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Nuovi studi smentiscono il panico generalizzato sull’uso di Internet e dello smartphone

18 Maggio 2024 11 min lettura

Nuovi studi smentiscono il panico generalizzato sull’uso di Internet e dello smartphone

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Ogni studio scientifico in ambito psicologico non è definitivo e contiene limiti che possono essere migliorati da altri studi successivi ma se è rigoroso e trasparente nei metodi e solido nei risultati e nei modelli aggiunge un contributo di valore alla conoscenza scientifica e ne definisce nuove direzioni. Quello che si attendeva negli ultimi anni era un cambiamento di paradigma che permettesse di superare l’avvitamento di una larga parte della ricerca psicologica e neuroscientifica sulla denuncia dei mali delle nuove tecnologie per l’umanità.

Difatti, col favore dell’ampio risalto ricevuto nella narrazione mediatica dominante, molte ricercatrici e molti ricercatori hanno scelto di abbandonare i toni cauti e asciutti della descrizione scientifica per appropriarsi del registro linguistico apocalittico proprio di una fazione politica ultraconservatrice. Questa acclamazione pubblica ne ha poi ulteriormente plasmato le ricerche successive orientandole a trovare rapporti auto-confermativi più che a soppesare le complesse variabili da analizzare e la validità delle misure usate. Inevitabilmente, le conoscenze scientifiche sugli effetti psicologici delle nuove tecnologie sono rimaste in stallo, le metodologie sono state sacrificate e la popolazione generale è stata sempre più confusa e spaventata.

"Ciò che ci rimane è un quadro confuso: ci viene detto che qualcosa sta andando storto quando si tratta di salute mentale (il che è spaventoso!), e che ha a che fare con gli smartphone. O forse i social. O forse gli iPhone in particolare. O forse il tempo trascorso davanti allo schermo in generale. Questo livello di offuscamento involontario e di incertezza rende un vero disservizio a quelli di noi che nutrono ansie molto reali riguardo alla tecnologia digitale", ha scritto lo psicologo Pete Etchells nel libro Unlocked: the real science of screen time and how to spend it better (2024).

Nel contempo, l’informazione giornalistica sugli effetti di Internet (e analogamente di smartphone e social media) è rimasta viziata anche per la scarna o mancante copertura riservata a quegli studi scientifici non rientranti nella narrazione di 'Internet come pericolo per l'umanità'. Questo sbilanciamento informativo aggiunge ulteriori paure e confusione alla comunità generale e lascia nell'ombra il lavoro di ricerca più rigoroso e interessante.

Alcune recenti pubblicazioni contribuiscono, tuttavia, a cambiare il paradigma di ricerca sugli effetti psicologici delle nuove tecnologie e a migliorare le conoscenze scientifiche attuali fornendo dati sperimentali e modelli teorici di riferimento.

Nello specifico, due diversi lavori sono stati sviluppati e condotti per rispondere alle seguenti domande: 

  • È vero che se usiamo Internet stiamo male?
  • Cosa sappiamo di come i social media sono usati dagli adolescenti?

È vero che se usiamo Internet stiamo male?

In questi giorni, dopo aver anticipato i risultati in un preprint alla fine del 2023 e il tempo richiesto dalla necessaria revisione tra pari, Matti Vuorre dell’Università di Tilburg in Olanda e Andrew K. Przybylski dell’Università di Oxford nel Regno Unito hanno annunciato la pubblicazione sulla rivista Technology, Mind, and Behavior dell’American Psychological Association di uno studio enorme relativo agli effetti di Internet sul benessere delle persone, dal titolo “A multiverse analysis of the associations between Internet use and well-being”.

Lo studio ha ricevuto finora un’ampia copertura sulla stampa inglese (ad esempio, Nature, BBC, Guardian), mentre è passato pressoché inosservato su quella italiana e questa non è una buona notizia.

Vuorre e Przybylski sono due ricercatori noti nella comunità scientifica per il loro impegno nel promuovere l’integrità, la riproducibilità delle ricerche, l’accesso aperto ai risultati e per il contrasto al panico morale verso Internet e le tecnologie digitali.

Lo studio in questione è enorme perché si basa sui dati di poco meno di due milioni e mezzo (2.434.203) di soggetti di età compresa tra 15 e 89 anni, raccolti in 168 paesi dal 2005 al 2022. Facendo riferimento ai dati nazionali sull'adozione di Internet e di smartphone nella popolazione e alle indagini nazionali sul benessere delle persone rilevati dall’istituto statunitense per le ricerche statistiche Gallup, gli autori smentiscono il panico generalizzato sull’uso di Internet e dello smartphone che è stato alimentato negli ultimi anni su basi inconsistenti quando non addirittura artefatte.

