Hong Kong, dalle strade alle urne. Le proteste pro democrazia si trasformano in una schiacciante vittoria elettorale
15 min letturaIeri si è votato a Hong Kong. I risultati finora raccolti stanno delineando una vittoria schiacciante dei candidati pro-democrazia e del movimento (390 seggi su 452, rispetto ai 124 ottenuti alle precedenti consultazioni) che da sei mesi è protagonista di manifestazioni, proteste, arresti scaturiti da un disegno di legge che avrebbe permesso a imputati di determinati reati di essere estradati in Cina per essere processati.
Nonostante il provvedimento sia stato sospeso a giugno e ritirato definitivamente a ottobre i manifestanti hanno continuato a scendere in piazza per chiedere alle autorità l'apertura di un'indagine indipendente sulle violenze della polizia commesse durante le contestazioni, l'amnistia per le oltre 1.000 persone incriminate a causa delle proteste, una ritrattazione della polizia che afferma che chi protesta è colpevole dei disordini e l'implementazione di un suffragio universale per eleggere l'intera legislatura e il capo dell'esecutivo della regione.
In questo clima di tensione i seggi elettorali sono rimasti aperti dalle 7.30 alle 22.30 (ore locali) per nominare i 452 membri dei 18 consigli distrettuali. La partecipazione è stata altissima (hanno votato circa 3 milioni di persone) con lunghe file di attesa.
Alla vigilia del voto i numeri degli elettori registrati, in particolare di quelli di età compresa tra 18 e 35 anni, hanno segnato un picco di oltre il 12%, raggiungendo più di 4 milioni di votanti. Un record per la regione. Ma la campagna elettorale è stata contraddistinta da attacchi e arresti.
Diversi candidati indipendenti simpatizzanti pro-democrazia, come Janelle Leung, sono stati aggrediti, alcuni arrestati. Leung, per esempio, è stata colpita alla testa mentre distribuiva volantini e nonostante le pressioni della famiglia affinché abbandonasse la corsa elettorale ha proseguito la sua campagna.
«Voglio dare l'esempio per dimostrare che siamo determinati», ha detto la 25enne ad Al Jazeera. «Per me, la campagna è anche una forma di resistenza. Voglio essere in grado di influenzare il nostro governo al di fuori delle proteste».
Leung, come tanti altri candidati indipendenti galvanizzati dalle manifestazioni antigovernative, ha provato a trasferire la propria lotta dalle strade all'urna.
Ed è per questo che le consultazioni di ieri si sapeva che avrebbero rappresentato un vero e proprio referendum sul movimento di protesta che è andato via via crescendo negli ultimi mesi.
Per i manifestanti e gli elettori pro-democrazia, ottenere la maggioranza dei seggi significa avere voce in capitolo nell'elezione del capo dell'esecutivo attualmente scelto da un piccolo gruppo di lealisti fedeli a Pechino. I consiglieri distrettuali rappresentano, infatti, il 10 percento dei 1.200 membri del Comitato Elettorale che eleggono l'amministratore della regione.
Anche in previsione delle consultazioni e delle manifestazioni che potrebbero svolgersi nei giorni a seguire, venerdì scorso l'Alta Corte di Hong Kong ha temporaneamente ripristinato il divieto di indossare maschere in cortei e manifestazioni, dopo aver dichiarato incostituzionale lo stesso provvedimento soltanto quattro giorni prima. "Le restrizioni che impone ai diritti fondamentali vanno oltre quanto è ragionevolmente necessario [...] e quindi non rispettano il criterio di proporzionalità", aveva spiegato la Corte lunedì scorso in un comunicato stampa.
In un tweet l'attivista pro-democrazia Joshua Wong, già leader del movimento degli ombrelli nel 2014 - grande escluso dalla corsa elettorale di oggi per aver difeso il diritto all'autodeterminazione che è contrario allo spirito della Legge fondamentale dell'ex colonia britannica, secondo quanto riportato in una dichiarazione del governo in cui non viene neanche citato il suo nome - aveva accolto la decisione come una "rara vittoria legale per i manifestanti di Hong Kong".
https://twitter.com/joshuawongcf/status/1196292825526214656?s=20
Il divieto di coprirsi il volto, entrato in vigore alle 00.01 di domenica 5 ottobre, era stato disposto dal capo dell'esecutivo di Hong Kong Carrie Lam, a seguito delle manifestazioni che avevano avuto luogo negli ultimi quattro mesi, grazie a un provvedimento dell’epoca coloniale britannica - utilizzato l'ultima volta nel 1967 - che consente al governatore di approvare nuove regole in caso di emergenza o di pericolo pubblico.
