Ucraina, due anni dopo l’invasione russa
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Non solo i cittadini ucraini, ma anche quelli dei paesi occidentali hanno un vivido ricordo di ciò che hanno fatto, o provato, il 24 febbraio 2022. Ovvero il giorno in cui gli ucraini venivano svegliati dalle bombe dell’esercito russo, e gli europei da un flusso incessante di notizie che ha dapprima generato empatia e paura, poi assuefazione, e subito dopo indifferenza.
Sono passati due anni da quando l’Ucraina e l’Europa hanno aperto gli occhi con la sensazione che le lancette del tempo fossero tornate a un’epoca che sembrava sepolta. L’invasione russa e i combattimenti si sono sedimentati lentamente come un’angosciante abitudine, una sezione della home page di un sito informativo, e negli ultimi mesi – complice il moltiplicarsi dei conflitti e delle tensioni a livello globale – nemmeno più quello. La guerra in Ucraina ha praticamente smesso di fare notizia.
Oggi, sempre più ucraini “rifiutano” di parlare di secondo anniversario, e piuttosto sono alla rincorsa di una data simbolica fra febbraio e marzo per evidenziare come il 2024 segni in realtà lo scoccare dei dieci anni: 3.650 giorni dalla prima fase dell’aggressione russa post-Maidan, scaturita nell’annessione illegale della Crimea e dal seguente conflitto ibrido in Donbas.
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Sebbene la definizione della cronologia del conflitto sia da indirizzare più agli scienziati politici che all’opinione pubblica o ai giornalisti stessi, è innegabile come la componente emotiva, sempre più carica d’odio e distanziamento dal passato, contribuisca a plasmare la realtà e le sue interpretazioni. Una minoranza crescente parla persino, non senza un certo fanatismo, di guerra pluricentenaria con Mosca – dimenticando come, al di là della repressione, molti ucraini abbiano convissuto ben volentieri con i russi, in forme più o meno coloniali, fino al 1991.
Un argomento a favore della separazione dei primi otto anni dagli ultimi due – sebbene il Donbas continui a rimanere la regione più martoriata – è il diverso impatto di queste due fasi. Ciò riguarda sia la dimensione globale - nell’interesse mediatico e nell’impegno politico nel sanzionare la Russia - sia quella locale, che ha prodotto milioni di rifugiati e ricollocati internamente, centinaia di migliaia di famiglie con almeno un lutto da piangere, oltre all’inevitabile radicalizzazione che ha seppellito ogni speranza di futura convivenza fra ucraini e russi.
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Se è facile ricordare il 24 febbraio di due anni fa, e addirittura toccare da vicino le sensazioni di quando ci si era appena resi conto di attraversare la Storia, sembrano molto più distanti i vari momenti cruciali di questa guerra.
Le colonne di mezzi russi nella periferia di Kyiv, i civili ucraini che tentano di fermare in ogni oblast’ gli invasori, l’occupazione e successiva liberazione di Kherson, i massacri di Bucha e Irpin’, l’assedio dell’Azovstal’ a Mariupol’, la controffensiva di Kharkiv, le logoranti trincee di Bakhmut, il Cremlino colpito dai droni, il tentato golpe di Prigozhin e la sensazione che il crollo del regime russo fosse dietro l’angolo. A ogni momento di questa guerra è corrisposto a una diversa lettura analitica di ciò che sarebbe da lì a poi seguito: previsioni, anche a breve termine, quasi sempre smentite dai fatti, poiché influenzate da logiche emozionali che hanno coinvolto tutti gli attori in gioco.
La convinzione e l’orgoglio ucraino dei primi mesi, che sembravano un preludio a un’imminente ritirata e sconfitta russa, si sono raffreddati con il colpo di reni del regime di Putin nell’estate scorsa. Dal tentato golpe di Prigozhin in poi, l’élite del Cremlino si è rinvigorita in seguito al lento fallimento della controffensiva ucraina e a una goffa incertezza degli alleati occidentali, Stati Uniti su tutti. È stata raggiunta una violenta ma stabile tenuta interna: arrestando i critici (sia contro che a favore della guerra, da Boris Kagarlickij a Strelkov) ed eliminando fisicamente gli oppositori (la scheggia impazzita Prigozhin e, lo scorso 16 febbraio, il principale nemico politico Aleksej Navalny).