In particolare, i dati ottenuti annualmente su otto misure di benessere derivano dalle interviste telefoniche o di persona in campioni rappresentativi di almeno 1.000 persone con età uguale o superiore a 15 anni, di cui il 53,1% donne, ottenute dal Gallup World Poll nei 168 paesi attraverso tutti i continenti.

Quindi questi dati non si riferiscono solo alla popolazione nord-occidentale né solo ai giovani, come avviene per la stragrande maggioranza degli studi condotti sul tema negli ultimi anni. Sono risultati che hanno una valenza globale e si fermano a un’osservazione molto generale dei fenomeni.

Attraverso diverse analisi statistiche e un modello multiverso, che permette di stabilire se, cambiando le combinazioni e i pesi tra le variabili considerate, si ottengono risultati diversi, i due ricercatori hanno osservato la coerenza dei cambiamenti individuali nel tempo per le variabili utilizzate: l’accesso a Internet o allo smartphone e il benessere delle singole persone nell’ultima settimana. Si tratta quindi di uno studio osservazionale che monitora l’andamento dei fenomeni e non di uno studio causale che produce cambiamenti in alcuni fenomeni per rivelarne gli effetti, che richiederebbe un diverso disegno sperimentale e tempi più lunghi di osservazione.

Le interpretazioni caute di Vuorre e Przybylski hanno portato alla conclusione che:

“In tutti i paesi e per tutti i dati demografici, le persone che avevano accesso a Internet, accesso a uno smartphone o che utilizzavano attivamente Internet riportavano maggiori livelli di soddisfazione di vita, esperienze positive, senso di scopo e benessere fisico, comunitario e sociale, e livelli più bassi di esperienze negative”

In particolare, le persone che avevano riferito di avere usato Internet negli ultimi sette giorni riportavano punteggi leggermente più alti nella soddisfazione per la propria vita, nelle esperienze positive e nella soddisfazione sociale e punteggi leggermente più bassi nelle esperienze negative rispetto a chi non aveva usato o avuto accesso a Internet. Tali dati erano coerenti nell’andamento delle differenze medie nei diversi paesi. Pertanto, chi aveva usato Internet riferiva di trovarsi in una condizione di benessere significativamente maggiore rispetto alle persone che non l’avevano usata, in America del Sud così come in Africa o in Asia e Europa

Tale risultato si è mantenuto costante per le diverse fasce di età e per genere, ad eccezione delle donne con età compresa tra 15 e 24 anni che, se avevano usato Internet nell’ultima settimana, riferivano, in media, di essere meno soddisfatte del luogo in cui si trovano a vivere.

Si tratta di un risultato indicativo e da approfondire con studi dedicati e che potrebbe anche derivare dal fatto che non provando soddisfazione per la vita nella propria comunità, le donne giovani tendono a trascorrere più tempo online.

Questa interpretazione rende chiara la bidirezionalità che possono avere i risultati di questi studi trasversali e non longitudinali: un maggiore utilizzo di Internet può associarsi a un aumentato benessere e viceversa oppure, in specifici sottogruppi, un minore benessere percepito nella comunità può portare a stare di più su Internet.

Per comprendere meglio se sia il benessere individuale a modulare l’uso di Internet o se l’uso di Internet agisca sul benessere sono necessari studi longitudinali con campioni di soggetti ampi e diversificati che portino ad approfondire i contesti, perché, come avvertono gli autori, le associazioni osservate possono riflettere molteplici altri fattori, come lo stato socioeconomico e i livelli di disuguaglianza, che incidono sia sul benessere che sull’accesso a Internet. Tali fattori sono stati inseriti per correggere il modello statistico come covariate ma possono comunque avere un ruolo se ulteriormente approfonditi. Inoltre, per la misura del benessere gli autori si sono riferiti alle domande previste dal questionario Gallup, consapevoli che possono essere utilizzati altri strumenti e misure non autoriferite.

“Per superare queste limitazioni”, affermano Vuorre e Przybylski, “riteniamo che la soluzione migliore per questo campo sia spendere più risorse nella raccolta di insiemi di dati longitudinali più ampi e rappresentativi che includano misurazioni convalidate dei costrutti che interessano i ricercatori”, e concludono con l’informazione incoraggiante che “in molti paesi vaste indagini basate su coorti tengono già traccia degli stati psicologici degli individui nel tempo”. Questi dati incrociati con quelli forniti dalle piattaforme apriranno nuovi scenari sulla vita e i comportamenti delle persone ai tempi di Internet e delle sue continue evoluzioni.

