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In arrivo la ‘Salva Sallusti’, una legge che non ci ha chiesto l’Europa

6 Ottobre 2012 6 min lettura

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In arrivo la ‘Salva Sallusti’, una legge che non ci ha chiesto l’Europa

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A tempo di record. Sul sito del Senato è stata pubblicata la bozza della legge denominata “salva Sallusti”, un ddl che prevede modifiche alla legge sulla stampa e alle norme del codice penale in materia di diffamazione. Già si contano i giorni per l'approvazione, quanto occorrerà per fare la spola tra i due rami del Parlamento, quanti giorni mancano per evitare il carcere al direttore del Giornale.
Si è scritto che è una legge necessaria, anzi indispensabile, occorre per riportarci in Europa, per adeguare il barbarico sistema penale italiano, l'unico in Europa che prevede il carcere per i giornalisti, al resto del mondo civile. Una legge da fare di corsa, una legge che non ci ha chiesto l'Europa, ma è come se lo avesse fatto, anche con un certo sdegno, guardandoci dall'alto verso il basso.

Quello che ci chiede l'Europa
Davvero stridente il contrasto con le leggi che l'Europa ci chiede da anni, ma sul serio. L'Europa ci ha chiesto, ad esempio, una legge anticorruzione seria, e nei prossimi giorni, forse, sarà finalmente approvata una legge depotenziata, che recepisce solo una piccola parte delle richieste dell'Europa. Ci chiede da anni un allungamento dei tempi di prescrizione, stigmatizzando l'enorme numero di reati che rimangono impuniti, con gravi danni per le vittime del reato -la prima vittima di un reato è sempre lo Stato- ma di questo non si è mai seriamente parlato. Un'anomalia che condividiamo con la Grecia, il paese più in crisi, e nessuno che si chieda se tra le due cose ci sia un qualche collegamento.

Ci ha chiesto, inoltre, una legge sulla tortura, ma anche qui un assordante silenzio da parte dei nostri politici.
Politici che, invece, prendono spunto dalla vicenda che tocca il direttore del Giornale, per realizzare una proposta di riforma della diffamazione a mezzo stampa a tempo di record.

Cosa prevede la riforma?
In breve l'eliminazione del carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ma nel contempo fissa un limite minimo per la riparazione prevista dall'art. 12 della legge sulla stampa, cioè 30.000 euro. Prima non vi era alcun limite minimo.

Carcere si, carcere no...
Si dirà che il carcere per aver espresso un opinione è sbagliato, si dirà che il carcere per aver fatto informazione è sbagliato. Ed è giusto che se ne discuta, anche tenendo presente le indicazioni degli organismi dell'Unione Europea che paventano possibili ricadute sulla libertà di espressione.
È una questione più politica che altro, ma occorre anche discuterne tenendo presente i pro e i contro senza farsi abbagliare da mirabolanti espressioni come appunto: libertà di espressione e diritto di opinione. Insomma occorre informarsi, come sempre. Così si potrebbe scoprire che l'Italia non è l'unico paese che prevede il carcere per la diffamazione a mezzo stampa, ma lo prevedono anche: Spagna, Portogallo, Irlanda, Germania, Belgio, Austria, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Grecia, Finlandia.

Partiamo dalla premessa che un giornalista che sbaglia deve pagare, se diffama qualcuno, e deve riparare il danno che causa. È vero che il carcere può essere un'intimidazione per il giornalista, ma anche una pena pecuniaria, e pure una semplice causa civile, possono essere un indebito strumento di pressione.

Se un giornalista, ad esempio, scrive la verità ma usa toni troppo accesi, potrebbe essere condannato ad un risarcimento del danno tale da rendergli impossibile pagarlo, pur avendo scritto la verità. E la stessa riparazione (da almeno 30.000 euro), per un giornalista che non ha dietro un editore dalla spalle forti, potrebbe rendergli impossibile continuare il suo lavoro. Spesso non è tanto il rischio carcere a chiudere la bocca al giornalista, quanto il rischio di dover pagare cifre elevatissime.

