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Intercettazioni: la sentenza della Corte Costituzionale e la visione inedita di ‘Capo dello Stato’

19 Gennaio 2013 7 min lettura

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Intercettazioni: la sentenza della Corte Costituzionale e la visione inedita di ‘Capo dello Stato’

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Foto da Skytg24

Il 15 gennaio 2013 è stata depositata la sentenza (n. 1 del 2013) della Corte Costituzionale che ha deciso il conflitto di attribuzioni tra il Presidente della Repubblica e i magistrati della Procura di Palermo.
La vicenda è nota. Il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione all'attività di intercettazione telefonica (per un totale di 9.295 telefonate tra il novembre 2011 e il maggio 2012) svolta riguardo alla persona di Nicola Mancino, all'epoca non parlamentare, nel corso della quale sono state registrate anche 4 conversazioni -per un totale di 18 minuti- intrattenute tra l'intercettato ed il Presidente della Repubblica.
Nel fascicolo di indagine la Procura non ha inserito, però, le suddette telefonate, in quanto ritenute non rilevanti per un eventuale giudizio. Quelle telefonate, quindi, non sono mai state trascritte e tutt'ora non se ne conosce il contenuto. La Procura ha poi spiegato che si sarebbe attenuta alle leggi vigenti -art. 268 c.p.p.-, che prevedono la fissazione di un'udienza camerale dinanzi al giudice per le indagini preliminari, in contraddittorio con le parti, nella quale, data l'irrilevanza delle telefonate ai fini delle indagini, ne sarebbe stata chiesta la distruzione.

La Presidenza della Repubblica ha avviato il conflitto di attribuzioni ritenendo che le intercettazioni di conversazioni del Capo dello Stato, anche indirette o casuali come nel caso specifico (l'intercettato era Mancino), siano vietate dalla legge, laddove il divieto sorge dalla irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni (salvi i casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione) assicurata dall'art. 90 Cost.
Secondo l'Avvocatura dello Stato, la Procura di Palermo avrebbe menomato le prerogative del Capo dello Stato: nel momento in cui ha registrato i suoi colloqui in violazione di legge, nel momento in cui ha allegato al fascicolo le telefonate (sia pure non trascrivendole e segretandole per non renderle conoscibili), e nel momento in cui ne ha valutato l'eventuale utilizzazione nel procedimento (sia pure ritenendole irrilevanti). Soprattutto, nel momento in cui ha manifestato l'intenzione di attivare la procedura di cui all'art. 268 c.p.p., che prevede la fissazione di un'udienza in contraddittorio con le parti (sia pure le sole parti in causa, cioè PM e indagati), col rischio che i contenuti delle telefonate potessero essere conosciuti da terzi.
In tal senso l'Avvocatura ha chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare che non spetta alla Procura “omettere l'immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica”, né “valutare la (ir)rilevanza”, offrendole all'udienza ai sensi dell'art. 268 c.p.p.
Il ricorso della Presidenza della Repubblica è volto proprio a contestare l'esistenza del potere della Procura di intercettare i colloqui del Capo dello Stato, e quindi di valutarle ai fini del procedimento.

Con la sua memoria difensiva la Procura di Palermo, tra le altre cose, ha chiesto di dichiarare l'inammissibilità del ricorso “per impossibilità giuridica del petitum”. In effetti il ricorso dell'Avvocatura appare rivolto ad ottenere che sia la stessa Procura della Repubblica a procedere alla distruzione delle conversazioni, dovere che è oggettivamente non esigibile in quanto non previsto dalla normativa vigente che demanda tale attività al giudice.
In effetti, l'Avvocatura dello Stato ha presentato successivamente una memoria nella quale ha sostenuto che la formula sintetica usata nelle conclusioni del ricorso dovesse intendersi nel senso che non spetta alla Procura omettere quanto in suo potere per ottenere un provvedimento dal giudice, e precisando che il riferimento dovesse essere all'art. 271 c.p.p., che si occupa della distruzione di intercettazioni disposte fuori dei casi previsti dalla legge.
La Consulta risolve il problema - di non poco conto perchè avrebbe potuto portare all'inammissibilità del ricorso - escludendo che la Presidenza della Repubblica abbia postulato un dovere della Procura di distruggere direttamente la documentazione, essendo evidente che la “distruzione può essere disposta esclusivamente dal giudice”. Secondo la Corte, la richiesta che sia riconosciuto l'obbligo della Procura di procedere “immediatamente” alla distruzione del materiale acquisito, va letta con riferimento all'intero atto di promuovimento del conflitto, e in tal modo va intesa nel senso che ci si duole del fatto che la Procura non ha promosso la distruzione del materiale facendone istanza al giudice, e non che lo dovesse fare direttamente.