Il provvedimento di venerdì è stato emesso pochi giorni dopo che il massimo organo legislativo della Repubblica popolare cinese, l'Assemblea nazionale del popolo, aveva dichiarato che sarebbe intervenuto, se necessario, per scavalcare il potere giudiziario della città. Da quando è iniziata la crisi politica a Hong Kong si è trattato dell'intervento più risoluto da parte di Pechino.
Il ripristino di sette giorni del divieto di indossare maschere è stato motivato dall'Alta Corte con la necessità di offrire al governo la possibilità di presentare ricorso e "in considerazione della grande importanza pubblica delle questioni sollevate in questo caso e delle circostanze estremamente eccezionali che Hong Kong sta attualmente affrontando".
Dennis Kwok, un legislatore pro-democrazia che ha sfidato il divieto in tribunale, ha commentato di essere "ovviamente deluso dalla decisione". «Se una legge è già stata dichiarata incostituzionale e viola i diritti umani fondamentali del popolo di Hong Kong», ha dichiarato Kwok al New York Times, «non dovrebbe essere applicata affatto, nemmeno per un giorno, neanche per un secondo».
Nel mese di novembre le proteste hanno determinato un'escalation di violenza che ha causato le prime due vittime, una delle quali è Chow Tsz-lok, uno studente dell'Università di Scienza e Tecnologia, morto l'8 novembre a seguito di una caduta dal terzo al secondo piano di un parcheggio a Tseung Kwan O mentre la polizia effettuava nelle vicinanze un'operazione contro i manifestanti sparando gas lacrimogeni.
Thousands of people across Hong Kong held vigils on November 8 for Chow Tsz-lok. pic.twitter.com/nHKZa5WIyr
— SCMP News (@SCMPNews) November 8, 2019
Sarebbe stata proprio la morte del 22enne, causata secondo i manifestanti dalla polizia, ad aver provocato le proteste che nelle ultime settimane hanno coinvolto varie università.
Uno degli scontri più violenti è iniziato lunedì 11 novembre all'Università cinese di Hong Kong assaltata dalla polizia che sospettava che la struttura fosse utilizzata come "fabbrica di armi" dagli studenti che per difendersi si sono barricati all'interno del campus. Il giorno successivo, dopo che l'intervento dei rappresentanti dell'università non era riuscito a diminuire la tensione, gli agenti antisommossa hanno fatto irruzione nell'edificio sparando centinaia di gas lacrimogeni.
Per proteggersi dal gas gli studenti sono scappati verso il campo sportivo adiacente. Lo scontro è durato fino a notte inoltrata con i giovani manifestanti che hanno dato fuoco alle barricate e gli agenti della polizia che gli hanno puntato contro cannoni ad acqua con liquido blu urticante.
Più di 100 ragazzi sono stati assistiti in un centro di pronto soccorso improvvisato, allestito nei locali della palestra. Cinque manifestanti sono stati arrestati.
Dopo cinque giorni di occupazione, venerdì 15 novembre, gli studenti hanno abbandonato l'università ma, intanto, proteste analoghe erano state organizzate in altre facoltà, alcune delle quali, tra cui l'Università cinese, hanno cancellato le lezioni per l'intero semestre.
Chinese University of Hong Kong announces the end of classes for the semester. Will resume on Jan. 6, 2020 pic.twitter.com/PdjzrximcJ
— Austin Ramzy (@austinramzy) November 13, 2019
“Attaccando i campus - scrivono in un articolo del New York Times Edward Wong e Ezra Cheung - la polizia ha violato l'ultimo rifugio dei manifestanti, una mossa che porta la violenza nel cuore delle università e invoca il ruolo chiave e importante dell'attivismo studentesco nella storia globale dei movimenti democratici”.