Un giudice è un essere umano, e quindi può commettere un errore, ma è ovvio che c'è sicuramente maggiore attenzione a comminare una pena carceraria piuttosto che una condanna civile. E per finire realmente in carcere bisogna essere condannati più volte. Lo stesso Sallusti può tranquillamente chiedere pene alternative al carcere, l'affidamento in prova o altro.
Solo nel momento in cui si tratta di fatti davvero gravi, oppure reiterati nel tempo (recidive), il rischio carcere diventa davvero concreto per un giornalista.

Non vogliamo dire di certo che siamo favorevoli al carcere per i giornalisti, tutt'altro, ma bisogna essere consapevoli che agire sul lato penale senza agire anche su quello civile non ci porterà ad allinearci all'Europa, ma potrebbe rendere la cura peggiore del male.
Se un giornalista sbaglia, ma in buona fede, non ha alcun problema a rettificare e scusarsi, così la vittima può ritirare la querela, oppure il giudice potrebbe ritenere insussistente il dolo, e quindi il reato potrebbe cadere. Il diffamato  così ottiene ciò che realmente vuole, la rettifica, cioè la riparazione della sua reputazione. Un giornalista di questo tipo teme più la condanna civile che quella penale, perché la riparazione, il risarcimento del danno, si possono avere anche se egli è in buona fede.

Se invece un giornalista mente sapendo bene di mentire, e lo fa per compiacere i suoi padroni pubblicando notizie false per screditare, ad esempio, avversari politici, egli teme la condanna penale perché lui non può rettificare, non può dire che ha scritto il falso, perché i suoi padroni non ne sarebbero contenti. Lui non teme la condanna civile, perché saranno i suoi padroni a pagargliela, lui  teme di finire in galera.

Il rischio, quindi, è che si sfrutti l'onda dell'indignazione per il caso Sallusti al fine di realizzare una riforma che piace ai politici e che sia ad essi funzionale. Una sostituzione delle pene detentive con multe e condanne civili potrebbe rivelarsi un ottimo metodo per mettere il guinzaglio ai giornalisti che si vendono, intimidendo quelli che non si vendono.

Diffamazione tra fatti ed opinioni
L'errore è palese, e lo si è notato nello strano dibattito che si avuto in relazione al noto caso citato, nel quale ci si indignava per la condanna di un' “opinione”. A parte l'ovvia considerazione che la diffamazione non è un reato di opinione, il punto focale della vicenda è proprio nella distinzione tra fatti e opinioni. In realtà in Italia non si è mai condannati per aver espresso un'opinione (a meno che l'opinione non riguardi le istituzioni -reati di vilipendio-), ma si viene condannati per aver offeso una persona, la sua reputazione o il suo onore, cosa decisamente ben diversa. E l'offesa della reputazione o dell'onore generalmente avviene attraverso l'esposizione di fatti non corrispondenti al vero oppure con una esposizione dei fatti di per sé insinuante e tendente a far credere chissà che. C'è una enorme differenza tra opinare e affermare il falso come se fosse vero!

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La differenza tra le due situazioni, quindi stabilire se siamo in presenza di una semplice opinione (non punibile), oppure di un'offesa alla reputazione (punibile), è proprio il giudizio demandato ad un magistrato terzo.
Come negli Stati Uniti, dove la diffamazione è punita se c'è malafede, oppure se il contenuto è falso.

Per una tutela effettiva dei fatti, e quindi della libertà di informazione e di critica, occorre ampliare la rettifica, stabilendo che in presenza della stessa (purché sia data nelle medesime forme ed enfasi dell'articolo diffamatorio) cada la punibilità.

In questo caso, invece, l'impressione è che si voglia sfruttare un episodio per ottenere una riforma che i politici vogliono da tempo. Il rischio concreto è che per difendere le opinioni si finisca per non tutelare più i fatti, compromettendo la funzione che il giornalismo dovrebbe svolgere. E non è certo l'Europa a chiederci un rischio simile.

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