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Io, nell’Inferno di OccupyPrimarie #AssembleaPd

6 Ottobre 2012 5 min lettura

Io, nell’Inferno di OccupyPrimarie #AssembleaPd

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Ho fatto un sogno*, e questo sogno lo voglio raccontare.

Sono all'assemblea nazionale del Pd. Nella lussuosa sala dell'hotel che ospita l'evento, tutto è animato dalla solita calma di partito: una calma da atto notarile. Io sono seduto in prima fila, ma non so esattamente perché sono lì. Sul palco, il segretario Bersani, carismatico e statuario come un salumiere leninista di Faenza, fissa la sterminata folla di delegati.

«Vi siete contati, ragassi?» esordisce. «Io vi dico che il futuro è nostro, se voi riuscite a contarvi! Ora, datevi un'occhiata intorno... C'è D'Alema, seduto vicino ai delegati di Veltroni, e lì ci sono i renziani, gomito a gomito con Rosy Bindi. E nessuno contesta nessuno! Questo è un miracolo, e miracoloso dovrà essere tutto quello che  faremo... » prosegue Bersani, portando il fuoco della passione democratica e progressista nei cuori delegati.

Ma ecco farsi strada un nutrito gruppo di immigrati cinesi, dal fondo della sala verso il palco. Eccoli, guidati dall'unico che sembra masticare un minimo di italiano; a ogni delegato che gli capita a tiro fa la stessa domanda.

«È qui che noi vota Belsani
«Socc'mel, troppo presto!» si lascia sfuggire una voce non meglio precisata nei dintorni del palco.

Come in presenza di un untore, isteria e furia postideologica stravolgono l'atmosfera nella sala. Tutti i dissapori, gli odi di corrente, le rivalità, le invidie nutrite come figli ingrati; tutta la tensione per il doppio e il triplogiochismo, l'ansia da prestazione elettorale, la paura di una pugnalata alle spalle, il disorientamento da dissimulazione; tutto Stefano Fassina... Tutto questo è come se trovasse nel medesimo istante l'innesco che genera l'esplosione.

«Le primarie sono una truffa!»
«Lo statuto è una truffa!»
«A morte i bersaniani!»
«Linciamo Fassina!»
«Fassina sono io!» grida Stefano Fassina, prima di saltare alla gola dell'uomo in un estremo e socialdemocratico tentativo di autodifesa.

È il caos. Ogni corpo è freccia scoccata da un arciere chiamato Violenza.

Ma subito un boato si innalza più in alto di quel caos. È un colpo di pistola... «Perché qualcuno ha portato un'arma a un'assemblea?» mi domando. Ma non è tempo per le risposte. Il colpo ha  centrato in pieno Bersani, che è crollato tra le braccia di Franceschini.

«Chi è stato?» urla Franceschini al microfono, mentre regge il corpo esanime dell'ormai ex segretario.

«Sono stati i dalemiani! Li ho visti io!» dice uno dei giovani turchi.

Nella bolgia che segue i corpi in lotta mi appaiono grotteschi come mozioni di minoranza. Renziani, dalemiani, liberal Pd, Serracchiani Furies, Ecologisti Democratici, giovani turchi (qualunque cosa siano), Orfani... ogni corrente ha dei conti da regolare con almeno un'altra corrente, inclusi i cinesi assoldati per votare alle primarie.

Vedo un gigante che somiglia a Paolo Cosseddu sollevare un Pippo Civati dalle basette pronunciate, e lanciarlo contro Franceschini urlando «palla di cannone!». Civati impugna tagliacarte della Regione Lombardia affilati come artigli. Vedo Gianrico Carofiglio piroettare davanti a Civati e deviare l'assalto diretto contro Franceschini. I tagliacarte trapassano a vuoto la giacca di Gianrico Carofiglio, che se la toglie. Sotto indossa una t-shirt bianca con scritto «Scribacchino assoreta!». Franceschini si mette al riparo con tempismo democristiano. Vedo Carofiglio afferrare Civati: gli assesta una ginocchiata allo stomaco, rapido e letale come un Presidente russo al terzo mandato.