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Al contrario, in Ucraina è subentrata una stanchezza e un pessimismo via via dilagante, e in modo paradossale stridente con il crescere esponenziale dell’odio verso l’invasore russo. In molti hanno dunque cominciato a prevedere scenari di una disfatta ucraina imminente, o per lo meno dell’ineluttabilità nel breve termine di colloqui di pace e conseguenti cessioni territoriali a Mosca. La macchina informativa del Cremlino ha da subito esasperato queste narrazioni all’estero e, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, anche in Ucraina.
Ma se c’è qualcosa che questi due anni ci hanno insegnato è l’illusorietà di ogni convinzione parziale e provvisoria. Pochi pensavano che Putin avrebbe invaso l’Ucraina nel 2022, e quasi nessuno pensava che quest’ultima avrebbe resistito. Nonostante il wishful thinking, nemmeno la Russia è crollata sotto il fuoco tiepido delle sanzioni occidentali, e si è anzi adattata lentamente a un keynesismo di guerra, come l’ha recentemente definito Josep Borrell, alto rappresentante dell'UE per gli affari esteri. La nuova tendenza mediatica si è così concentrata su un imminente crollo di Kyiv, con il beneplacito degli alleati occidentali. Andrà a finire così?
Cosa è successo negli ultimi mesi sul piano internazionale?
Un’altra immagine lontana nel tempo è quella di Zelensky in giacca e cravatta alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza del 19 febbraio 2022, mentre avvertiva senza successo ciò che da lì a poco sarebbe accaduto. Negli scorsi giorni, nella città bavarese il presidente ucraino è sembrato di nuovo inascoltato quando ha puntato il dito contro il “deficit artificiale” di munizioni che sta lentamente facendo arretrare le posizioni ucraine, come ad Avdiivka, mentre “i dittatori non vanno in vacanza”. Le parole del presidente ucraino hanno segnato la fine ufficiale dell’ottimismo incondizionato anche sul piano diplomatico. “Non chiedeteci quando l’Ucraina vincerà, ma chiedetevi perché Putin è ancora in grado di combattere”, ha detto Zelensky.
Il sottotesto è un chiaro riferimento all’impasse ormai onnipresente al Congresso statunitense, che tiene bloccati gli aiuti all’Ucraina dalla fine della scorsa estate. Come ha sottolineato Peter Baker sul New York Times, se l’anno scorso a Monaco la vicepresidente statunitense Kamala Harris garantiva il sostegno americano a Kyiv for as long as it takes, le parole di poche giorni fa – “io e il presidente Biden sosterremo l’Ucraina” – segnalano un cambio di paradigma nell’impegno statunitense.
Il sostegno all’alleato ucraino è diventato un tema di campagna elettorale. I democratici vorrebbero un logoramento russo senza pagare le responsabilità politiche di escalation, mentre i repubblicani da una parte hanno un vantaggio nell’accusare l’amministrazione Biden di aver concorso alla sconfitta dall’Ucraina, e dall’altra i rappresentanti del GOP più vicini a Trump non vedono il sostegno a Kyiv come una priorità della politica estera americana. Sebbene il Senato statunitense abbia fatto passare la legge, lo stesso risultato alla Camera dei rappresentanti appare incerto, e l’ottimismo dei democratici è sempre più sconnesso dalla realtà.
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I primi risultati dell’arretramento americano sono già visibili sul campo di battaglia. Come scrive Dan Sabbagh sul Guardian “secondo le stime attuali, la Russia spara 10.000 proiettili d'artiglieria al giorno contro i 2.000 dell'Ucraina, un rapporto desolante che potrebbe peggiorare ulteriormente in assenza di future donazioni di munizioni da parte degli Stati Uniti”.
Una delle poche notizie positive per l’esercito ucraino arriva dal presidente della Repubblica Ceca Petr Pavel. Alla conferenza di Monaco, Pavel ha lasciato intendere come Praga insieme ad altre cancellerie occidentali stia valutando un piano di approvvigionamento che vedrebbe coinvolte la Corea del Sud e persino alcuni paesi ‘non allineati’ nel conflitto russo-ucraino, come Turchia e Sudafrica.
