Le ricadute dell’invasione russa in Ucraina mettono a rischio gli obiettivi climatici
10 min letturaIl round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Man mano che l'invasione in Ucraina va avanti crescono i timori che i governi possano procrastinare le azioni necessarie contro il riscaldamento globale, nonostante anche l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) abbia detto che le soluzioni sono ormai chiare ma il nostro sistema è in ritardo. Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce alla natura e di disuguaglianza sociale e può essere fonte di ulteriori conflitti nel mondo per l’accesso a risorse sempre più carenti, come nel caso dell’acqua.
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Un nuovo studio, pubblicato la scorsa settimana su Nature Climate Change, ha documentato che vaste aree (circa il 75%) dell’Europa settentrionale e della Siberia occidentale potrebbero diventare “climaticamente inadatte” per le torbiere del permafrost entro pochi decenni, anche con livelli moderati di riscaldamento globale. Le torbiere del permafrost in Europa si estendono per oltre 1,4 milioni di chilometri quadrati e stoccano circa 40 miliardi di tonnellate di carbonio, circa il doppio di quanto viene immagazzinato nelle foreste europee.
“Le ricadute dell’invasione russa in Ucraina rischiano di sconvolgere i mercati alimentari ed energetici globali, con importanti implicazioni per l’agenda climatica globale”, ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres durante un incontro sulla sostenibilità organizzato dall’Economist. Se le principali economie seguiranno la strategia di sostituire il petrolio e il gas russi “a qualunque costo”, è concreto il rischio di restare dipendenti a lungo termine dai combustibili fossili e di rendere irraggiungibili gli obiettivi globali sul clima, è la sintesi del pensiero di Guterres. “I paesi potrebbero essere così presi dall'esigenza di dover colmare l’approvvigionamento di combustibili fossili da trascurare o azzoppare le politiche di transizione verso fonti di energia pulita. Questa è una follia. La dipendenza dai combustibili fossili è una distruzione reciprocamente assicurata. I paesi devono accelerare l’eliminazione graduale del carbone e di tutti i combustibili fossili e attuare una transizione energetica rapida e sostenibile. È l’unico vero percorso verso la sicurezza energetica”.
In the face of the emerging global energy crisis set off by Russia’s invasion of Ukraine, our new 10 Point Plan to Cut Oil Use proposes actions to
➡️ ease market strains
➡️ reduce the price pain being felt by consumers
➡️ lessen the economic damageMore: https://t.co/N5PGzJLbnS pic.twitter.com/K2dTpf0BRv
— Fatih Birol (@fbirol) March 18, 2022
La soluzione, come affermato dalla Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) una decina di giorni fa, è una maggiore efficienza energetica e l'accelerazione della transizione energetica attraverso l’espansione delle energie rinnovabili e l’aumento della produzione delle fonti a basse emissioni esistenti, come bioenergia e nucleare. In questa direzione va anche REPowerEU, il piano della Commissione Europea per ridurre la dipendenza dal gas russo, ma i segnali che giungono dai diversi paesi sembrano discordanti, come sottolinea un articolo di Wired dal titolo: “La minaccia del ritorno del carbone mentre l’UE si allontana dalle fonti fossili russe”. Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania, Italia e Germania hanno indicato che potrebbero bruciare più carbone a breve termine in risposta all’invasione russa in Ucraina, riporta Climate Change News.
"La ricerca della sicurezza energetica non può però diventare panico energetico – scrive Ferdinando Cotugno nella sua newsletter Areale – perché quel panico, cioè lo smantellamento di valori e priorità in nome dell’emergenza, non solo ci fa perdere anni preziosi (e sono pochi quelli che abbiamo per intervenire) ma è anche qualcosa che il mondo delle fonti fossili sembra ben felice di poter sfruttare".
Molte compagnie – spiega Fiona Harvey sul Guardian – stanno usando l'aumento dei prezzi e il timore della carenza di carburante da parte degli Stati per consolidare la loro posizione con i governi in modi che potrebbero avere impatti disastrosi sulla crisi climatica. Le grandi compagnie petrolifere e del gas sono ora inondate di denaro, che potrebbero utilizzare per investire per pompare di più dai giacimenti esistenti ed esplorare nuovi giacimenti. Saudi Aramco, il più grande esportatore di petrolio del mondo, si è impegnata ad aumentare la spesa per la produzione di petrolio, scrive il Financial Times.