«Quello che la gente ha capito è che le proteste, il movimento, lo scontro sono inevitabili», ha detto al New York Times Gabriel Fung, uno studente 19enne del secondo anno dell'Università di Hong Kong. «Prima o poi ti raggiungono ovunque ti trovi».
È nelle università che studenti e giovani leader organizzano rivolte contro il Partito comunista cinese e diffondono idee a favore della democrazia che sono alla base delle proteste (è accaduto così anche per il movimento degli ombrelli) ed è sempre lì che discutono di disuguaglianza economica e di omogeneizzazione culturale a cui attribuiscono la responsabilità di un futuro desolante per la loro generazione.
Da giugno gli studenti attivisti di Hong Kong vivono ritmi serrati protestando durante i fine settimana, studiando, seguendo le lezioni, presentando domande per gli stage, lavorando. Molti discutono con i genitori che non approvano le loro scelte politiche o le modalità utilizzate per le proteste. Centinaia e centinaia sono quelli che sono stati arrestati e rilasciati dopo un breve periodo di detenzione.
La difficile situazione che si è determinata nelle facoltà ha spinto gli agenti di polizia ad organizzare l'evacuazione di decine di studenti cinesi attraverso il confine con Shenzhen, dove gli hotel hanno offerto loro camere gratuite.
Uno studente dell'Università di Hong Kong, che ha preferito mantenere l'anonimato, ha raccontato al New York Times di sentirsi più sicuro nel campus che per strada. Il giovane ha spiegato che a causa della situazione di tensione che si vive a Hong Kong preferisce, come tanti suoi colleghi, non esprimere apertamente opinioni a favore di Pechino e che, talvolta, evita di parlare ad alta voce in mandarino, la lingua ufficiale cinese.
Anche l'Università di Hong Kong è stata teatro di scontri. Gli studenti hanno costruito barricate e lanciato mattoni da pavimentazione dai balconi.
La tensione era in parte dovuta all'arrivo della polizia che aveva prelevato uno studente dal dormitorio.
Lunedì e martedì mattina, gli agenti di polizia sono arrivati agli ingressi del campus per cercare di liberare le barricate. Hanno sparato gas lacrimogeni, ma poi si sono ritirati.
Ma gli scontri più feroci sono avvenuti al Politecnico di Hong Kong domenica 17 novembre quando gli agenti antisommossa hanno circondato il campus per cercare di far sgomberare i manifestanti che erano barricati da una settimana e avevano costruito muri di mattoni, catapulte giganti, bombe molotov, e avevano bloccato il tunnel di Cross Harbour, adiacente all'università, e incendiato un ponte che sovrasta le cabine del pedaggio.
All'entrata del Politecnico di Chatham Road, gli incidenti tra manifestanti che lanciavano bombe molotov e polizia che rispondeva con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua sono durati 24 ore.
Centinaia di studenti hanno cercato di lasciare l'università lunedì 18 novembre ma sono stati bloccati dal lancio di gas lacrimogeni della polizia. Alcuni hanno provato a fuggire da un ponte calandosi con delle corde, altri attraverso condotte fognarie.
I soccorritori hanno dichiarato che almeno 200 manifestanti sono riusciti a scappare mentre circa 70 sono stati portati in ospedale a causa di ipotermia e vertigini dopo non essere riusciti a trovare una via di fuga attraverso le fogne.
Dopo un assedio durato tre giorni, la maggior parte dei manifestanti - più o meno 1.100 - è stata arrestata o si è arresa alla polizia.
Mentre all'interno del Politecnico e nelle strade adiacenti si consumava una battaglia serrata, all'esterno i genitori degli studenti manifestavano la propria preoccupazione per il rischio che i propri figli potessero essere arrestati.
Madri e padri angosciati per paura e rabbia hanno chiesto che la situazione di stallo, in cui versavano i propri figli intrappolati, si risolvesse nel più breve tempo possibile, come spiegato in un articolo del New York Times da Tiffany May e Paul Mozur.
Molti genitori erano preoccupati non solo per la sicurezza dei ragazzi ma anche per le conseguenze a lungo termine che le proteste avrebbero potuto causare: studi interrotti, accuse penali, carcere.
