio qui, sempre per voce dell’imam Molavi, sono risuonate fin dall’inizio anche rivendicazioni politiche che riguardavano l’intera Repubblica Islamica: dalla richiesta alle autorità statali e agli studiosi sciiti dei seminari di Qom di ascoltare la gente, a quella di un referendum per un nuovo ordinamento del Paese. Perché il movimento Donna Vita Libertà ha una vocazione universalistica che riguarda tutto la nazione, e vede tra i suoi protagonisti le minoranze etnico-religiose: prima tra tutte quella dei curdi iraniani dalle cui regioni tutto è cominciato, nel giorno del funerale di Mahsa Amini nella sua città natale di Saqqez. 

Niloofar ed Elaheh, le due reporter che rischiano la condanna a morte solo per aver fatto il loro lavoro

È proprio il ricordo di quei funerali a darci l’occasione per segnalare altre due vite a rischio per quella vicenda, e stavolta per averne scritto. Rischiano infatti la condanna a morte Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, fra le prime giornaliste a dare notizia della morte e dei funerali di Mahsa Amini. Niloofar Hamedi lavora per Shargh, mentre Elaheh Mohammadi scrive per  Hamihan, due quotidiani riformisti. Entrambe sono state arrestate a settembre e accusate di gravi reati: collaborazione con il governo “ostile” degli Stati Uniti, cospirazione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il regime: reati per i quali è possibile venire condannati a morte. I due processi sono cominciati il 29 e il 30 maggio davanti alla sezione 15 della Corte rivoluzionaria di Teheran, presieduta dal giudice Abolghasem Salavati, noto per le sue dure sentenze contro attivisti e giornalisti.

Secondo i legali iraniani che seguono il caso, alle due reporter sono state negate le fondamentali garanzie del giusto processo, previste anche dai codici della Repubblica Islamica: solo il 28 maggio è stata consentita la visita dei loro avvocati, appena prima di un processo a porte chiuse in cui questi non hanno potuto esporre la loro difesa. Senza contare che fuori dalle norme sarebbe anche il fatto che la loro custodia cautelare dura ormsi da nove mesi,  da oltre compreso un periodo di isolamento. L’International Federation of Journalists (IFJ) e la Teheran Province Journalist Association avevano chiesto invano che le udienze fossero pubbliche e non a porte chiuse.

Le due croniste hanno ricevuto vari riconoscimenti internazionali, fra i quali il Premio Unesco per la libertà di stampa.  Con loro è stato premiata anche Narges Mohammadi, giornalista e vice-direttrice della ONG Defenders of Human Rights Center, in carcere a Evin per scontare una pena a 16 anni e destinataria di vari altri riconoscimenti internazionali. Quest’ultima ha continuato a lavorare anche dal carcere, raccogliendo interviste tra le altre detenute, poi pubblicate nel libro “White Torture”. Il Committee to Protect Journalists (CPJ) calcolava nel febbraio scorso che un centinaio di giornalisti iraniani erano stati arrestati per aver coperto le proteste, con il rischio di  pesanti condanne al carcere e frustrate. Circa la metà risultavano poi rilasciati su cauzione. Ma gli arresti di giornalisti continuano tuttora, tanto che negli ultimi tre mesi ne sono stati arrestati almeno altri quattro. 

Il dibattito in corso nell’opposizione interna al paese di cui sappiano così poco 

L’accenno a Narges Mohammadi apre al grande tema di come gli eventi degli ultimi mesi in Iran vengano percepiti non dagli oppositori della diaspora, che in questi mesi hanno dominato nella narrativa delle proteste, ma da quelli che  ancora vivono nel paese, se non nelle sue carceri. Rivolgendosi all’Unesco in merito al riconoscimento che le è stato tributato, Mohammadi ha detto fra l’altro: 

“Per favore, non lasciateci isolati. Quando formulate le vostre politiche, considerate di sostenere la ‘società civile’, le ‘persone’ che manifestano per le strade, i ‘prigionieri’ ideologici, coloro che rischiano l'’esecuzione’, i cittadini che protestano e gli attivisti politici. Di promuovere gli obiettivi pacifici e non violenti del popolo iraniano, ridurre il potere di repressione del governo, così come gli agenti che impongono la reclusione, la tortura e le esecuzioni”.

