Il cyberbullismo nasce nella vita reale, il codice di autoregolamentazione non serve
8 min letturaCyberbullismo
Cyberbullismo è un neologismo ormai entrato nel linguaggio quotidiano, identifica il fenomeno del bullismo elettronico che comprende, quindi, tutte le forme di prevaricazione poste in atto tra coetanei attraverso mail, sms, cellulari, chat, blog, social network o siti online. Secondo lo studioso Peter Smith, per cyberbullismo si intende “una forma di prevaricazione volontaria e ripetuta, attuata attraverso un mezzo elettronico, rivolta contro un singolo o un gruppo con l’obiettivo di ferire e mettere a disagio la vittima di tale comportamento che non riesce a difendersi”.
Il rapporto “I ragazzi e il cyberbullismo”, realizzato da Ipsos per conto di Save the Children nel febbraio 2013, analizza il fenomeno: i social network sono la modalità d'attacco preferita dal cyber bullo (61%), il quale solitamente colpisce la vittima mediante la diffusione di fotografie denigratorie (59%) oppure con la creazione di gruppi “contro” (57%). Lo studio di Ipsos racconta una realtà giovanile sempre più connessa e prepotente: 4 minori su 10 sarebbero testimoni di atti di bullismo online verso coetanei percepiti diversi per l'aspetto fisico (67%), l'orientamento sessuale (56%) o semplicemente perché stranieri (43%).
Sempre secondo lo studio Ipsos, il cyberbullismo risulterebbe la minaccia più pericolosa (72%) per i giovani di oggi, più della droga (55%), più delle molestie commesse da adulti (44%), ed anche più del rischio di contrarre una malattia sessuale (24%).
Ecco perché questo inquietante fenomeno è ormai all'attenzione delle istituzioni.
Il Consiglio d'Europa lancia dall'Italia la campagna contro la violenza online: “Rispetto e dialogo devono diventare la regola”, “No all'odio in rete”. L'obiettivo non è imbavagliare il web bensì tutelare i minori.
Il vice Ministro per lo sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, Antonio Catricalà, avvia un tavolo di lavoro con la partecipazione di varie istituzioni: Agcom, Confindustria digitale, Garante per l'Infanzia, Comitato Media e Minori, Istituto Superiore delle Comunicazioni, e i principali provider che operano in Italia:
bisogna trovare velocemente un accordo regolatorio senza dover ricorrere a leggi o a atti repressivi della rete che sarebbero anche di difficile attuazione, bisogna bloccare un fenomeno che rischia di diventare un'emergenza!
L'8 gennaio viene approvato il primo Codice di autoregolamentazione per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo. La bozza è posta in consultazione per 45 giorni.
Codice di autoregolamentazione
Il Codice è costituito da 5 articoli tesi a garantire interventi più efficaci ed immediati a tutela delle vittime del cyberbullismo. Il rispetto del Codice, però, è demandato esclusivamente alla volontà delle parti in causa. Il Ministero appronta un apposito Comitato (un altro?) di monitoraggio che al massimo può formulare uno specifico “richiamo verso l'aderente” che non ha rispettato gli impegni assunti. Insomma, le aziende che vorranno aderire al progetto non rischiano sostanzialmente nulla anche nel caso in cui non rispettino gli obblighi.
L'obbligo principale imposto agli aderenti è quello di mettere a disposizione un metodo di segnalazione degli episodi di cyberbullismo, una sorta di “bottone” che potrà essere utilizzato dalla vittima. Gli aderenti si impegnano, inoltre, ad una celere risposta alle segnalazioni, nel senso di rimozione entro le 2 ore. In sostanza saranno i provider a valutare se un contenuto costituisce cyberbullismo o meno, fungendo da giudici ed esecutori.
I dubbi sono molteplici. È vero che gli aderenti, secondo quanto stabilito dal Codice, dovrebbero assumere “personale opportunamente qualificato” per la valutazione delle segnalazioni, ma quali valutazioni sono possibili in così breve tempo?Inoltre un fenomeno diventa bullismo se reiterato nel tempo, perché proprio la reiterazione della condotta crea disagio e paura nelle vittime. Come sarà possibile conciliare questo aspetto con l'obbligo di intervenire su ogni singola segnalazione entro le 2 ore?
Il rischio è che per intervenire velocemente si finirà per rimuovere un po' di tutto sulla base di valutazioni sommarie se non addirittura affidate ad un software automatizzato. Il pericolo è di limitare la liberà di espressione favorendo forme di censura privata affidate al provider-giudice. C'è anche l'ulteriore rischio di strumentalizzazioni delle segnalazioni, sfruttate per ritorsioni contro soggetti antipatici o addirittura quale ulteriore aggressione verso le vittime (a differenza del bullismo reale, nel cyberbullismo accade che la vittima compia atti di bullismo a sua volta verso l'aggressore).
