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Il copyright, Napster, la cultura del Vietnam e l’Internet che verrà

14 Marzo 2015 10 min lettura

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Il copyright, Napster, la cultura del Vietnam e l’Internet che verrà

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Guerra per il copyright

La guerra per il copyright, una guerra fredda che si combatte nelle oscure stanze del potere, in una quasi totale assenza di trasparenza, attraverso trattati commerciali e revisioni di direttive europee, è probabilmente la guerra più importante del secolo. La guerra per il copyright, infatti, disegnerà il futuro di internet, come sarà e come influirà sulle vite di milioni di cittadini europei e non solo. Più che sulla libertà di espressione, la guerra per il copyright è innanzitutto guerra sulla libertà di comunicazione privata, sulla possibilità di dialogo anche anonimo, sulla possibilità per i giornalisti di tutelare le proprie fonti, sulla possibilità delle persone (immaginiamo chi ha gravi problemi familiari e cerca un aiuto, un consulto…) di parlare anche di cose che un giorno potrebbero essere usate contro di loro.

Attualmente è allo studio la revisione della normativa sul copyright in ambito europeo, e si può già notare la polarizzazione su due posizioni estreme, due visioni antitetiche, due modi di intendere l'internet del futuro.

Napster

Ma per comprendere cosa è davvero in gioco occorre tornare indietro nel tempo.
Siamo nel 2001 quando inizia il processo a Napster, nel corso del quale accadono due cose. Subito dopo lo shut down dei server, a seguito della condanna (i legali di Napster sostennero che il software era in grado di bloccare il 99,4% dei file illeciti, ma il tribunale disse che il 99,4% era troppo poco, occorreva bloccarli tutti) e il conseguente fallimento dell'azienda, nonostante la chiusura dei server il software Napster continuava a vivere. Era stato impiantato su server non sotto il controllo dell'azienda.

Utenti di Napster
Utenti di Napster

Il secondo evento fu il tentativo di Thomas Middelhoff, Ceo della Bertelsmann (BMG), di realizzare un modello di business diverso cioè un servizio di distribuzione digitale in abbonamento, sfruttando proprio Napster. Il tentativo fallì per il rifiuto da parte della restante industria del copyright di cooperare.

Questi due eventi sono strettamente connessi. Middelhoff sottolineò già all'epoca che il modello di business dell'industria del copyright non funzionava più, ma nessuno lo aveva capito o voleva capirlo.
L'industria del copyright, nonostante sostenesse di essere tollerante con gli utenti downloader e di prendersela solo con gli uploader, in realtà citò in giudizio circa 18mila persone, chiedendo una media di 4000 dollari a persona, così criminalizzando un'intera generazione (Lessig paragonò tutto ciò alla cultura del Vietnam). Caso eclatante fu quello di Jammie Thomas citata per 1,92 milioni di dollari.
L'industria musicale preferì, quindi, scontrarsi con i suoi stessi utenti, contrastando la loro capacità di avere consapevolezza del mondo intorno, distruggendo dalle fondamenta le spinte sociali degli individui alla condivisione delle idee e delle informazioni, e quindi criminalizzando l'intera società nella sua fase evolutiva.
La conseguenza immediata di quella guerra di “religione” fu che moltissime persone smisero di comprare musica per motivi ideologici. L'industria del copyright già se la passava male, e il settore della musica cominciò a perdere soldi. Numerosi furono i licenziamenti.