Il principale problema per Kyiv è la lentezza del processo decisionale degli alleati. Dei jet F-16 si parla a livello ufficiale per lo meno dalla seconda metà del 2023, ma i primi arriveranno in Ucraina solamente nella prossima estate, mentre i contratti recentemente implementati dalla NATO per la produzione di munizioni saranno effettivi non prima del 2025. A questa condizione si sovrappongono le tensioni sociali derivanti dalla guerra in Ucraina anche nei principali alleati di Kyiv, come la Polonia, che da mesi prova a gestire la protesta degli agricoltori polacchi sul confine fra i due paesi.
Proprio alla luce delle numerose dimensioni problematiche in seno ai paesi europei, non era scontata la risolutezza con cui l’Unione Europea, negli ultimi mesi, ha parzialmente supplito alle conseguenze politiche del disinteressamento statunitense, aggirando pure l’ostacolo Orban. Dall’impulso morale dell’apertura delle trattative fra Bruxelles e Kyiv lo scorso dicembre, al piano da 50 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina approvato a inizio febbraio, l’impegno europeo si è fatto influenzare dalle campagne elettorali del 2024 in quota decisamente minore rispetto a Washington.
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La dimensione interna: il conflitto politico-militare e il crescente nazionalismo
Dopo mesi di incertezza e tensioni divenute impossibili da mascherare, lo scorso 8 febbraio il comandante delle Forze armate ucraine Valerij Zaluzhny è stato rimosso dal suo incarico dal presidente Zelensky. Una scelta che bolliva da tempo nell’establishment ucraino, procrastinata per via dello scetticismo dei partner occidentali e per le conseguenze sociali della decisione, e che ha infatti già portato a un prevedibile calo nei sondaggi nell’apprezzamento interno verso il presidente ucraino. Secondo il Guardian questo evento ha segnato il ritorno delle divisioni politiche sulla scena ucraina, i cui segnali erano in realtà ravvisabili già dalla scorsa estate.
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Al posto di Zaluzhny è stato nominato Oleksandr Syrskyi, considerato dagli analisti la scelta più scontata, e con un rapporto più vicino a Zelensky rispetto al predecessore. Syrskyi è un russo etnico nato nell’oblast’ di Vladimir, e trasferitosi a Kharkiv da adolescente. Il fratello Oleg tutt’oggi risiede in Russia, e a giudicare dai suoi post social, sostiene l’invasione all’Ucraina, così come la madre ottantaduenne dei due.
In seguito alla nomina del fratello a comandante delle Forze armate, Oleg è stato persino intervistato dalla TASS, l’agenzia di stampa ufficiale del Cremlino. I due non si parlano da anni (una situazione comune a milioni di ucraini e russi, i cui legami sono stati recisi dalla guerra), ma le origini di Syrskyi sono alla base del pessimismo di una quota di opinione pubblica ucraina radicalizzatasi nel nazionalismo e nella negazione di ogni legame passato con Mosca, e che costituisce lo zoccolo duro della popolarità di Zaluzhny (in ogni caso trasversale).
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Il giudizio sulle capacità militari di Syrskyi si divide. Secondo alcuni il 58enne è un generale di stampo sovietico e un “macellaio” responsabile del massacro dei soldati ucraini nell’inutile resistenza a Bakhmut contro la Wagner (così come nell’accerchiamento di Debaltseve nel 2015). Altri fanno riferimento al suo pragmatismo operativo, che è valso numerosi successi locali negli ultimi ventiquattro mesi, su tutti la sorprendente e rapida controffensiva di Kharkiv del settembre 2022, ma pure la difesa di Kiyv durante le prime settimane dell’invasione. In ogni caso, sarà inevitabile per Syrskyi scontrarsi da subito nei paragoni con il suo predecessore Zaluzhny, sebbene i cambiamenti logistici all’interno della struttura gerarchica delle ZSU siano appena iniziati.