In seno all’Unione Europea uno dei punti su cui c’è maggiore disaccordo è la proposta di addebitare ai fornitori di carburante la CO2 emessa dalle automobili e per il riscaldamento degli edifici. Belgio, Romania, Repubblica Ceca, Spagna, Slovacchia e Slovenia hanno espresso perplessità sull’introduzione di questa misura che, a loro avviso, potrebbe ricadere principalmente sulle spalle dei cittadini, a favore si sono schierati paesi come Svezia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Austria, mentre si sono palesemente opposte Ungheria e Polonia.
In questo scenario politico ed energetico, alcuni Stati stanno cercando di trovare nuove strade per rendersi indipendenti dal gas russo. Proprio la Polonia (il 55% dei suoi 21 miliardi di metri cubi di gas arriva dalla Russia) ha affermato di aver costruito un gasdotto nel Baltico con la Norvegia, di voler realizzare nel porto baltico di Świnoujście un terminale di gas naturale liquefatto (GNL) fornito da società del Qatar e degli Stati Uniti, e mettere in funzione la sua prima centrale nucleare entro il 2033. Sempre al nucleare guarda il Belgio che ha rinviato di dieci anni la chiusura delle sue centrali prevista per il 2025, mentre in Finlandia è stata inaugurata, con diversi anni di ritardo rispetto al progetto iniziale, la centrale nucleare Olkiluoto 3, la prima in Europa dopo 15 anni.
In Francia, in vista delle elezioni presidenziali del 10 aprile, il presidente uscente Emmanuel Macron ha annunciato che, se rieletto, “taglierà la dipendenza dall’energia straniera e dai combustibili fossili”, nazionalizzando completamente EDF, il gigante dell'elettricità che “sta per costruire fino a 14 reattori nucleari”, scrive il Times. Inoltre, il primo ministro francese Jean Castex ha dichiarato in una conferenza stampa che la Francia aumenterà le sue importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) e, secondo Reuters, l’autorizzazione di ulteriori esportazioni di GNL approvate dall’amministrazione Biden negli Stati Uniti vanno interpretati come una mossa per svincolare più facilmente i paesi europei dal gas e dal petrolio russo.
Anche la Germania guarda alla Norvegia, riporta Der Spiegel. Il ministro dell'Economia, Robert Habeck, ha dichiarato durante una visita a Oslo con il primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre di voler prendere in considerazione l’importazione di GNL dal paese scandinavo prima di passare nel minor tempo possibile a utilizzare l’idrogeno proveniente sempre dalla Norvegia. Inoltre, aggiunge DW, la Germania ha concordato una partnership energetica duratura con il Qatar, terzo esportatore al mondo di GNL. "Quest'anno potremmo ancora aver bisogno del gas russo, ma in futuro non sarà più così. E questo è solo l'inizio", ha commentato Habeck. Intanto, secondo le nuove statistiche pubblicate dall'Ufficio federale di statistica, nel 2021 la maggior parte dell'elettricità (il 58%) immessa nella rete elettrica tedesca nel 2021 è provenuta da fonti energetiche “convenzionali” (il 12% in più rispetto al 2020), come carbone, gas o energia nucleare, mentre l’offerta da fonti rinnovabili è diminuita di quasi l'8%.
In Turchia, invece, il regolatore energetico turco EDPK “offrirà protezione contro l’aumento dei prezzi del carbone”. La Bulgaria sta pianificando un nuovo gasdotto verso la Grecia, svincolandosi per la prima volta dai combustibili fossili russi, mentre Climate Home News riferisce che la Russia ha affermato che le sanzioni internazionali le impediranno di raggiungere i suoi obiettivi climatici.
Nel frattempo, il ministro dell’Industria del Giappone ha annunciato che, per far fronte ai contraccolpi dell’invasione russa in Ucraina, il governo accelererà lo sviluppo di progetti di energia eolica offshore. Mentre, il rappresentante permanente della Cina presso le Nazioni Unite, Zhang Jun – riporta l’agenzia di stampa statale Xinhua – ha auspicato “il rafforzamento di una cooperazione globale tra Cina e UE per affrontare il cambiamento climatico, preservare la biodiversità e realizzare con successo la seconda parte della COP15 (la Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità)”.