La coraggiosa attivista sarebbe certo tra gli esponenti di quella leadership politica in grado di prendere in mano le sorti del paese nell’ipotesi in cui la Repubblica Islamica dovesse un giorno finire – la nostra classe dirigente è tutta in carcere, mi diceva un’amica a proposito della mancanza di leadership e del carattere semi-spontaneo del movimento Donna Vita Libertà. E Narges Mohammadi figura anche  fra quei prigionieri politici che sono comunque riusciti a intervenire nel dibattito interno alle opposizioni interne scaturito proprio dal nuovo movimento. 

Così ha fatto in particolare nella conferenza virtuale “Save Iran” svoltasi a fine aprile e alla quale  hanno preso parte una quarantina di oppositori, prevalentemente basati in Iran. Una iniziativa che ha condotto al successivo arresto di alcuni partecipanti, ma che segnala il fatto che il dibattito interno non sembra riecheggiare nemmeno da lontano quello al quale ci ha abituato la diaspora. La quale del resto si è presa per mesi tutto lo spazio mediatico, spingendo non solo la propria narrativa degli eventi (grazie a una massiccia e capillare diffusione delle informazioni e dei video trasmessi dagli attivisti oltre la cortina di ferro che la Repubblica Islamica cercava di erigere bloccando internet), ma soprattutto un’agenda politica a cui sembrava appunto mancare il riscontro con il dibattito dell’opposizione interna. 

Ed è qui che si deve registrare un deficit nell’informazione giunta in Occidente, deficit che dovrebbe preoccupare in primo luogo i giornalisti, per le implicazioni deontologiche che comporta. Poco se non nulla si è infatti scritto sia di quella conferenza virtuale di aprile sia di una precedente iniziativa di Mir Hossein Mousavi, già leader dell’Onda verde del 2009, che si trova dal 2012 agli arresti domiciliari. L’anziano politico, che pure è stato un esponente di spicco della Repubblica Islamica e primo ministro per quasi un decennio negli anni Ottanta, sosteneva la necessità di un cambiamento radicale nel suo ordinamento e una nuova Costituzione da promuovere e approvare tramite due referendum. Un’iniziativa sottoscritta da 350 giornalisti e attivisti politici e della società civile, seppur ignorata da altre importanti figure, che probabilmente vedevano nel suo promotore un uomo del vecchio regime. Mentre altri documenti venivano lanciati da gruppi diversi, fra i quali una ventina di sindacati, che in vario modo riecheggiavano le richieste del movimento Donna Vita Libertà. 

Se la diaspora iraniana si è tanto attivata per farci conoscere i crimini della repressione, c’è da chiedersi come mai non ci abbia trasmesso anche queste voci interne al paese. Spingendo però nel contempo per l’espulsione degli ambasciatori iraniani dai paesi occidentali (misura che avrebbe certo indotto la Repubblica Islamica a fare altrettanto, producendo si' un isolamento anche della società) e per l’inserimento nella lista europea dei terroristi dei Pasdaran, votato a larga maggioranza dal Parlamento Europeo ma non adottato dalla Commissione. I critici di questa misura segnalano che questa potrebbe innescare pericolose ritorsioni e forse, come osservato da alcuni esperti in merito alle sanzioni mirate già adottate contro alcuni esponenti dei Guardiani della rivoluzione, avrebbe effetti dimostrativi per l’opinione pubblica, ma dubbia efficacia sul piano pratico. 

Divisa e sganciata dal paese, quello che l’opposizione della diaspora non ha (ancora) fatto 

Quello che la diaspora sembra invece non essere ancora riuscita a fare (ma siamo pronti a essere smentiti, se la notizia ci fosse sfuggita) è la tanto auspicata creazione di un fondo di solidarietà per i lavoratori iraniani che scendono in sciopero, come alcuni gruppi e sigle sindacali hanno fatto durante le proteste dei mesi scorsi, ma senza per questo far loro raggiungere quella massa critica necessaria a mettere in crisi il potere. Forse, a rendere l’obiettivo così difficile da raggiungere, sono proprio le sanzioni imposte dagli USA, che impediscono qualunque transazione finanziaria trasparente tra l’Iran e i paesi esteri. 

Nel frattempo, nove mesi dalla morte di Mahsa Amini non sono bastati a far trovare una piattaforma comune fra le diverse componenti della opposizione iraniana da sempre divisa al suo interno. Alcuni suoi esponenti di spicco sembravano aver infine trovato un punto di accordo nella cosiddetta Carta di Solidarietà e Alleanza per la Libertà, intitolata a Mahsa Amini, lanciata a fine marzo. Ad aderirvi l’attivista e giornalista Masih Alinejad; l’attrice Nazanin Boniadi; la Premio Nobel Shirin Ebadi; Hamed Esmaeilion, rappresentantee dell’associazione dei familiari delle 176 vittime dell’aereo civile abbattuto per errore dalla contraerea iraniana nel gennaio 2020; l’esponente curdo Abdulah Mohtadi e infine Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià e principe erede, sorpreso dalla rivoluzione del 1979 mentre si trovava in America.

