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Yemen, perché gli Houthi sono entrati nella guerra Israele-Hamas e come potrebbero inasprire i delicati equilibri in Medio Oriente

15 Agosto 2024 15 min lettura

Yemen, perché gli Houthi sono entrati nella guerra Israele-Hamas e come potrebbero inasprire i delicati equilibri in Medio Oriente

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Durante la rivoluzione yemenita del 2011 e fino ai mesi che precedettero l’estate 2014, prima che la milizia dei “Partigiani di Dio” (Ansarullah) prendesse il potere nella capitale, i sostenitori degli Houthi erano immediatamente riconoscibili dalla notevole quantità di cd dei discorsi di Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah libanesi, piazzati sui loro banchetti elettorali, nella zona dell’università di Sana’a. Per una quarantina di CD che giacevano sul tavolo, uno era sempre inserito in loop audio. Così, sapevi subito, solo dal suono, a distanza, dove andarli a cercare nell’ammasso delle tende del sit-in permanente. Presidiavano notte e giorno l’area loro assegnata durante le proteste, erano particolarmente gentili con i reporter stranieri, il più anziano offriva sempre un tè, le chiacchiere erano assicurate, e tutti i discorsi prendevano una certa piega, intrisa di acrimonia, quando si citava il presidente yemenita appena destituito Ali Abdullah Saleh. Non ce n’era uno, tra gli Houthi, per quanto giovane, vestito all’occidentale: lo scial, tipico turbante yemenita, non mancava su nessun capo e la jambia, il pugnale ornamentale, fasciava ogni cinta. Al pomeriggio spuntavano fasci di qat – la tipica droga da masticazione yemenita - per il rilassamento collettivo; i kalashnikov restavano sempre appesi ai chiodi, o poggiati in terra. Di quella ampia cittadinanza che aveva chiesto uno Stato diverso, gli Houthi erano per noi reporter la comunità più tipica, caratteristica e affascinante dello Yemen del Nord e il loro orgoglio identitario convinceva, al punto che i rappresentanti in loco dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e di altre cancellerie internazionali diedero loro grande credito nella Conferenza di Unità Nazionale che avrebbe dovuto traghettare lo Yemen verso nuove leggi e un nuovo governo, salvo essere sabotata, tra gli altri gruppi tribali, dagli Houthi stessi.

Ma per chi avesse avuto l’opportunità di osservarli da vicino durante l’occupazione della città di Sana’a nell’ottobre 2014, quando a frotte scesero dalla città di Sa’ada all’estremo Nord delle Yemen, proprio al confine con l’Arabia Saudita, sarebbe stata subito chiara la loro piena determinazione nel prendersi con la violenza un Paese in una difficile transizione politica ed economica. E, infatti, vinsero la loro scommessa: forti nel volere e nella vendetta politica, dotati di potente artiglieria e di ampio sostegno nella politica, nell’esercito, negli apparati di polizia, finanziati dall’Iran, pronti a siglare il patto con un diavolo – l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, tornato dall’esilio saudita ed accecato dal potere, tanto che la milizia lo avrebbe ucciso due anni dopo averlo usato per conoscere bene i segreti dello Stato –  gli Houthi non impiantavano la seconda rivoluzione yemenita ma una controrivoluzione che ha precipitato il Paese indietro di due secoli, con l’unico vantaggio di rendere questa area dello Yemen sicura e impermeabile alle infiltrazioni qaediste, ai kamikaze, agli attentati a istituzioni, ospedali, moschee e scuole, che negli anni precedenti non erano mai mancati.

Per anni, pur avendo impiantato un solido governo de facto, e datopienofilo da torcere al governo lealista e ai suoi alleati regionali – Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti soprattutto –  con battaglie di terra tra la valle di Jizan sul confine Nord saudita e il governatorato del Marib, e con omicidi mirati di generali e politici yemeniti eseguiti con droni Shahid nel Sud dello Yemen, da Lahji ad Aden, gli Houthi sono apparsi come l’incarnazione dello stereotipo del miliziano arabo: ciabatte e kalashnikov, ricci ribelli sotto il turbante, dito puntato al cielo per chiedere testimonianza ad Allah dei crimini sauditi, una certa tensione determinata dal consumo di droghe, la giovanissima età, per la maggior parte dei combattenti sulla linea del fronte. Demonizzati dai lealisti e dai sauditi, i comunicatori di Ansarullah sono comunque riusciti a giocare molto bene la carta della forza popolare che rappresenta lo Yemen originario e reale, minacciato dalle monarchie del petrodollaro e da governi nazionali senza spina dorsale, colpiti sistematicamente dalle bombe di fabbricazione europea e americana lanciate dai sauditi, che affamano i bambini yemeniti, oltre che ucciderli.