Nonostante i limiti, esaustivamente esposti dagli autori, questo studio dimostra che le persone che usano Internet, indipendentemente dal paese in cui abitano, riferiscono un maggiore benessere rispetto alle persone che non usano Internet. 

Le implicazioni di tali risultati sono notevoli perché vanno a intaccare la visione patologizzante della fruizione di Internet. Non si esclude un uso problematico in alcune persone ma è tempo di rinunciare a generalizzazioni vuote che non contribuiscono alla conoscenza scientifica né a stilare raccomandazioni informate e pensate nell'esclusivo interesse della comunità.

Appurato che Internet, in generale, non fa male alla salute, la ricerca può procedere in direzioni più fruttuose. Difatti, gli sviluppi successivi dovranno aiutare a comprendere i meccanismi che intrecciano contenuti, persone e interazioni durante le diverse modalità di navigazione nello spazio digitale.

A tal fine occorrono dei modelli teorici per definire operazionalmente i fattori implicati e gli strumenti di osservazione e di analisi. Un lavoro rilevante lungo questa linea è quello che ha provato a rispondere alla seconda domanda.

Cosa sappiamo di come i social media sono usati dagli adolescenti?

Sappiamo che finora lo studio dell'impatto dei social media sulla salute mentale di ragazzi e ragazze è stato per lo più banalizzato per servire la narrazione allarmistica verso le nuove tecnologie. Abbiamo imparato a scoprire che il tema è troppo complesso per ridurlo alle associazioni di poche variabili che - per quanto immediatamente seduttive - risultano insufficienti se davvero vogliamo comprendere i meccanismi sottostanti.

Non possiamo più accontentarci della generalizzazione che, ad esempio, Instagram faccia male alla salute (come accaduto per Internet), occorre sapere a chi, come, quando. Il tempo di esposizione (a Internet, agli schermi o ai social, secondo declinazioni ormai stantie) si è rivelato una variabile del tutto insufficiente a misurare i diversi fattori alla base delle interazioni nello spazio digitale che si articolano su diversi livelli (individuale, sociale, digitale). Viziato dall'ipotesi che l'impatto dei social media fosse dose-dipendente (come l'uso di una tossina), il tempo di esposizione ha catturato attenzioni, fondi di ricerca e clamore senza portare di fatto a nuove conoscenze.

Cumuli di articoli giacciono nello spazio digitale a ricordarci le risorse disperse in questa originaria e prolungata distorsione e questo si ripete perché "lo studio di una nuova tecnologia garantisce finanziamenti, importanza sociale e attenzione pubblica" che aiutano più a costruire una carriera che a fare buona scienza, scriveva Amy Orben già nel 2020.

Continuare su questa linea non va a vantaggio della conoscenza scientifica e delle raccomandazioni generali e a gruppi vulnerabili (sulle modalità d'uso, sulla progettazione, ecc.). Diventa sempre più chiaro che raccomandare di vietare l'uso è ingenuo e controproducente, così come è azzardato parlare di "dipendenza" e "assuefazione", soprattutto per chi fa ricerca e clinica e sarebbe tenuto a una comunicazione responsabile. 

Vietare smartphone e social media ai più giovani è una misura ingenua e controproducente

Se vogliamo osservare con onestà intellettuale la complessità delle vite e dei fenomeni nello spazio digitale è tempo di superare le impostazioni riduzionistiche e tecnodeterministiche dominanti.

Un punto di riferimento su come proseguire in questo settore della ricerca scientifica che coinvolge diverse discipline è rappresentato da un altro illuminante articolo appena pubblicato da Amy Orben con Adrian Meier, Tim Dalgleish e Sarah-Jayne Blakemore dal titolo "Mechanisms linking social media use to adolescent mental health vulnerability".

Orben è ricercatrice all'Università di Cambridge in Regno Unito e, come Vuorre e Przybylski, si distingue in questo ambito di ricerca per il rigore e l'integrità scientifica che le sono valsi riconoscimenti e ascolto da parte delle istituzioni britanniche e statunitensi.

Nell'articolo pubblicato sulla rivista Nature Reviews Psychology, innanzitutto, vengono delineati i tre livelli (neurobiologico, cognitivo, comportamentale) di studio dell'adolescenza nell'ambito delle scienze dello sviluppo: l'adolescente è un sistema dinamico che nella sua traiettoria individuale si muove e interagisce in uno spazio digitale dinamico con caratteristiche e funzionalità da identificare operazionalmente per poterne comprendere l'impatto differenziale. 