La situazione militare: la ritirata di Avdiivka e le leggi di mobilitazione
La ritirata delle truppe ucraine da Avdiivka, nell’oblast’ di Donec’k, è stata la prima importante decisione presa da Syrskyi nel suo nuovo ruolo. Ancora prima del licenziamento di Zaluzhny era chiaro come la situazione nella cittadina fosse “critica e caotica”, scriveva il sito analitico ucraino Deep State. Lo scorso 17 febbraio Syrskyi ha ordinato la ritirata “al fine di evitare l’accerchiamento e preservare la vita e la salute dei soldati”.
Secondo diverse investigazioni e materiale open-source sui social media, tuttavia, l’evacuazione è stata tutt’altro che lineare. Alcuni reparti sono rimasti indietro nella ritirata, consegnando diversi prigionieri ucraini nelle mani dei russi. Alcuni di essi sono stati uccisi dai militari del Cremlino nonostante fossero in quel momento inoffensivi e potenzialmente utilizzabili in uno scambio: l’ennesimo crimine di guerra russo verso almeno cinque soldati, tre dei quali sono stati identificati dalle rispettive famiglie attraverso frammenti audiovisivi pubblicati dai russi sui propri canali Telegram.
La città, un agglomerato suburbano nella periferia di Donec’k che prima della guerra contava circa 30.000 abitanti, è assediata dai russi sin dallo scorso autunno. Uno scenario che ha ricordato quello dell’inverno 2022-23 a Bakhmut, con la differenza che le truppe ucraine oggi sono più a corto di munizioni, di energie e di uomini. Criticato aspramente per le decisioni a Bakhmut, Syrskyi ha adottato un approccio opposto per Avdiivka.
Zelensky ha dichiarato che per ogni morto ucraino ad Avdiivka ce ne sono stati sette russi: una statistica, ovviamente, impossibile da verificare. In ogni caso, il problema degli uomini è più che mai attuale in Ucraina. A dicembre, Zelensky ha tentato di scaricare su Zaluzhny, cioè sui vertici dell’esercito, le responsabilità della necessità di arruolare “circa 500 mila soldati”. Da allora sono partite le consultazioni per un inasprimento delle leggi di mobilitazione, alla ricerca di un difficile equilibrio fra necessità militari ed esigenze di preservare il fragile tessuto economico interno. La legge, che abbasserà il limite minimo d’età dei coscritti da 27 a 25 anni e rafforzerà le sanzioni per i renitenti, è stata approvata in prima lettura a febbraio e secondo alcuni parlamentari ucraini entrerà in vigore ufficialmente a marzo.
Un altro aspetto fortemente discusso del progetto di legge è quello per cui è fissato a 36 mesi il periodo di tempo entro cui i soldati già arruolati possono rimanere al fronte: un anno a partire da oggi. I richiami a “dare un cambio” ai soldati esausti in trincea vanno di pari passo al dibattito sulla mobilitazione generale. Ancor di più che la resistenza ucraina si basa su soldati la cui età media supera i quarant’anni, piuttosto che sui ventenni: quasi un unicum nella storia militare recente.
Ciò è legato a un doppio problema demografico: la bassa quota di ventenni ucraini rispetto alla popolazione generale, dovuta alla bassa natalità durante la crisi degli anni ’90 e alla selvaggia emigrazione conseguente, così come la necessità di preservare questa fascia di giovani per fronteggiare una crisi demografica ben antecedente alla guerra, ma aggravatasi tragicamente dopo il 2022. Il messaggio che ne esce, secondo alcuni, è però quello per cui uomini più anziani siano più “spendibili” in battaglia, rispetto ai giovani. E ciò, unito all’onnipresente dimensione della diseguaglianza economica, non fa altro che rafforzare le forze centrifughe che hanno lentamente eroso l’unità dei primi mesi dell’invasione.
Quali prospettive nel futuro?
Dopo 730 giorni di invasione e bombardamenti senza sosta, i problemi e le sfide all’ordine del giorno non mancano per Kyiv. L’immagine per cui l’Ucraina è prossima alla resa è tuttavia parziale. Dal punto di vista militare, gli ucraini stanno continuando a infliggere danni pesanti e impensabili a inizio conflitto, come alla flotta russa del Mar Nero. Da quello politico, l’avvicinamento all’Unione Europea è ormai irreversibile.