Per la soluzione del conflitto, precisa la Corte, “non è sufficiente una mera esegesi testuale di disposizioni normative, costituzionali od ordinarie, ma è necessario far riferimento all'insieme dei principi costituzionale, da cui emergono la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano”. In tal modo si evince che il Capo dello Stato è collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e al di sopra delle parti politiche. Egli dispone di competenze che incidono su tutti i poteri, allo scopo di salvaguardare sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica si riflette sulla natura delle sue attribuzioni che non implicano il potere di adottare decisioni quanto piuttosto gli danno “gli strumenti per indurre gli altri poteri costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni”.
Il Presidente della Repubblica è, quindi, un organo di “moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad inerzia” (es. lo scioglimento delle Camere).
Per svolgere efficacemente il proprio ruolo, il Capo dello Stato deve tessere una rete di rapporti, nell'ambito dei quali esercita non solo i propri poteri formali, ma anche il “potere di persuasione” composto essenzialmente da attività informali (incontri, comunicazioni...) che sarebbero inevitabilmente compromesse dalla “indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi”. La discrezione delle sue comunicazioni è coessenziale al ruolo del Presidente della Repubblica, e lo stesso deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle stesse.

In sintesi la sentenza della Consulta disegna gli organi costituzionali come una rete al centro della quale è posto il Capo dello Stato, di per sé privo di funzioni politiche ma organo di raccordo ed equilibrio tra i vari poteri dello Stato; insomma una sorta di camera di compensazione. La giustificazione della assoluta intangibilità della sfera delle comunicazioni del Presidente starebbe proprio in questa sua peculiarità, differenziandosi dagli altri organi costituzionali (come il Parlamento e il Governo) con funzioni politiche, i cui membri, pur godendo di prerogative che vietano l'utilizzo di mezzi di ricerca della prova invasivi (come le intercettazioni), sono però soggetti a procedure che permettono in casi specifici la rimozione di tali divieti.
Il silenzio della Carta Costituzionale sul punto, e quindi l'assenza di previsione di un organo al quale chiedere l'autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni, non deve, chiarisce la Corte, portare alla conclusione che le comunicazioni del Presidente godano di tutela inferiore agli altri organi costituzionali, bensì a quella opposta.

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La conclusione è un evidente ampliamento delle prerogative presidenziali, affermandosi che il Capo dello Stato non è mai intercettabile, né direttamente né indirettamente, anzi la distinzione in sé non ha rilievo giacché l'interesse protetto non è la salvaguardia della persona, quanto l'efficace svolgimento delle funzioni del ruolo.
Ovviamente non è prevedibile se e quando un intercettato comunichi col Presidente, per cui secondo la Consulta in tale caso la tutela si trasferisce dalla fase anteriore a quella successiva, e la Procura deve adoperarsi perché tale comunicazione sia distrutta il più presto possibile, sotto il controllo del giudice per le indagini preliminari e a mezzo della procedura prevista dall'art. 271 - senza contraddittorio - mantenendo il più assoluto riserbo. Anche soltanto rivelare l'esistenza delle intercettazioni - evidente stoccata alla Procura - determina una violazione delle prerogative del Capo dello Stato.
L'unica concessione è la valutazione, demandata al giudice, di tenere conto della “eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell'integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall'ordinamento”. Per cui le intercettazioni potrebbero essere salvate dal giudice in casi specifici.

Pur ribadendo che il Capo dello Stato per eventuali reati commessi al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni è soggetto alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini, la Consulta conclude per l'inammissibilità dell'utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali le intercettazioni telefoniche. La ricerca della prova per eventuali reati extrafunzionali del Presidente della Repubblica, quindi, deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze...) tali da non arrecare danno alla sua sfera di comunicazione.

Quello che emerge dalla sentenza n. 1 del 2013, dunque, è una visione inedita del Capo dello Stato, una volta “cittadino tra i cittadini, anche se ricopre il più alto ufficio politico” (lavori preparatori della Costituzione), oggi soggetto titolare dell'assoluta intangibilità della sua sfera comunicativa, prerogativa forse anche un po' stridente all'interno di una Democrazia Parlamentare, ma più consono ad una Presidenziale.
Come tale lettura si possa conciliare con la definizione di democrazia quale “governo del potere pubblico in pubblico” (Norberto Bobbio), forma di governo che postula la trasparenza dei processi decisionali e un continuo processo di informazione e formazione del cittadino consapevole, poi, sinceramente ci sfugge.

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