A tale scopo Orben, Blakemore e collaboratori identificano specifiche affordance dei social media, "come la quantificazione del feedback sociale o l'anonimato, che possono anche avere effetti positivi sulla salute mentale":

"Le caratteristiche dei social media sono componenti della tecnologia progettate intenzionalmente per consentire agli utenti di eseguire specifiche azioni, come mettere mi piace, ripubblicare o condividere una storia. Al contrario, le affordance [funzionalità intuitive] descrivono la percezione delle possibilità di azione che gli utenti hanno quando interagiscono con i social media e le loro caratteristiche, come l’anonimato (la difficoltà con cui gli utenti dei social media riescono a identificare la fonte di un messaggio) e la quantificabilità (quanto siano numerabili le informazioni)".

Le affordance [funzionalità intuitive] - come possibilità di azioni che vengono percepite - variano in base a utente, contenuto e social media. Ad esempio, una storia di Instagram ha la caratteristica di condividere contenuti tra utenti. In termini di affordance, una storia di Instagram ha una sua persistenza (è percepita in funzione di quanto il proprio contenuto rimane disponibile sulla piattaforma) e una sua visibilità (è percepita in funzione di chi vede quel contenuto). La bassa persistenza e la bassa visibilità possono essere ottenute attraverso una specifica tecnologica di un social (storia di Instagram) ma sono il risultato della possibilità delle azioni percepite in relazione a tecnologia, utente, progetto.

"È probabile che lo stato di salute mentale influenzi l’uso dei social media creando cicli di comportamento rinforzanti, qualcosa che è stato trattato nella letteratura delle scienze della comunicazione come 'effetto transazionale dei media'", scrivono Orben, Blakemore e colleghi

Alcuni esempi citati nell'articolo, in base alla revisione della letteratura, sono i seguenti: "Giovani con disturbi d'ansia o alimentari tendono a fare più confronti sociali rispetto a individui senza questi disturbi", "Adolescenti con depressione riportano confronti sociali più sfavorevoli sui social media rispetto a adolescenti senza depressione". Nella ricerca di determinati feedback sociali (positivi o negativi) o nei contenuti condivisi (positivi o negativi) sui social, pertanto, incidono i tratti o gli stati individuali e quei feedback vanno poi a rinforzare i vissuti di quel momento (abbassando l'umore o aumentandolo, abbassando l'autostima o aumentandola).   

Risultano quindi "molteplici le strade possibili attraverso le quali diversi aspetti della salute mentale potrebbero influenzare specifici aspetti del modo in cui vengono utilizzati i social media e, di conseguenza, il modo in cui finiscono per influenzare l'utente".

Il cambio di paradigma fondamentale proposto da questo articolo è quello di focalizzare gli studi sull'individuo che utilizza i social piuttosto che sul tempo trascorso sui social.

Introdurre una lista di affordance dei social media, mutuandole dalla ricerca neurocognitiva e comportamentale, "enfatizza il ruolo dell’utente (come la tecnologia viene percepita, interpretata e utilizzata) piuttosto che la progettazione tecnologica in sé.

In questo senso, l’approccio delle affordance è essenziale per superare il determinismo tecnologico degli outcome di salute mentale che enfatizza eccessivamente il ruolo della tecnologia come motore degli effetti ma trascura l'autodeterminazione e l'impatto delle persone" nell'uso dei social media e, aggiungo, dello spazio digitale in generale.

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Modificando le direzioni della ricerca scientifica futura sugli effetti psicologici delle tecnologie e della navigazione dello spazio digitale, potremo comprendere meglio fenomeni complessi che sono stati finora eccessivamente semplificati, provocando distorsioni nella narrazione mediatica.

Resta cruciale poi che l'informazione dominante non continui a essere sbilanciata verso il racconto apocalittico alimentato da dati artefatti e contenuti pseudoscientifici. Ignorando i risultati scientifici che contrastano con questo schema, si impedisce, più o meno intenzionalmente, la formazione di un’opinione pubblica razionale e critica basata sulla disponibilità di prove solide di meccanismi complessi. Garantire l'accesso alle conoscenze scientifiche che contrastano con una visione ultraconservatrice e regolatoria delle tecnologie vuol dire contribuire a diffondere l'antidoto alle paure irrazionali e all'incertezza estrema che conducono a scelte male informate. 

Immagine in anteprima: Foto di Julia M Cameron via Pexels

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