Il cambiamento climatico può intensificare i rischi di conflitti per l’acqua
Il cambiamento climatico può intensificare i rischi di conflitti per l’accesso all’acqua. È quanto emerge da un lavoro del Pacific Institute, un gruppo di ricerca con sede a Oakland, che ha pubblicato la Water Conflict Chronology, una timeline delle guerre innescate per l’acqua.
Un pianeta più caldo rende i luoghi già colpiti dalla siccità sempre più aridi, rendendo l’acqua una risorsa sempre più scarsa per il cui accesso concorrono sempre più persone, spiega al New York Times Peter Gleick, presidente emerito del Pacific Institute, che da decenni studia le guerre per l'acqua.
A livello globale, le precipitazioni medie hanno raggiunto nuovi minimi storici negli ultimi tre decenni, riporta l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che nel rapporto del 2022 ha riaffermato quanto già scriveva nel 2014, e cioè che la sicurezza umana sarà progressivamente minacciata con l'aumento delle temperature e potrebbero aumentare le tensioni e le guerre per l'accesso alle risorse.
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I conflitti per l’acqua sono notevolmente aumentati negli ultimi 20 anni, rileva lo studio del Pacific Institute. A essere colpiti sono quei paesi già esposti ai cambiamenti climatici e interessati da conflitti o transizioni postbelliche, o che stanno lottando per far fronte all’impatto di una popolazione giovanile in crescita, prezzi del petrolio volatili, ricadute della pandemia e una governance debole. Dal 2000, specifica Gleick, un quarto dei conflitti innescati dall'accesso all'acqua si è verificato in tre aree in particolare, caratterizzate dalla carenza di risorse idriche e colpite dal riscaldamento globale: il Medio Oriente, l'Asia meridionale e l'Africa subsahariana. Agricoltori e pastori si sono scontrati in Africa, in Iran sono scoppiate proteste antigovernative, mentre la condivisione dell'acqua ha lacerato diversi Stati dell'ex Unione Sovietica dell'Asia centrale che si trovano a cavallo del fiume Amu Darya. Nel 2018 scontri tra gruppi rivali hanno distrutto i serbatoi d'acqua di un ospedale vicino alla città di Hodeidah, nello Yemen. Nel 2019 Al Shabab, un gruppo estremista, ha fatto saltare in aria un serbatoio d'acqua in Somalia.
Secondo una stima della Nazioni Unite, 19 paesi africani – in particolare Ciad, Niger e Somalia – si trovano in una condizione di insicurezza idrica. In Medio Oriente, riporta il World Resources Institute, ci sono 12 dei 17 paesi più “stressati dall'acqua” del mondo. La Banca mondiale stima che la scarsità d'acqua legata al clima costerà alle nazioni del Medio Oriente tra il 6% e il 14% del loro PIL entro il 2050, a causa degli impatti su agricoltura, salute e reddito.
Diversi gruppi umanitari hanno avvertito che oltre 12 milioni di persone in Iraq e Siria stanno perdendo l'accesso ad acqua, cibo ed elettricità a causa dell'aumento delle temperature e delle scarse precipitazioni. La desertificazione sta avanzando in Iraq, Siria, Giordania e Iran. Gli Emirati Arabi Uniti hanno il più alto consumo pro capite di acqua al mondo, ma rischiano di esaurire le proprie risorse di acqua dolce nei prossimi 50 anni a causa della crescita demografica e del maggiore utilizzo di acqua domestica. Il costo dell'acqua in Giordania è aumentato del 30% negli ultimi dieci anni a causa della mancanza di falde freatiche.
Le falde acquifere sono il tema della campagna “Groundwater: Making the invisible visible”, lanciata il 22 marzo in occasione della Giornata internazionale dell’acqua 2022 da Unesco e Igrac (International Groundwater Resourcer Assessment Center). “Le acque sotterranee sono una risorsa vitale che fornisce quasi la metà di tutta l'acqua potabile nel mondo, circa il 40% dell'acqua per l'agricoltura irrigua e circa 1/3 dell'acqua necessaria per l'industria. Sostengono gli ecosistemi, mantengono il flusso di base dei fiumi e prevengono il cedimento del suolo e l'intrusione di acqua di mare. Le acque sotterranee sono una parte importante del processo di adattamento ai cambiamenti climatici ed è spesso una soluzione per le persone che non hanno accesso all'acqua potabile”, si legge nel lancio della campagna. Tuttavia, nonostante la loro importanza, “le attività umane (inclusa la crescita demografica ed economica) e la variabilità climatica stanno aumentando rapidamente la pressione sulle risorse idriche sotterranee: gravi problemi di esaurimento e inquinamento sono segnalati in molte parti del mondo”. E la loro gestione, in particolare nel caso delle falde acquifere transfrontaliere, situate tra due o più Stati, è alla base di tensioni e conflitti, come spiega in un’intervista su Change-Makers Magazine Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory. “Esistono direttive e raccomandazioni, ma quello che manca è una normativa vincolante che obblighi gli Stati a rinunciare alla sovranità territoriale assoluta sull’acqua”, conclude Iannelli.