Con l'avvento di internet si creò subito una domanda di beni digitali, in primis musica, domanda alla quale non corrispose per anni nessuna offerta legale. E, in assenza di offerta legale, l'offerta che venne fu quella illegale. Ecco perché nacque Napster ed ecco perché quando morì Napster, il software era più vivo che mai.
Poiché per anni l'industria del copyright si era rifiutata di accostarsi semplicemente all'ambiente digitale, preferendo ritirarsi nel suo modello di business antiquato, quel vuoto fu progressivamente riempito da altri soggetti. Prima venne Napster e i suoi fratelli (Kazaa, Grokster, ecc…), poi Steve Jobs con iTunes, per il quale assunse anche dei programmatori di Napster, la cui interfaccia era piuttosto simile. La Apple colmò quello spazio vuoto con un'offerta legale.
L'industria musicale accolse con sufficiente favore l'ingresso del nuovo venuto, perché da un lato era impreparata all'uso delle nuove tecnologie, ma dall'altro si ritrovava a dialogare con un solo rivenditore, una sorta di nuovo monopolio che gli dava la garanzia di poter mantenere il controllo sulla musica.

La situazione non mutò con l'avvento di nuovi servizi di distribuzione digitale e di streaming, come Spotify, Pandora, ecc… In realtà, al di là della questione della sostenibilità di questo sistema, il problema rimaneva lo stesso. Il modello di distribuzione di fatto rimaneva lo stesso.

Modello unidirezionale

Il modello di business dell'industria del copyright si estrinseca in un canale lineare, unidirezionale, che va dagli artisti, che creano, agli editori-distributori, fino al pubblico. La caratteristica saliente di questo modello è che il vero cliente dell'artista non è il pubblico, bensì lo stesso editore.
È l'editore, infatti, che decide se un'opera è commercialmente valida, quindi economicamente sostenibile, è l'editore che decide se un'opera incontrerà il favore del pubblico e quindi stabilisce se produrla o meno, è l'editore quindi che decide vita e morte delle opere.
È impossibile quantificare il numero di opere mai realmente nate, mai distribuite, morte nella culla, perché l'industria riteneva che non fossero sostenibili e quindi commercialmente non valide, è impossibile quantificare la perdita per la cultura. Perché, occorre ricordarlo ogni volta, un'opera creativa non può essere valutata solo per il suo valore commerciale, in quanto ha anche un valore non commerciale, culturale, e la cultura va diffusa e condivisa, se no si inaridisce.

Non solo. Con il progressivo incremento dei termini temporali di tutela del copyright (dai 14 anni iniziali, passando per i 30 dell'epoca della Disney, ai 40, poi 50, infine agli attuali 70 più la vita dell'autore per un totale di circa 120 anni), il pubblico dominio si è sostanzialmente svuotato, e mentre la Disney poté accedere, tra il 1970 e il '78, ad opere dello stesso secolo, riutilizzando quindi opera ancora attuali (come se noi oggi potessimo riutilizzare opere dei Beatles e dei Doors), noi oggi dobbiamo tornare indietro di un lasso di tempo eccessivo, rimestando tra opere non più attuali.
Qui è forse più facile stabilire quante opere entrano nel pubblico dominio con notevole ritardo, ritardo imposto dalle leggi pretese dall'industria del copyright, ma sono opere che finiscono per essere dimenticate prima che esse siano disponibili. Perché è un dato di fatto che le opere che mantengono un valore commerciale per un periodo di 70 anni più la vita dell'autore sono una percentuale bassissima. Per proteggere il valore di queste opere, la stragrande maggioranza delle opere, che invece perde valore commerciale in un periodo tra i 15 e i 30 anni, finiscono nel dimenticatoio.

Tornando al modello di business, l'ingresso di soggetti quali iTunes, Spotify, Pandora, ecc…, non cambia la situazione perché inserisce solo un ulteriore soggetto in più tra l'industria e il pubblico, allungando la catena di distribuzione unidirezionale. I profitti di questo ulteriore soggetto sono drenati agli artisti, non certo all'industria che mantiene saldamente nelle sue mani le licenze.

