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L’India respinge la ‘guerra civile permanente’ di Modi

7 Giugno 2024 8 min lettura

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L’India respinge la ‘guerra civile permanente’ di Modi

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Il premier uscente Narendra Modi ha vinto un nuovo mandato per governare l’India, il terzo consecutivo. Ma ha perso la sua scommessa più ambiziosa, quella di conquistare una maggioranza sufficiente a regnare incontrastato e modificare l’architettura costituzionale della nazione, per realizzare il progetto politico di trasformare una società plurale e stratificata in una “nazione hindu”. Anzi: il suo partito, il Bharatiya Janata Party (BJP, Partito Nazionale Indiano) ha perso la maggioranza assoluta che aveva nella legislatura uscente, tanto che per formare un governo deve fare appello a una coalizione di alleati. Un netto ridimensionamento. Narendra Modi continuerà a governare nei prossimi cinque anni: ma ha perso l’aura di invincibilità che lo accompagna da oltre un decennio. 

È questo, in estrema sintesi, il risultato delle elezioni politiche generali annunciato a New Delhi il 4 giugno, al termine di un processo durato quasi due mesi che ha portato alle urne oltre 640 milioni di cittadini (su 970 milioni di aventi diritto) con un’affluenza al voto di poco superiore al 65%, un record.

Il nuovo parlamento e la bocciatura del progetto “nazione hindu”

Vediamo meglio. Il BJP si è assicurato 240 sui 543 seggi del Lok Sabha, il parlamento dell’Unione indiana. Sono molto meno dei 303 seggi che aveva nella legislatura uscente e dei 272 necessari per formare un governo da solo. I partiti alleati della coalizione National Democratic Alliance (Nda) hanno sommato 52 seggi. Il BJP non è riuscito a rafforzarsi negli Stati del sud, con la notevole eccezione di una circoscrizione vinta in Kerala, nello Stato tradizionalmente governato dalle sinistre. Conferma invece la sua presenza tra le caste molto basse e le comunità native, tendenza già vista nell’ultimo decennio.

Il blocco dei partiti di opposizione, uniti nella coalizione chiamata India, ha ottenuto invece 235 seggi, di cui 99 sono del partito del Congresso - che ha così più che raddoppiato la sua presenza in Parlamento (nella legislatura uscente aveva 47 deputati) e riconquistato il suo ruolo di guida dell’opposizione. Si capisce perché il leader del Congresso, Rahul Gandhi, parli di “vittoria morale”.

Dunque la “valanga di voti” auspicata dal primo ministro e il suo partito, e anticipata da tutti i sondaggi della vigilia, non si è concretizzata. Nonostante il BJP possa schierare una macchina organizzativa impressionante, con una rete capillare di attivisti radicati in particolare nei popolosi Stati dell’India settentrionale e centrale: quartiere per quartiere, strada per strada, con quadri e volontari capaci di mobilitare le diverse categorie – professionisti, impiegati, commercianti, insegnanti, il blocco sociale celebrato come “classe media emergente” su cui il BJP ha costruito le sue fortune elettorali. Nonostante anche quello che è stato definito un “welfare elettorale”, cioè la distribuzione a pioggia di aiuti, sussidi, bombole di gas, pacchetti alimentari e favori: il governo Modi ne ha fatto ampio uso. E nonostante una campagna elettorale trionfalista e aggressiva, puntata sulla personalità del leader del BJP, il suo carisma, l’immagine di leader forte, sui progressi economici dell’India; e sulla “carta hindu”. Modi aveva indicato come obiettivo 400 seggi: non li raggiunge neppure con gli alleati.

Il segno più eloquente della batosta politica sofferta dal primo ministro viene dalla cittadina di Ayodhya, nello Stato di Uttar Pradesh, nell’immensa pianura del Gange, dove in gennaio il premier Modi aveva inaugurato un tempio al dio Rama con una cerimonia che aveva di fatto avviato la campagna elettorale. Per lo schieramento della “destra hindu” – uno schieramento di forze religiose e sociali di cui il BJP è l’espressione politica - quel tempio ha un valore simbolico: è il segno tangibile del progetto di fare dell’India una “nazione hindu”, dove la maggioranza impone la sua supremazia in ogni aspetto della vita politica, sociale e culturale del paese. È l’ideologia chiamata hindutva.

E invece proprio ad Ayodhya il candidato del BJP è stato sconfitto a favore di quello del Samajwadi Party, un partito dichiaratamente laico e democratico. Lo stesso è successo in altri collegi considerati bastioni della destra hindu. Segno che il messaggio identitario del BJP, portato all’estremo durante la campagna elettorale, non ha pagato.

Le ragioni del mancato trionfo di Modi

Nelle considerazioni degli elettori indiani entrano beninteso molti elementi diversi, per esempio le relazioni tra caste e gruppi di interesse che andrebbero analizzate su scala locale; o la rabbia accumulata dagli agricoltori del Punjab e altre zone dell’India, protagonisti all’inizio dell’anno di un ampio movimento di protesta represso duramente dal governo. O ancora la tensione in Kashmir, lo Stato a maggioranza musulmana sottoposto a un regime di controllo militarizzato. Poi però ci sono temi generali, che mobilitano su scala nazionale.

“Non c’è dubbio: gli elettori hanno rifiutato di rinnovare una licenza in bianco” a Narendra Modi, commenta Harish Khare, politologo e commentatore su The Wire. Come molti, Khare vede nel risultato del voto una sconfessione per un primo ministro che era arrivato a definirsi “inviato dagli dei”.  