«Non mi candido, giuro!» esclama Civati, prima che Carofiglio gli assesti il colpo di grazia.

Dall'ala ovest della sala vedo Matteo Renzi partire alla carica... quand'ecco che si ferma perché Giorgio Gori gli ha mandato un messaggio su WhatsApp.

«Icchè tu vuoi?» dice Renzi controllando l'iPhone. L'esitazione gli è fatale: Rosy Bindi sguscia alle spalle del rottamatore e senza alcuna pietà lo colpisce con una sedia.

«Chi è che ha finito i mandati, eh?» lo sbeffeggia, mentre lo colpisce ripetutamente tra fiotti di sangue e suppliche dall'acca aspirata.

Rosy ha appena finito di rottamare Renzi quando la neocostituita Brigata Ellegibitì la circonda. Lei scruta ciascun delegato come un cristiano pronto al martirio degli altri. Si avventa contro di loro sopravvalutando la forza che le dà lo statuto del Partito. Il linciaggio è tanto inevitabile quanto orribile.

Enrico Letta, pazzo di rabbia centrista, si avventa su Ichino. Per l’aria risuona il grido di battaglia del giovane Letta: «ce lo chiede l’Europaaa!». I due iniziano a colpirsi senza tregua, con pugni, calci, morsi e romanzi di Veltroni, fino a uccidersi a vicenda.

L'aria trasuda ormai sangue e mozioni rimandate. Mentre vedo un gruppo di ninja fassiniani eseguire una silenziosa e terrificante danza di morte su ciò che resta dei gentiloniani, mentre realizzo in quel momento che nel Pd pure Gentiloni ha una corrente - o meglio, l’aveva - mentre sguscio non visto contro la parete est della sala, cerco con lo sguardo una via di fuga in mezzo al marasma. È allora che sento un suono ritmico, simile a cocci di vetro che cozzano tra loro. Mi volto: è Veltroni. Ha pollice, medio e indice della mano destra infilati ciascuno in una bottiglia di Coca Cola, e produce il suono ritmico  muovendo indice e medio contro il pollice.

«D'Alemaaa... giochiamo a fare la guerra? D'Alemaaa... giochiamo a fare la guerra?»

Il suo sguardo per un attimo mi paralizza. Ma non posso indugiare. Punto dritto all'uscita, quando dietro la colonna vedo per l'appunto D'Alema: sta scrutando l'aria, richiamato dalla voce di Veltroni. In mano ha un machete intriso di sangue e viscere Teodem, ma ormai non mi stupisce più nulla: non mi stupisce il machete, non mi stupisce un partito di centro-sinistra con una corrente Teodem. D'Alema si volta verso l'antico nemico, quando un veltroniano prova a sorprenderlo alle spalle. Ma il guerriero di Gallipoli non si fa sorprendere, e affonda il machete nella coscia del nemico, senza neanche voltarsi.

«Ma insomma» tuona, «questa è antipolitica!». E insieme ai suoi, infiammato dallo spirito riformista ch'entro gli rugge, muove l'assalto contro gli antichi rivali veltroniani.

Io riesco finalmente a guadagnare l'uscita. Con mio enorme stupore, scorgo Nichi Vendola davanti all'ascensore. Ha lo sguardo attonito rivolto verso l'inferno nella sala, poi di colpo si accorge della mia presenza.

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«Allora... allora io verrei direttamente al secondo turno, eh...» dice Vendola.
«Ma non dovresti usare metafore?» gli domando.
«Uh… la fuga è il bambino che per vedere il panda non si accontenta dello zoo offerto dalla civiltà tecnocratica, ma va direttamente in Cina forte e fiero del sudore che attraverso il sangue gli parla dei suoi avi e della sua terra, e allora il bambino capisce che quel sudore è bello, che quel sudore è la vita!»

Mi sveglio.

*Il mio avvocato (chissà perché) dice di insistere sul concetto  «il cliente afferma di aver raccontato un sogno realmente fatto, e ricorda che l'attività onirica non è punibile penalmente o civilmente».

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