Il modello rimane sempre lo stesso a dispetto delle nuove tecnologie che consentirebbero nuove forme di business, disintermediando il rapporto tra artisti e pubblico. Con internet per la prima volta l'artista può dialogare direttamente col suo pubblico, scrivere libri a puntate recependo il feedback dei propri lettori, distribuire le proprie opere direttamente online mantenendo a sé tutti i guadagni (i Dispatch ebbero un notevole successo, pur essendo indipendenti e quindi non avendo alcuna copertura pubblicitaria radio o di altro tipo, grazie alla distruzione delle loro opere su Napster, giungendo a suonare al Madison Square Garden nel luglio del 2007).
La disintermediazione non è prerogativa esclusiva delle opere dal basso costo, ma è applicabile anche alle opere più costose quali i videogame (a differenza di un film che presenta una sola storia lineare, un videogame deve presentare necessariamente più storie alternative e quindi può risultare più costoso anche di un film), laddove già oggi dei videogame sono stati finanziati rivolgendosi direttamente ai potenziali acquirenti tramite sistemi di crowdfunding.

La caratteristica di questo modello di business del tutto nuovo è, però, l'eliminazione degli intermediari, quindi la perdita di potere (e guadagni) da parte dell'industria del copyright. Ovvio che l'industria cerchi di ritardare il più possibile un evento del genere, sfruttando al massimo sistemi di distribuzione quali i servizi di streaming che di fatto sono principalmente uno specchietto per le allodole (essendo, a torto, considerati come qualcosa di separato dall'industria, notoriamente non ben vista, sono più apprezzati, quasi novelli Robin Hood che danno la musica a basso prezzo).

La creazione di un nuovo livello di intermediazione non è positivo per gli artisti, visto che è dal valore creato con la loro musica che deve uscire la sua remunerazione. Lo è invece per gli editori, sicuramente quelle aziende del web che si sono inserite nel business della musica approfittando della perdurante inerzia dell’industria tradizionale, ma anche per l’industria tradizionale che si è mossa con ritardo ed ottusità manifestando una perdurante incapacità nell’adattarsi alle nuove tecnologie, e ha preferito arroccarsi nella difesa del vecchio modello attaccando a testa bassa tutto ciò che è condivisione online, anche quando tale condivisione era permessa dalle attuali leggi vigenti (vedi fair use).

Internet è solo una grande televisione?

Si deve purtroppo ricordare che, nel corso del processo di revisione della normativa sul copyright, la Commissione DG Market per lungo tempo si è soffermata sullo studio dell'ecosistema internet, dipingendolo come un albero: Internet Ecosystem value tree (albero di valore dell'ecosistema internet), presentato per la prima volta da Kerstin Jorna, direttore della sezione Proprietà Intellettuale nella Commissione DG MARKT, nel 2013.

Internet Ecosystem value tree

Internet Ecosystem value tree

Secondo tale diagramma internet non è altro che un canale di distribuzione, alla stregua di quelli che l'hanno preceduta, il cui scopo è di incanalare i contenuti dai produttori (autori, artisti, giornali, libri, editori, emittenti, industria) verso i consumatori. Nell'albero i produttori sono la radice, i consumatori sono le foglie dell'albero.
I consumatori, in cambio, pagano i distributori e la piattaforma internet per i loro servizi. I distributori poi pagheranno i produttori.
L'idea suggerita dalla Commissione è che se la distribuzione non funziona adeguatamente (non consente il trasferimento dei soldi dai consumatori verso i produttori), le radici muoiono e con esse l'intero ecosistema internet. Il succo è che la politica pubblica e le norme giuridiche devono garantire la tutela dell'ambiente digitale e quindi che i produttori siano pagati.

Sulla base di questo diagramma la Commissione sembra intendere internet come un canale di distribuzione più o meno uguale a tutti quelli che l'hanno preceduta, cioè che internet sia niente di più che una grande televisione, un meccanismo di distribuzione a senso unico (contenuti dai produttori ai consumatori e soldi all'incontrario).