Nelle ultime settimane infatti Modi aveva inasprito i toni dei suoi discorsi pubblici. A elezioni in corso, il 21 aprile, durante un comizio ha attaccato i musulmani indiani definendoli “infiltrati”, “quelli che fanno tanti figli”; aveva accusato il Congresso di voler togliere agli hindu i loro beni per darli ai musulmani (affermazione evidentemente falsa, usata per denigrare l’opposizione). Era il primo di numerosi interventi simili: in violazione evidente dei codici di condotta che vietano di usare la religione a fini elettorali, di pronunciare falsità o incitare all’odio intercomunitario. Ma la Commissione Elettorale, istituzione indipendente incaricata di vegliare sulla correttezza del voto, non era intervenuta – suscitando grandi polemiche. 

Modi “non ha lasciato dubbi sulla sua intenzione di inasprire la divisione tra hindu e musulmani”, osserva ancora Khare. “Ha deliberatamente e cinicamente cercato di attizzare l’animosità degli hindu per consolidare il voto per il suo partito, il BJP”. Ma in questo modo “ha spaventato la parte più stabile della nuova coalizione sociale [che lo aveva portato al potere], cioè le classi medie. Anche il mondo imprenditoriale ha cominciato a sentirsi a disagio verso un primo ministro che mette a repentaglio la pace e l’armonia del paese”, continua Khare: con questo voto, la parte più moderata dell’India hindu ha rifiutato la “guerra civile permanente” proposta da Modi.

Di questa “guerra civile permanente” fa parte anche la spregiudicatezza con cui il primo ministro e il suo entourage nell’ultimo decennio hanno usato le istituzioni dello Stato per perseguire esponenti dell’opposizione, organizzazioni della società civile, accademici, voci indipendenti. I commenti di questi giorni sembrano un collettivo sospiro di sollievo.

“I templi non risolvono il problema della disoccupazione”, diceva l’ex capo di un villaggio dell’Uttar Pradesh a un corrispondente di Caravan, magazine indipendente. Numerosi reportage, in queste settimane di campagna elettorale, hanno citato cittadini che faticano a far quadrare i bilanci, padri che hanno venduto la terra per far studiare i figli i quali però restano senza lavoro: persone che avevano creduto alla promessa del premier Modi di portare investimenti, occupazione e benessere in tutta la nazione e ora sono delusi. 

Già: l’economia indiana è indubbiamente cresciuta nei due mandati di Narendra Modi (anche se cresceva altrettanto o più negli anni precedenti, in cui governava il Congress). Alcuni super ricchi ne hanno beneficiato, ma sono cresciute anche le diseguaglianze, l’1% degli indiani accentra il 40% del reddito. Per la maggioranza degli indiani i salari sono stagnanti, la disoccupazione giovanile oscilla intorno al 45 per cento. Milioni di giovani diplomati campano di lavoretti o di lavoro agricolo, o cercano impieghi all’estero. Con ogni evidenza, la retorica nazionalista non è bastata a nascondere il senso di esclusione di questa parte dell’India.

Modi ha perso l’aura magica ma non il potere

Al contrario, per il leader del Congresso Rahul Gandhi le elezioni 2024 segnano una rivincita morale. Il Congresso ha interrotto il crollo di consensi visto nelle ultime consultazioni elettorali: quando il partito una volta considerato onnipotente, erede della lotta per l’indipendenza, di Nehru e di sua figlia Indira Gandhi e poi di Rajiv, Sonia Gandhi, e ora dei loro figli Rahul e Priyanka, il partito che per decenni aveva guidato le sorti dell’India indipendente, sembrava destinato all’irrilevanza. Avvitato intorno alla famiglia Nehru-Gandhi, incapace di rinnovarsi, demoralizzato, smobilitato. A suo credito, Rahul Gandhi ha avviato già da alcuni anni un lavoro per ringiovanire e modernizzare il partito; ancora di recente ha organizzato carovane attraverso il paese, ascoltato la base, incontrato lavoratori industriali e rurali. “Abbiamo puntato la nostra campagna elettorale sulla lotta alla disoccupazione, sui contadini e i poveri di questo paese, mentre il BJP spargeva bugie e odio”, ha detto nella prima conferenza stampa dopo il voto. Quasi una rivincita personale per l’ultimo rampollo dei Gandhi, denigrato dagli avversari politici come un esponente della politica dinastica tanto diffusa in India. 

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Resta il fatto che il BJP di Narendra Modi, sia pure ridimensionato, sta avviando il suo terzo mandato: prima di lui, solo Nehru aveva avuto una longevità politica. Certo, dovrà negoziare con altri partiti, concedere poltrone e ministeri, accomodare altri appetiti: non è la prima volta che l’India vede governi di coalizione, più o meno litigiosi, e una personalità come Modi non faticherà troppo a governare anche gli alleati. Soprattutto, nessuno dubita che cercherà di portare a termine il progetto di “nazione hindu”, ragion d’essere del suo partito e della sua leadership. 

Intanto il mercato azionario ha ricominciato a crescere, dopo il crollo seguito all’annuncio dei risultati elettorali. Anche le azioni del gruppo Adani sono in recupero (avevano perso il 19 per cento del valore in un solo giorno): Adani è uno dei maggiori sostenitori del premier Modi, e allo stesso tempo uno dei maggiori beneficiari di favori e incentivi distribuiti dal governo del BJP – di quel tipo di governo dell’economia che i commentatori indiano chiamano crony capitalism, un capitalismo clientelare. “Abbiamo ancora la fiducia degli elettori”, ha commentato Narendra Modi, il giorno dopo l’annuncio dei risultati. Ha perso l’aura magica, ma non il potere. E però, conclude un commentatore come Harish Khare, “gli elettori gli hanno ricordato … che la sola fonte di legittimità è la Costituzione”. 

Immagine in anteprima: frame video Channel 4 News via YouTube

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