Contro la maggioranza dei pronostici, i soldati russi hanno effettivamente dimostrato forti capacità di adattamento in corso d’opera. In ogni caso, seppur i dati indipendenti arrivino sempre con forte ritardo, la carneficina dei soldati di Mosca continua. In sordina, rispetto alle perdite ucraine, proprio perché Putin e l’élite russa non hanno un’opinione pubblica a cui dover rendere conto. La coesione interna è stata raggiunta rafforzando la repressione e l’apatia sociale, una strategia impossibile da implementare integralmente nella società ucraina. Mentre anche sul fronte degli armamenti, la recente notizia dei circa 400 missili balistici forniti dall’Iran alla Russia mostra come anche la catena dei rifornimenti di Putin non abbia i limiti con cui deve fare i conti l’Ucraina.
In un momento di vantaggio, Putin segnala di essere “pronto per il dialogo con l’Ucraina”, subito sorpassato dal vice Dmitry Medvedev che ha minacciato attacchi nucleari “verso Kyiv, Berlino, Londra e Washington” nel caso in cui Ucraina e Russia dovessero tornare ai confini internazionalmente riconosciuti nel 1991. Un’apertura al dialogo, insomma, che funge da puro artificio retorico per influenzare l’opinione pubblica. Così come i recenti richiami rispetto a un’occasione perduta da parte ucraina di raggiungere una pace vantaggiosa a Istanbul nel marzo 2022, ripresi in Ucraina dall’ex consigliere presidenziale Oleksij Arestovich.
I risultati dell’invasione sono, ad ora, crudi e incerti numeri. Migliaia di morti fra i civili, centinaia di migliaia fra i soldati. Quattro milioni di rifugiati interni e sei milioni di rifugiati fuori dal paese, che potrebbero aumentare a dieci nel caso l’Ucraina perdesse la guerra, secondo fonti tedesche. Città rase al suolo, danni ambientali, circa ventimila bambini deportati in territorio russo; quest’ultimi valsi a Putin lo status di ricercato internazionale.
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Senza cadere nel disfattismo ma piuttosto superando il cieco e controproducente ottimismo fideistico, l’Ucraina e i suoi alleati al terzo anno di guerra devono “trarre le lezioni dei primi due”, come scrive Eugene Remer per Carnegie: il 2023 è trascorso lasciando alle spalle le sue illusioni, il 2024 segnerà la “difesa attiva” da parte ucraina, nella speranza di avere mezzi e uomini per una nuova offensiva nel 2025. Il comandante di una divisione ucraina ha raccontato all’Ukrainska Pravda che se nel primo anno di guerra i militari erano percepiti come un’isola di sicurezza, oggi sono temuti per le strade ucraine: la paura dei civili è quella di essere spediti al fronte in un carnaio senza prospettive di risoluzione.
L’Ucraina ha bisogno di un nuovo dialogo aperto e il rinnovamento del proprio contratto sociale fra autorità, civili e soldati, al fine di capire qual è la direzione attuale della resistenza all’invasione e quali sono i risultati attesi, non solamente territoriali. Ancor di più, questo confronto è necessario fra Kyiv e i suoi principali alleati, poiché il coordinamento sulle risorse e sugli scenari è precondizione per qualsiasi accenno di trattativa futura, così come per il superamento dell’ora più buia.
Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Claudia Bettiol (corrispondente dall'Ucraina per Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), Andrea Braschayko (giornalista tra gli autori del libro 'Ucraina. Alle radici della guerra', Maria Chiara Franceschelli (Scuola Normale Superiore di Pisa, co-autrice, con il professor Federico Varese, del saggio 'La Russia che si ribella'), Giovanni Savino (storico, si occupa di Russia e nazionalismi nell’età contemporanea presso l'Università Federico II di Napoli) interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell’evento “Russia e Ucraina due anni dopo”.
Immagine in anteprima: Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante la sua visita a Bucha nell'aprile 2022, Public Domain, Rawpixel