Tutto vero: per chi è stato e ha visto questo paese in ogni fase della guerra ormai quasi decennale, nessuna di queste affermazioni è falsa. Manca solo un pezzo della storia: la milizia del Nord dello Yemen, per raggiungere i suoi obiettivi, ha impiantato un sistema di governance basato sulla piena appartenenza, sulla lealtà, sul controllo capillare del cittadino, sulla istituzione di nuove leggi e convenzioni sociali, sulla sottomissione delle donne, sulla coscrizione forzata dei giovani alla guerra, sul taglieggiamento economico dei commercianti, sulla paura della ritorsione, dell’arresto, della tortura nei confronti di qualsiasi soggetto critico, non allineato o addirittura sospetto. Una perfetta riproduzione del modello della casa madre iraniana, con una particolare declinazione intrisa di orgoglio natìo yemenita e di pensiero sciita-zaydita, in attesa di un messia che guidi il popolo: se nella governance e nell’apparato di sicurezza gli Houthi yemeniti si modellano sui pasdaran iraniani, nell’aspetto militare il loro riferimento è sempre stato l’Hezbollah libanese.

Ma le conseguenze di questo sistema sono venute fuori molto difficilmente nel reporting internazionale: gli Houthi sono stati molto accorti nel controllare strettamente i (pochi) giornalisti che hanno avuto accesso al loro territorio, spesso – tranne casi rari di colleghi di doppia nazionalità in undercover – per nulla in grado di comprendere cosa fosse diventato lo Yemen del Nord e privati del contatto con voci critiche; nella stampa in lingua araba, questa realtà spiacevole è stata, invece, utilizzata dai media filo-sauditi come una clava, a piena giustificazione delle loro mire sul paese e della pioggia di bombe della Coalizione che, secondo le Nazioni Unite, ha ucciso 377mila persone solo fino al 2021.

Influencers: dal “messia” Abdulmalik al-Houthi a Rashid, il “pirata” del Mar Rosso

Per comprendere la capacità comunicativa, manipolativa e mediatica degli Houthi, articolata in messaggi interni al paese e in una narrazione esterna, basti osservare il fenomeno dei due più noti influencers del gruppo. Il primo lo è per statuto, investitura, ruolo tribale, convinzione, ideologia. Abdul Malik al Houthi, figlio di Badreddin e fratello di Yahia e Abdul-Karim, è il deus ex machina del partito Ansarullah. Entità quasi mitologica e figura politico-spirituale, compare/si sente a tutte le ore sui canali nazionali del partito, in televisione e in radio ma nessuno sa esattamente dove sia e da dove parli.

I suoi messaggi alla nazione sono intrisi di messianismo, orgoglio yemenita, disprezzo per le monarchie del Golfo e per la repubblica lealista ma soprattutto sono volti a restaurare l’idea di riportare lo Yemen a una forma di autarchia islamica originaria, sotto l’egida dell’Islam sciita zaydita che ormai si avvicina pericolosamente al più noto Islam duodecimano iraniano, e di farlo con orgoglio, coraggio, ad ogni costo, agendo e pensando in controtendenza al mondo corrotto e dominato dal nemico sionista e dal potere americano. È una sorta di “make Yemen great again”, proiettato verso un futuro nel quale si attende il giudizio universale, l’avvento di un messia restauratore e dunque occorre attrezzarsi e non fare errori di comportamento che potrebbero costare cari nell’aldilà e destinarci all’inferno.  I pilastri morali sono essenziali: la fede che – aspetto del tutto estraneo allo Yemen pacifico e plurale – non può essere sunnita; la fedeltà al modello monarchico-religioso di un paese non più repubblicano ma strutturato sul modello dell’imamato; l’educazione maschile, tutta religione, forza, partito, famiglia, sacrificio fino alla morte; l’educazione femminile che stigmatizza il ruolo pubblico delle donne, ne incoraggia sempre di più la rinuncia alla formazione scolastica, predica la preparazione religiosa e la vita claustrale e matrimoniale come premessa necessaria di fedeltà al partito e ai suoi valori.