Questo sistema di vedere internet appare estremamente semplicistico, retrogrado e incapace di recepire la vera essenza delle nuove tecnologie digitali. Internet fornisce una quantità di ulteriori servizi che non sono nemmeno menzionati nel diagramma della Commissione, come i sistemi mail e messaggistica, gruppi di discussione, comunità online, progetti e piattaforme educative, culturali e di collaborazione, ecc... Questo per non parlare del fatto che numerosi contenuti (user generated content) ormai sono prodotti direttamente da quelli che nel diagramma sono indicati come “consumatori”.
La caratteristica fondamentale di internet è appunto la multidirezionalità, cioè il consumatore è spesso anche produttore, si tratta di un sistema di distribuzione molti-a-molti (all'interno del quale esiste anche il canale produttori-distributori-consumatori) e non uno-a-uno come la classica televisione.
Insomma, a forza di guardare l'albero si perde di vista l'intera foresta.

La riforma europea

Non è dato sapere se questa concezione di internet è ancora all'attenzione della Commissione europea, anche se appare decisamente conforme al parere Svoboda che è stato presentato di recente e contrapposto a quelli Reda e Adinolfi.
Il rapporto Svoboda, infatti, si concentra sulla tutela del copyright occupandosi di garantire la sopravvivenza dell'industria senza preoccuparsi degli altri aspetti peculiari di internet, ad esempio quale mezzo di esercizio dei diritti umani.

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Viene, quindi, da preoccuparsi, se l'intento di una riforma del copyright finisce per condizionare l'uso dell'ambiente digitale ponendo al centro della normativa la “copia”, invece che il suo utilizzo. Questo perché la “copia” è l'effetto di qualsiasi attività posta in essere online, ad ogni attività corrisponde una copia (es. cache), per cui incentrare la riforma sulla tutela della copia, così come è l'attuale normativa, determinerà necessariamente un controllo su una quantità di copie, forse anche su tutte, e una conseguente limitazione del diritto di comunicazione privata. Perché è un dato di fatto che l'unico modo per controllare tutte le copie è di controllare tutto il flusso del traffico. Per controllare se c'è in rete un bit illegale occorre controllare e leggere tutti i bit.
L'industria del copyright lo sa, e si giustifica dicendo che interverranno solo su quelli illegali. Lo diceva anche la Stasi della Germania est.

Piuttosto che considerare internet come un centro commerciale, l'alternativa è abbracciare una concezione di internet come mezzo di distribuzione multidirezionale, e di esercizio dei diritti umani, così come previsto dai rapporti Reda e Adinolfi, quindi introducendo maggiore flessibilità e attenzione alle eccezioni libere al diritto d'autore, e ponendo al centro della normativa sul copyright non più il concetto di copia bensì quello di utilizzo.
In tal modo si incoraggerebbe il riutilizzo di opere altrui, a fini non parassitari ovviamente (che rimangono illeciti), alimentando la creatività e l'innovazione, perché la creatività non è altro che il riutilizzo e la modifica di quanto viene dal passato (basta guardare la Disney), la creatività non è qualcosa di riservato a scienziati o artisti, ma è connaturato all'essere umano, non è uno stato passivo della mente, ma è un momento di rielaborazione degli elementi antichi per ottenere idee nuove.
Le nuove idee in realtà non sono altro che quelle vecchie arrangiante in modo diverso, e sono costruite da una differente combinazione di elementi preesistenti. Quindi gli ingredienti per la creatività dipendono dal bagaglio di idee che sono disponibili per la ricombinazione. Se si ha un dominio limitato di conoscenze, se si riduce il pubblico dominio, se si limita o impedisce la diffusione delle opere anche quelle che non hanno più un valore commerciale, si hanno meno risorse cui attingere per formare nuove idee.

Oggi siamo di fronte ad una scelta: disegnare l'internet del futuro come un sistema nel quale siamo tutti potenziali criminali e pirati, da monitorare incessantemente, oppure come un sistema nel quale possiamo, volendo, essere tutti artisti e creatori di cultura.

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