Ma la difficile alleanza si è praticamente dissolta poco dopo, e Pahlavi ha evidentemente scelto di giocare da solo – anche con la sua recente visita in Italia - per guadagnarsi altri consensi tra gli iraniani all’estero. Da sempre lavora da solo anche il Consiglio nazionale della resistenza iraniana guidato dalla velatissima Maryam Rajavi. L’organizzazione, uscita dalle liste dei terroristi dell’Europa nel 2019 e da quella  Usa nel 2012, è vista come fumo negli occhi da molti iraniani perché, fra l’altro, si era schierata con Saddam Hussein durante la guerra Iran-Iraq. Ma un suo appello ad “adottare una nuova politica nei confronti dell’Iran” è stato di recente sottoscritto – grazie al Comitato Interparlamentare presieduto dal sen. Giulio Maria Terzi - da 204 deputati e 103 senatori italiani,  favorevoli anche al piano in dieci punti da tempo elaborato dal CNRI per il futuro del Paese. 

E intanto il mondo cambia, anche intorno all’Iran  

La Repubblica Islamica che, nonostante le attese di chi credeva nella #IranRevoution, le proteste di questi mesi non sono ancora riuscite a far cadere, è invece tornata protagonista sulla scena internazionale. E non solo sul piano militare, confermando la sua collaborazione con la Russia di Putin nella guerra all’Ucraina, ma anche ritrovando un canale negoziale con gli Stati Uniti sul suo programma nucleare, e rientrando a pieno titolo nel ridisegnarsi degli equilibri regionali  avviato con lo ritrovata intesa con l’Arabia Saudita, portata a termine con l’intervento diretto della Cina. Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio come, dopo quella storica intesa tra Teheran e Riad e del 10 marzo scorso, si ridefinisca la mappa delle amicizie e delle alleanze tra i paesi arabi e l’Iran, con importanti conseguenze anche per quegli Accordi di Abramo che Israele aveva tessuto in funzione anti-iraniana; il ruolo sempre più importante della Cina anche nella penisola araba del Golfo Persico, come la recente Arab-China Business Conference svoltasi a Riad ha dimostrato; l’attiva ricerca da parte di Teheran di sempre nuove sponde in un mondo multilaterale, dalla recente visita del presidente Raisi in Venezuela, Cuba e Nicaragua all’ormai prossima entrata a pieno titolo dell’Iran nella Shanghai Cooperation Organization (SCO). 

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Ci limitiamo qui a registrare uno sviluppo fondamentale: dopo mesi di gelo tra Teheran e Washington, seguiti all’impasse dei negoziati di Vienna per il ritorno degli USA all’accordo sul nucleare, all’inaccettabile violenza con cui Teheran ha represso le proteste e alla fornitura di droni armati a Mosca che questa ha usato contro Kyiv, le due capitali hanno ripreso, in modo indiretto, a parlarsi. Per l’amministrazione Biden c’è un pericoloso focolaio di crisi da  disinnescare, cioè il fatto che ormai l’Iran arricchisce l’uranio al 60%, un livello molto vicino alla soglia dell’uso militare, e che Israele sembra pronto ad attacchi aerei contro le sue strutture nucleari, cosa che avrebbe conseguenze molto gravi in tutta la regione. Si lavora sotto traccia per un’intesa molto limitata negli obiettivi, rispetto a un nuclear deal del 2015 ormai morto e sepolto, nella speranza di evitare ostacoli nel Congresso americano e con obiettivi circoscritti: congelare al 60% l’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran;  limitare la collaborazione militare tra Mosca e Teheran; il rilascio dei prigionieri irano-americani e lo scongelamento di una parte dei capitali iraniani bloccati all’estero, che Teheran dovrebbe usare solo per scopi umanitari.  

La partita è ancora aperta, ma una cosa ha finora dimostrato: con la Repubblica Islamica, per quanto impresentabile la possano trovare, gli USA e anche l’Europa devono parlare. 

Immagine in anteprima: frame video Euronews via YouTube

Segnala un errore

Array