Questo progetto ha molto poco a che vedere con il paese che lo Yemen era prima del 2014 ma certamente non ha nulla a che vedere con ciò che era negli anni Settanta e Ottanta: in fondo, l’inoculazione della propaganda qaedista negli anni Novanta aveva già fatto abbondanti disastri, nell’epoca in cui i giovani yemeniti venivano reclutati per raggiungere l’Afghanistan e lavorare per Osama ben Laden. L’ascesa del partito Ansarullah degli Houthi yemeniti è, semplicemente, un fenomeno uguale negli esiti pur se ideologicamente contrario. Abdulmalik al-Houthi con la sua ineffabile presenza e il suo tono predicatorio ficcante e stentoreo, ipnotizza, affascina e convince gli yemeniti del Nord sulla giustezza della strada tracciata dal loro leader.

Semmai qualcuno avesse dei dubbi in merito, non ha alcun termine di paragone politico ed è bloccato per sempre in un paese da cui non si può nemmeno uscire: i passaporti recentemente emessi dallo Yemen del Nord, non essendo il governo Houthi riconosciuto internazionalmente, non sono validi per l’espatrio. Non sono validi per nessuno yemenita, certo, eccetto che per i funzionari Houthi che si rechino nei pochi paesi amici del partito: l’Iran, la Russia, la Cina, il Libano. La scelta di entrare a gamba tesa nel conflitto Israele-Gaza con azioni navali e aeree kamikaze ha reso, adesso, Abdulmalik noto anche fuori dello Yemen, quantomeno nel mondo arabo. I suoi comunicati sui temi di politica estera iniziano a infiammare anche coloro che non gli avrebbero dato un soldo di cacio dieci anni fa, pronti a ricredersi sulla bontà delle intenzioni di questa milizia, unica forza – insieme a Hezbollah – capace di dare filo da torcere a Israele.

Ma Abdulmalik è indigeribile per un pubblico non yemenita e non arabo. Malgrè lui, c’è da dire che, dove non è arrivato il leader, è arrivato un giovane diciannovenne della città di Ibb, Rashid, star su Tik Tok e Instagram dallo scorso novembre 2023, dopo avere postato un video che lo ritraeva a bordo della Galaxy Leader, la nave battente bandiera delle Bahamas, piratata dagli Houthi yemeniti che hanno preso in ostaggio l’equipaggio con una operazione alla Mission Impossible, filmata con camere go-pro e diffusa sui social del loro media ufficiale, al-Masirah. Rashid, in un’intervista con il noto streamer di Twitch Hasan Piker, ha spiegato ai 2,6 milioni di follower dell’influencer che gli piace essere definito “il pirata del Mar Rosso” e che è semplicemente “uno yemenita che sostiene la causa palestinese”.

Rashid ha spiegato che ama “le grandi avventure” ma che non vuole discutere il fatto che sia diventato un sex idol tra le ragazze britanniche specialmente, che lo paragonano all’attore Timothee Chalamet. Il giovane, i cui account su TikTok, Instagram, X e Threads sono stati rimossi dalle piattaforme per incitazione al terrorismo, ha allora deciso di modificare il suo nickname in “Timhouthi Chalamet”. Il 19enne ha fatto guadagnare alla causa di Ansarullah molte simpatie, specie quando ha dichiarato “di essere onorato di essere bombardato dagli Stati Uniti, adesso: ci stiamo confrontando con loro direttamente”. In Occidente, Rashid con le sue parole ha messo d’accordo i pro-pal convinti con gli anti-americani moderati. Il suo viso e il suo fisico hanno fatto il resto.

Il ruolo degli Houthi nella guerra israelo-palestinese: quale l’apporto nelle prossime fasi?