Tutto ciò avrà comunque un costo per i provider che scaricheranno direttamente o indirettamente (per i fornitori di servizi gratuiti) sugli utenti finali, e sicuramente inciderà scoraggiando i piccoli operatori dall'entrare nel mercato dei servizi online, favorendo di fatto le grandi aziende.
L'art. 4 del Codice solleva ulteriori dubbi nel momento in cui prevede che:
Nel rispetto della normativa sulla riservatezza dei dati personali, gli aderenti potranno promuovere e attuare apposite politiche che consentano alle Autorità competenti di risalire all’identità di coloro che utilizzano il servizio per porre in essere comportamenti discriminatori e denigratori con l’intento di colpire o danneggiare l’immagine e/o la reputazione di un proprio coetaneo.
O siamo in presenza di veri e propri reati, e allora ci sono le norme in materia che consentono alle autorità competenti di chiedere ed ottenere tutte le informazioni per risalire agli autori del reato, oppure non siamo in presenza di reati e in tal caso non si comprende per quale motivi le autorità dovrebbero interessarsi del problema.
In realtà il riferimento appare agli accordi esistenti (anche se spesso smentiti) tra la polizia e i provider a fini di identificazione di coloro che commettono reati online.
Per ultimo il Codice impegna le parti ad effettuare campagne di formazione, informazione e sensibilizzazione sul tema.
Bullismo e cyberbullismo
Il fenomeno del cyberbullismo è decisamente più complesso di quello che si possa pensare. Innanzitutto i dati statistici disponibili non sono facili da leggere perché esistono differenze già nella definizione di cyberbullismo (quella di Smith è semplicemente ripresa da quella generica di bullismo, mentre alcuni studi lo identificano con una generica aggressività online).
A seconda dei casi si inseriscono nella categoria fin troppi comportamenti: discussioni online con linguaggio volgare e aggressivo; molestie, insulti, denigrazioni, commenti crudeli, diffamazione, esclusione da gruppi e comunità online; sostituzione di identità, fingersi qualcuno per mettere in difficoltà l'altro; ingannare al fine di sottrarre informazioni, minacce, invio di immagini a sfondo sessuale. Non tutti i rischi sono uguali, ci sono varie forme che vanno dal fastidioso al reato vero e proprio, e ciò rende estremamente facile strumentalizzare i dati statistici.
Inoltre esistono differenze nei periodi presi in esame per cui molti studi non sono comparabili, e differenze anche nel campione di riferimento e nel momento storico della rilevazione (le ricerche risentono degli effetti delle mode del momento, poiché gli stili di comportamento adolescenziale variano velocemente).
In questa prospettiva dobbiamo notare carenze nei media che talvolta veicolano informazioni non del tutto corrette. Solo in questi giorni si è, ad esempio, compreso e messo in rilievo che fenomeni di hate speech online non sono affatto alimentati dalla presunzione di anonimato, visto che molti si firmano tranquillamente. In realtà casomai si dovrebbe discutere di deindividuazione, cioè la riduzione del senso di individualità e delle conseguenti responsabilità nel momento in cui ci si trova in gruppo - più commenti online - dove “tutti lo fanno”. Nel caso del cyberbullismo gli aggressori sono, infatti, generalmente ben conosciuti dalle vittime.
Il cyberbullismo presenta indubbiamente, rispetto al bullismo nella vita reale, un ulteriore aspetto collegato al mezzo, e cioè la depersonalizzazione dovuta alla distanza. Non avere di fronte la vittima non consente di percepire le sue reazioni inibendo possibili fenomeni empatici. Ma la di là di ciò è inequivocabilmente un fenomeno che nasce nella vita reale. Diversi studi evidenziano che il cyberbullismo, di cui esistono diverse forme e modalità, è altamente correlato al bullismo in ambito scolastico: spesso ne è una continuazione o addirittura una rappresaglia alle violenze subite tra i banchi.
Demonizzare Internet
L'errore che spesso si fa nell'approcciarsi al fenomeno è demonizzare Internet, che equivale a reagire come la mamma arrabbiata che si accorge che il figlio è insultato online e se la prende con Facebook. Il problema è spesso un gap generazionale che non consente ai genitori di comprendere il funzionamento del mezzo, e quindi chiedono alle autorità un intervento contro i provider, cosa che aiuta loro ad autoassolversi dalle proprie responsabilità.
Ma, come evidenzia il vicecomandante della Polizia Postale dell'Emilia-Romagna, Sergio Russo,
Internet ci agevola perché ci permette di risalire alla paternità dei profili coinvolti. Internet è uno strumento potente e importantissimo. Bisogna sicuramente approfondire, ma demonizzare è un errore.
L'approccio corretto, quindi, non è quello di nascondere, obbligando i provider ad un intervento in sole 2 ore, quanto piuttosto dare alle autorità di polizia le risorse adeguate per procedere in presenza di reati, e coinvolgere le scuole quando i fenomeni non sono (ancora) sfociati in un reato.
