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Io sono Kasta

5 Marzo 2013 5 min lettura

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Io sono Kasta

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(Foto da articolotre.com)

"Non faccio parte della casta, non vedo perché dovrei vergognarmi".

Non so se il titolo sia opera di Amato (in circostanze come queste, c'è sempre qualcuno che ti dice che il titolo non è scritto dall'autore, ma nessuno che, alla domanda: "Ma allora chi l'ha scritto?" ti sappia dare una risposta univoca). In ogni caso riassume efficacemente il contenuto della lettera.

Amato spiega che la sua pensione (31mila euro al mese, vitalizio da ex-parlamentare incluso) è frutto del suo lavoro (e del regime pensionistico vigente) e dunque gli spetta di diritto. Credo che questo dato sia incontrovertibile. Amato spiega la storia della sua carriera e illustra le molte ragioni che lo hanno condotto a servire il Paese e dunque a ricevere un contributo coerente con l'alto impegno profuso per il bene dell'Italia.

Quando si parla di casta, però, non si può ignorare un dato: la Kasta (scritto col kappa e maiuscolo) non è un preciso indicatore di classificazione sociodemografica né un elemento di oggettiva demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori. Non siamo in India, non siamo divisi per ceti dalla nascita.

In Italia è Kasta chi detiene un qualsivoglia privilegio all'interno di una comunità (in questo caso, il popolo italiano) che non ha accesso allo stesso privilegio o, peggio ancora, lo ha perso a causa della crisi economica di questi anni.

Avere una pensione di 31mila euro al mese è, oggi, un privilegio ritenuto da molti insopportabile. Poter cedere 20mila euro al mese della propria pensione a un ente che si occupa di assistenza, azione di per sé meritoria, è anch'esso un privilegio. Gli italiani che possono destinare due terzi del proprio reddito alla solidarietà si contano sulle dita di una mano (e sono certo che molti italiani vorrebbero donare molto di più, ma non hanno i mezzi economici per farlo).

Il punto, a mio avviso, è nello slittamento semantico della parola "privilegio". Ciò che in Italia è diritto, sancito dall'ordinamento e in alcuni casi dalla Costituzione, è diventato privilegio (inaccessibile) per troppe persone, le quali non hanno accesso né ai diritti "minimi" (ad esempio il lavoro, come dice l'articolo 1 della Costituzione), né ovviamente ai benefici più odiosi (come vitalizi o rimborsi di varia natura).

Alla luce di tutto questo, io ora sono Kasta.

Ho un lavoro stabile (anche se in un'azienda privata sotto i quindici dipendenti, in un comparto in difficoltà come quello della comunicazione), mentre il 37% dei giovani italiani (e oltre l'11% degli italiani) non ce l'ha: sono un privilegiato.
Vivo ancora nella mia città, a casa dei miei, con due genitori entrambi al lavoro, entrambi pagati con soldi pubblici (Kasta!1!): sono un privilegiato.
Nel mio lavoro capita spesso di avere i politici (Kasta!1) come clienti: sono un privilegiato (e chissà quali favori ho già avuto...).
Anche se il mio reddito orario è nettamente al di sotto della media italiana, che a sua volta è nettamente al di sotto della media europea, guadagno comunque molto di più di tanti precari, a parità di ore lavorate alla settimana: sono un privilegiato.
Posso arrotondare il mio stipendio come formatore: sono un privilegiato.

In questi anni, dialogando con amici o conoscenti, dal vivo o sui social media, ho potuto toccare con mano gli aspetti più estremi dello slittamento del concetto di diritto verso la parola "privilegio". Scrivere gratuitamente su blog o testate molto lette (come Valigia Blu) è stato considerato un privilegio. Viaggiare molto per lavoro, andare ai concerti (e dunque avere i soldi per potermi comprare i biglietti). Persino il solo lavorare, a prescindere dalle condizioni di lavoro, può essere ritenuto un privilegio.

Provate a scrivere su Facebook che il lavoro vi stanca, non vi soddisfa, non è ben pagato, vi fa uscire tardi la sera, o non vi fa uscire proprio. Lo abbiamo pensato tutti, almeno una volta, nella vita. E poi cronometrate quanto tempo passa prima che qualcuno vi scriva frasi come "beato te che ce l'hai il lavoro!" o "ma come fai a lamentarti! Io guadagno ancora meno".

Tutte queste condizioni, secondo la legge e la Costituzione, sono diritti che spettano a qualsiasi cittadino. Esattamente come la pensione di Amato appare agli occhi dello stesso Amato. Ma se si fa finta di non considerare che non tutti gli italiani oggi sono tutelati allo stesso modo, e dunque anche il semplice esercizio dei diritti può essere percepito come odioso, non si riuscirà a comprendere mai pienamente il malessere del nostro Paese e tutte le conseguenze, nello scenario politico e sociale, con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente.

In casi come il mio, non è infrequente trovarsi davanti a domande come "perché tu sì e io no?": domande spesso poste da persone di talento, competenti, che si sono impegnate tanto nella vita e che, davanti a ciò che più o meno giustamente ritengono essere scorretto (l'avanzata dell'altro, la non avanzata propria), chiedono una spiegazione.

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Quando questo tipo di domande diventano la norma, e quando queste domande non tengono più conto degli eventuali meriti di chi poi ce l'ha fatta (e dunque di parole come determinazione, impegno, di sacrificio - tanti sono stati figli di persone umili come Amato. Non tutti ce l'hanno fatta, e questo non vuol dire che non fossero all'altezza), per il Paese tutto (e non per Amato) il problema dello slittamento del concetto di "diritto" verso la parola "privilegio" è già pressoché irrisolvibile.

In Italia oggi ci sono sempre più persone che chiedono una buona ragione per non lasciare il Paese, e le chiedono ad altre persone che (come me) hanno sempre rotto le scatole a tutti con la retorica del "restare". Oggi però sento di avere argomenti sempre più deboli. Perché quando un italiano chiede a un altro italiano perché la parola "diritto" (soprattutto nel lavoro) non vale quasi più niente, non ci sono visioni, sogni o speranze che tengano.

Amato ha tutto il diritto di non sentirsi Kasta.
Sappia che però io mi sento così, perché so che qualcuno pensa che sia così, giusto o sbagliato, oggettivo o soggettivo che sia.
E aggiungo: non so se Amato, da grande, voglia fare il Presidente del Consiglio o il Presidente della Repubblica: non si sorprenda, in entrambi i casi, se gli italiani non si sentiranno adeguatamente rappresentati da lui.

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