A distanza di nove mesi da queste dichiarazioni e dopo nove mesi di guerra a bassa intensità tra Yemen del Nord e Israele, con gli interventi diretti delle missioni “Prosperity Shield” e “Poseidon Archer” della Coalizione guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna, siamo di fronte a uno di quei casi in cui non basta avere un arsenale particolarmente efficiente per prevalere.

Pochi giorni fa, il vice ammiraglio George Wikoff, comandante del US Naval Forces Central Command, ha dichiarato che la minaccia yemenita (Yemeni Armed Forces), sia alla navigazione nell’Indo-Mediterraneo che a Israele, più volte colpita con droni, non può essere sconfitta. Il generale è stato piuttosto chiaro, parlando durante un evento ospitato dal Center for Strategic and International Studies. “Abbiamo bisogno di un coinvolgimento della comunità internazionale e dobbiamo esplorare metodi “alternativi”, riferisce la cronaca di The Business Insider. La realtà dei fatti è che, per più di otto mesi, la Coalizione ha tentato di mettere in sicurezza le navi di passaggio tra il Mar Rosso e il golfo di Aden ma gli Yemeniti del Nord hanno martellato senza sosta tutti gli obiettivi, con missili e con droni, senza cedimenti.

Non è piacevole per le forze statunitensi dovere ammettere un disagio simile nei confronti di una milizia sottostimata e misurata dal valore delle ciabatte che indossa. E così sono passati a maniere ancora più forti: hanno operato un raid aereo sull’isola yemenita di Kamaran, circa 70 chilometri a Nord-Ovest di Hodeida. L’isola venne occupata alcuni anni fa dagli Houthi e, in base sia alle loro dichiarazioni che ai report di intelligence, è diventata un avamposto strategico dotato di rampe di lancio, depositi di droni e munizioni, piste per elicotteri armati e attracco di navi veloci per incursioni. 

Se la volontà e la tenacia nel perseguire l’obiettivo sono gli assi nella manica di Ansarullah e delle Yemen Armed Forces, c’è stata però una mano santa, anzi due, che hanno contribuito al loro successo. Sull’Iran ormai sembra inutile soffermarsi, ma lo facciamo lo stesso: la Repubblica Islamica è passata dal far circolare in Yemen valigie piene di toman (la valuta iraniana) per le quali riempiva le pagine dei quotidiani locali nel 2013, al dare sostegno logistico, militare e operativo agli Houthi, soprattutto da quando i miliziani hanno arricchito la loro artiglieria, progettando e costruendo una evoluzione dei droni iraniani di tipo Shahid. I nuovi droni yemeniti (i modelli Sammad 1, 2, 3 e Qasef 1 e 2K) non sono una novità imbeccata a Sana’a dagli iraniani: gli yemeniti non sono mai stati solo e sempre degli esecutori in nessuna strategia concordata con la casa madre di Teheran ma ci hanno sempre messo del loro, conformemente al genio ingegneristico locale che è in grado di assemblare pezzi improbabili dei device più diversi e farli camminare o volare, a seconda dell’utilità del momento. Ma quando il gioco si fa duro, bisogna passare ad un altro livello: l’aiuto di Mosca.

Così sembra ormai assodato, secondo indiscrezioni di intelligence trapelate sul sito Middle East Eye, che l’intelligence militare russa, la GRU, avrebbe messo piede in Yemen per fornire del know-how strategico all’ala militare di Ansarullah e che Sana’a abbia chiesto a Mosca dei missili per implementare la minaccia navale; missili che Putin non ha ancora concesso agli Houthi, grazie a una mediazione del principe saudita Mohammed bin Salman, stimolato dagli Stati Uniti.

Nel momento in cui anche la Russia entra nell’arena, è facile comprendere che la posta in gioco, nel momento in cui si attende una reazione dell’Iran all’omicidio del leader di Hamas Ismail Hanyeh a Teheran, è molto alta. L’ipotesi più accreditata è che la Russia vorrebbe preservare da attacchi di pirateria, non solo le navi battenti bandiera russa, ma anche quelle che trasportano materiale di interesse per il paese: in questo senso sembrerebbe sia intervenuta l’intelligence russa, per educare convenientemente gli yemeniti a non commettere errori.