In un contesto del genere i cambiamenti climatici potrebbero innescare un effetto domino, scrive Ranj Alaaldin su Brookings, approfondendo le fratture socioeconomiche esistenti, erodendo la fiducia nelle istituzioni pubbliche e costringendo le persone a migrare verso paesi e città densamente popolati, creando le condizioni per ulteriori conflitti. Se non si metterà il cambiamento climatico in cima alle agende nazionali, la situazione non potrà far altro che peggiorare, conclude l’articolo di Brookings.
Cile, il nuovo presidente Gabriel Boric firma l’importante trattato ambientale di Escazù
Il nuovo presidente cileno Gabriel Boric ha firmato l'accordo di Escazù delle Nazioni Unite, ribaltando completamente le politiche in materia ambientale del governo precedente.
Siglato nel 2018 da Argentina, Antigua y Barbuda, Brasile, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Guyana, Messico, Panama, Perú, Santa Lucia e Uruguay, l’Accordo di Escazú “rappresenta il primo trattato vincolante in materia di protezione del diritto a ricevere informazioni, partecipazione delle comunità e accesso alla giustizia su questioni ambientali. Contiene inoltre precise disposizioni a tutela dei difensori del diritto all’ambiente”, scrive Amnesty International. L'accordo mira a contribuire “alla tutela del diritto di ogni persona, delle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente sano e allo sviluppo sostenibile”.
Il Cile, primo produttore di rame al mondo, aveva inizialmente promosso l'accordo, ma si era poi rifiutato di firmarlo per timore di cause legali. L'accesso alle informazioni ambientali è potenzialmente importante in paesi come il Cile, dove sono state sollevate questioni sull'uso dell'acqua da parte delle aziende di rame e litio e sull'effetto dell'estrazione mineraria sui ghiacciai.
“Questo accordo rappresenta una pietra miliare sulla strada per un nuovo rapporto tra lo Stato e i suoi abitanti in materia ambientale”, ha detto Boric durante la cerimonia di sottoscrizione. La decisione dovrà essere approvata ora dal Congresso.
“Stiamo affrontando la peggiore crisi ecologica della storia e dobbiamo affrontarla insieme. Non avremo successo da soli”, ha aggiunto la ministra dell'Ambiente cilena, la climatologa Maisa Rojas. “Il primo e unico trattato ambientale in America Latina e nei Caraibi è uno strumento potente per il cambiamento che desideriamo”.
Transizione ecologica, pronti bandi per 10 miliardi
Il ministero della Transizione Ecologica è pronto a lanciare sette bandi per quasi 10 miliardi di euro. Gran parte dei fondi (3,61 miliardi) verrà destinata per il rafforzamento delle smart grid, ovvero reti intelligenti di informazione e distribuzione di energia elettrica. Il bando riguarderà le imprese.
Altri 2,2 miliardi verranno investiti per la promozione delle rinnovabili per le comunità energetiche e l’autoconsumo. Il bando è ad amministrazioni pubbliche, imprese e soggetti privati nei Comuni con meno di 5mila abitanti. 1,92 miliardi di euro sono previsti per il bando legato allo sviluppo del biometano (che riguarderà le imprese).
I restanti bandi, per un valore di poco più di 2 miliardi, sono invece distribuiti tra sviluppo dell’agrovoltaico (1,1 miliardi per le imprese), interventi sulla resilienza climatica delle reti (500 milioni per le imprese), sviluppo di sistemi di teleriscaldamento (200 milioni per le imprese) e tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano (330 milioni per le 14 città metropolitane).
Immagine in anteprima via weforum.org