Il Codice di autoregolamentazione in un certo senso finisce per puntare a nascondere il fenomeno, così tranquillizzando, falsamente, i genitori. L'effetto potrebbe essere addirittura opposto, portando a una ridotta attenzione sociale (e quindi a minori pressioni sulla politica) e quindi a una recrudescenza del fenomeno.
Focalizzarsi sul cyberbullismo presentando soluzioni tese unicamente o principalmente verso Internet può essere un errore sotto molteplici aspetti. Innanzitutto porta i genitori a preoccuparsi eccessivamente. Gli studi concordano nel fatto che generalmente i minori a rischio sono quelli che si impegnano in comportamenti a rischio e sono già soggetti a problemi nell'ambito familiare. I predittori di rischio sono sempre le dinamiche familiari.
Focalizzarsi, invece, sulla tecnologia, sul mezzo, da un lato tranquillizza i genitori, assolvendoli per i loro errori (i minori sono influenzati dai comportamenti dei loro genitori), distraendoli dai problemi reali, ma crea anche preoccupazione verso la tecnologia spesso non sufficientemente compresa. Ciò determina ovvi fenomeni di impotenza di fronte al problema (io come genitore non posso cambiare Internet), così inculcando nella gente il bisogno di rivolgersi all'autorità per la tutela dei propri figli, che poi delega alle aziende private, quando più semplicemente basterebbe educarli attraverso esempi di comportamenti positivi. Il sottoproblema (cyberbullismo) viene sopravvalutato mentre il problema reale viene declassato. Le risorse vengono convogliate verso la direzione sbagliata. Così nasce il mercato della sicurezza online.
Ogni volta che un privato vede possibilità di guadagno (basta ricordare il business del terrorismo) guarda caso i numeri del fenomeno cominciano a lievitare. L'industria della sicurezza online tende ad esagerare con le statistiche, portandoci a credere che il 70% almeno dei ragazzi è vittima di cyberbulli. E le istituzioni tendono a dargli corda, così creando panico e di fatto consentendo la nascita di un nuovo mercato preda di privati.
È nota la proliferazione di software di controllo parentale, cioè programmi che, dietro istruzioni dei genitori (o più spesso sulla base di white list dell'azienda) controllano la navigazione del minore. Nella pratica il genitore demanda l'educazione del figlio ad una azienda privata. Tutti questi prodotti software controllano l'intero traffico Internet del bambino, tracciando massicciamente tutte le sue scelte. Chi ci dice che quei dati non servano in realtà per una profilazione a fini di advertising?
Progetto TABBY
Il progetto Tabby (Threat Assessment of Bullying Behavior, Valutazione della minaccia di cyberbullismo nei giovani), finanziato dall'Unione europea, invece di cercare una soluzione semplice ad un problema complesso, punta ad accrescere la conoscenza e le capacità di proteggere gli adolescenti dalle possibili minacce quando usano internet o altri mezzi di comunicazione informatizzata.
Tabby chiarisce opportunamente che il luogo primario dove combattere il bullismo in tutte le sue forme, anche quelle online, è la scuola, il cui compito è fornire educazione e informazione, fare prevenzione e intervenire sulle problematiche dei ragazzi. Per i casi costituenti veri e proprio reato esiste, poi, il Tribunale per i minorenni con l'apporto dei servizi sociali.
Purtroppo l'espansione delle politiche antibullismo pare che stia facendo peggiorare le cose. Un recente studio dell'università del Texas mostra come i programmi di prevenzione del bullismo non funzionano, anzi i soggetti che li seguono hanno più probabilità di diventare vittime. Lo studio evidenzia l'importanza di andare oltre i fattori di rischio individuali e concentrarsi sul cambiamento sistemico all'interno delle scuole, insomma il bullismo (e quindi anche il cyberbullismo) non è un problema di singoli studenti (e quindi non si risolve agendo sul singolo caso), ma il risultato di un'interazione sociale all'interno della quale gli adulti-educatori devono entrare per modificare l'interazione stessa. Si tratta di risultati sbalorditivi dei quali non si può non tenerne conto.
Il BPP (Bullying prevention program) europeo comporta un maggiore coinvolgimento positivo (ad esempio, aumentando la consapevolezza della gravità del bullismo, rafforzando il controllo e la vigilanza degli studenti) da parte degli adulti (insegnanti e genitori) nel sistema scolastico, ed ha come obiettivo la limitazione dei comportamenti inaccettabili e la promozione di modelli di comportamento positivi degli adulti. Uno dei punti essenziali, infatti, è che il bullismo nasce all'interno della famiglia, ad esempio quando i genitori insegnano ai figli che non tutte le persone sono uguali (con comportamenti razzisti, sessisti, ecc...).