Ma ci sarebbe di più: oltre all’obiettivo anti-americano, Putin non ha mai nascosto di essere interessato a creare disturbo al più importante competitor petrolifero che abbia, l’Arabia Saudita, e a potere avere interessi nella fase di ricostruzione post-guerra in Yemen, paese con il quale la Russia intrattiene rapporti privilegiati nel settore militare e dell’educazione da ben prima della presidenza di Ali Abdullah Saleh; non disdegnerebbe, inoltre, indebolire le rotte di navigazione nell’Indo-Mediterraneo, da un lato per rafforzare il legame con la Cina e le promesse per la realizzazione della Belt&Road Initiative, dall’altro per spostare alcune navigazioni “delicate” sulla rotta artica, l’unica rispetto alla quale la Russia avrebbe controllo e centralità.

Con o senza i russi, gli yemeniti restano in pole position per rendere i loro servigi alla causa palestinese: con droni su obiettivi israeliani, con missili e droni su navi battenti bandiera israeliana, restano comunque la prima milizia ad avere firmato una reazione diretta dopo l’omicidio di Ismail Hanyeh, ormai ammesso dal Mossad: con un missile hanno colpito una settimana fa una nave container a bandiera liberiana, la Groton, che aveva lasciato il porto di Fujqairah negli Emirati per recarsi a Jedda, in Arabia Saudita, via Aden. Sono i veri e propri kamikaze dell’asse iraniano.

La Houthi fan-base filo-palestinese che ignora il prezzo pagato dai cittadini yemeniti

L’iniziativa e il coraggio degli Houthi, che puntano ad autolegittimarsi nel mondo arabo e nel contesto internazionale con queste azioni, in modo da essere presto riconosciuti come entità che governa il Nord dello Yemen e partecipare alle prossime negoziazioni che metteranno fine alla guerra in Yemen, hanno fatto breccia nell’opinione pubblica. In Occidente, gli Houthi hanno una fan-base spesso coincidente con il vasto movimento dei pro-pal, sia nativi europei o americani che di seconda generazione. Per chi conosce la storia dello Yemen nel dettaglio e l’attuale condizione alla quale vengono sottoposti i rappresentanti politici del partito più vicino e più simile, ideologicamente, alla radice di Hamas, come i Fratelli musulmani yemeniti (il partito Islah), questa affezione verso gli Houthi suona francamente assurda, figlia di uno dei corto circuiti frequenti nella storia delle ideologie politiche.

Non potevo dunque credere ai miei occhi, nei mesi scorsi, coprendo le manifestazioni anti-americane o filo-palestinesi in Giordania, quando, dal fondo del sit-in del partito dei Fratelli Musulmani giordani (Jabhat al-Amal al-Islam), dopo la preghiera del venerdì, si è sollevata in mezzo alla folla la bandiera nazionale yemenita, mentre il segretario generale Murad al-Adaileh tuonava il supporto del gruppo giordano ad Hamas e agli Houthi yemeniti contro il nemico sionista. Mi sono chiesta se sapesse il prezzo pagato dai suoi colleghi di partito, Fratelli Musulmani, sunniti come lui, in questi dieci anni, soprattutto nella città di Taiz: perseguitati, arrestati, torturati e condannati a morte, lì dove non fossero riusciti a fuggire, dalla milizia che lui stesso stava esaltando in piazza. Mi sono chiesta se chi alzava la bandiera sapesse che quella è oggi la bandiera del governo lealista yemenita, non il simbolo del partito Ansarullah degli Houthi che i Fratelli musulmani giordani ammirano e ringraziano. Ma questa è la politica, bellezza, e non si guarda tanto per il sottile, rispetto alla causa più vicina e cogente, da sostenere nell’immediato, ribaltando la storia e riscrivendo le narrative.

Con il nuovo corso degli eventi e la ribalta internazionale conquistata, gli Houthi yemeniti non sono diventati più morbidi. Quando lanciarono la loro partecipazione nella guerra di Gaza a fianco dei palestinesi, avvisai il gruppo di amici e colleghi che lavorano per le UN in Yemen, e lo dissi anche in pubblico, di iniziare a preoccuparsi per eventuali ritorsioni sul personale che in Yemen lavora per le organizzazioni internazionali, pure con il rischio di essere presa per Cassandra. Il fatto è che credo di avere avuto abbastanza margine di osservazione e conoscenza del gruppo per sapere come ragionano: anche se la milizia dipende dalle UN per una serie di azioni di assistenza alimentare e sanitaria sul Nord del paese, gestisce con pugno di ferro il larghissimo mercato nero dell’area, dunque può anche permettersi di portare avanti delle iniziative di deterrenza, a danno diretto dei civili.

Così, nel gennaio scorso, il gruppo ha arrestato quello che ha l’agenzia di stampa Saba ha definito un “network di spie” che avrebbero agito sotto copertura delle organizzazioni internazionali per scambiare informazioni per la CIA, informazioni oggi utili alla Coalizione americana e britannica. I media locali, controllati dagli Houthi, hanno diffuso delle intercettazioni che, a dire delle autorità, sarebbero la prova della loro colpevolezza.

Tra questi uomini e donne, ci sono ben undici membri dello staff UN di nazionalità yemenita, di cui sei componenti dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, particolarmente sottostimato dalle autorità ma anche dai privati cittadini in Yemen dopo il fallimento della speciale commissione UN che avrebbe dovuto indagare le responsabilità saudite nei crimini di guerra sui bambini yemeniti. Tanto rumore per nulla, perché le prove portate in sede UN a New York non sono mai bastate per ottenere il risultato che gli Houthi speravano, ma che, francamente, tutti gli yemeniti ritenevano giusto sulla base della raccolta dei semplici dati numerici.

Secondo le organizzazioni locali per diritti umani Mayyun e Mawtana, 18 di questi arresti sono avvenuti simultaneamente in diverse località: la capitale Sana’a, la città portuale di Hodeida, le città del Nord Amran e Saada. Tra loro, un responsabile del supplier Prodigy di UN è già stato condannato a morte, senza contare che, fino ad oggi, e a partire dal novembre 2021, sono già cinquanta i dipendenti di ong locali yemenite, più il dipendente di un’ambasciata, ad essere stati arrestati.

Un diplomatico yemenita del governo centrale che ha voluto restare anonimo mi ha raccontato del drammatico arresto di una donna in piena notta e della tragedia seguita successivamente alle rimostranze del marito che è stato arrestato anch’egli, sulla scorta della nuova legge, attiva da due anni, di formalizzazione della “guardia” alla donna da parte del parente maschio più prossimo. La donna arrestata sarebbe adesso detenuta nella prigione femminile di Sa’ada, nell’estremo Nord dello Yemen. La madre della donna si sta appellando a tutte le autorità nazionali e internazionali. Al momento, dopo un mese in cui solo le organizzazioni in difesa dei diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch si sono esposte con dichiarazioni pubbliche e report dettagliati sulla vicenda, anche l’alto commissario per i diritti umani, l’austriaco Volker Turk, ha denunciato l’assalto con confisca dei beni immobili all’ufficio delle UN, dichiarando che “è un grave attacco alla capacità delle UN di svolgere il suo mandato, anche quello relativo alla promozione e protezione di diritti umani”.

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Le organizzazioni internazionali stanno finalmente mostrando una comprensibile preoccupazione, dopo anni di prove provate sulle modalità di detenzione arbitraria che, oltre ad azzerare il diritto alla difesa, nello Yemen controllato dagli Houthi, prevede torture con ferri roventi, bastoni di legno, fucili d’assalto, costrizione e agganciamento a corde o catene a muro, minaccia di stupro e stupro, pur di ottenere informazioni o false confessioni. Nulla di diverso o di più edulcorato delle torture attualmente in uso nel carcere israeliano di Sde Teiman ai danni dei detenuti palestinesi. 

Nelle guerre - occorre ribadirlo per chi ne ha esperienza diretta - il più pulito c’ha la rogna. Qualche volta accade che il peso delle responsabilità penda di parecchio, sommando i fattori determinati dall’odio e dalla violenza, ma siamo sempre costretti a misurarli sulla quantità, uno dei pochi metri oggettivi che la giustizia umana si è data per darsi un’autorevolezza possibile.

Immagine in anteprima: frame video Hindustan Times via YouTube

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