Se da un lato questi genitori hanno vissuto il timore delle conseguenze delle proteste nelle vite dei propri figli, dall'altro hanno avuto la possibilità di vivere in prima persona quanto stava accadendo subendone le conseguenze (alcuni sono stati colpiti dai proiettili non letali della polizia e hanno assistito ai pestaggi) e di capire la scelta dei loro figli di sfidare le autorità e resistere.
«Se non fosse stato per mia figlia che si trova all'interno [del campus], non sarei arrivato così vicino», ha dichiarato Sam Ho, un designer di interni di 43 anni. La figlia diciassettenne aveva detto alla madre di dover andare a scuola per consegnare alcuni libri ma poco dopo le comunicazioni si sono interrrotte. Senza dirlo ai genitori, la ragazza si era unita a un gruppo di preghiera per la pace nel campus.
Quello stesso giorno la polizia aveva bloccato le uscite del campus dopo che i manifestanti avevano dato fuoco al ponte, bloccando il traffico del tunnel. Una mossa che aveva finito con l'intrappolarli.
«Prima mi chiedevo se per alcune scelte i manifestanti, o quelli che sembravano essere manifestanti, avessero superato il limite. Adesso ho una comprensione più profonda del perché abbiano dovuto usare quelle tattiche», ha detto Ho, aggiungendo di essere molto preoccupato per il timore che la polizia avrebbe potuto colpire e prendere a calci la figlia (che fa parte del gruppo dei 1.100 studenti arrestati), come testimoniato da alcune riprese video di numerosi arresti che mostrano agenti che picchiano studenti presi in custodia.
La prima notte dell'assedio Ho era talmente tanto sconvolto da aver deciso di unirsi ad altri tre genitori in un'azione di salvataggio. Il piccolo gruppo ha infatti scalato un'alta recinzione per raggiungere il campus, ma ha abbandonato il tentativo dopo che uno di loro è stato colpito dalla polizia con un proiettile non letale, cadendo tra i cespugli.
Partecipare all'azione ha cambiato il pensiero di Ho sulle bombe molotov che i manifestanti hanno lanciato contro gli agenti antisommossa. «Le bottiglie molotov che [i ragazzi] lanciano servono principalmente a creare distanza dalla polizia», ha detto.
Durante una conferenza stampa che si è tenuta martedì scorso, i genitori dei ragazzi del Politecnico hanno fatto appello alle autorità di Hong Kong, puntando il dito contro il loro linguaggio intransigente, criticandole per aver definito “rivoltosi” tutti i residenti del campus. Per mesi, la polizia e il governo di Hong Kong, insieme ai mezzi di informazione statali cinesi, hanno usato il termine "rivoltoso" per descrivere i manifestanti, sia pacifici che violenti.
Nelle ultime settimane le azioni della polizia sono state sempre più al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Una delle immagini che ha suscitato più clamore è stata quella che ritrae un agente di polizia che punta la pistola a distanza ravvicinata contro un manifestante che gli va incontro. In un video che riprende la scena si vede una figura vestita di nero che si accascia a terra prima di cercare di fuggire per non essere inseguita. Il manifestante è stato accusato - mentre si trovava in ospedale in terapia intensiva - del reato “di assemblea illegale”. Otto giorni dopo, il poliziotto non è stato sanzionato - come tutti gli agenti di polizia coinvolti negli scontri recenti - ed è ancora fuori servizio per riprendersi dalle ferite riportate. Quella dell'11 novembre è la terza sparatoria ravvicinata dall'inizio di ottobre che ha coinvolto un manifestante.
Per molti - scrivono Sue-Ling Wong e Nicolle Liu sul Financial Times - quegli spari simboleggiano il crollo dello stato di diritto in uno dei principali centri finanziari del mondo che, insieme al suo sistema legale, ha finora distinto Hong Kong dal resto della Cina.
La protezione di cui beneficiavano prima i cittadini di Hong Kong è stata rimossa e viene usata come arma dalla polizia e dal governo per reprimere la più grande rivolta democratica su suolo cinese dal massacro di Piazza Tiananmen del 1989.
Più di 4.400 persone sono state arrestate da quando sono iniziate le proteste mentre un unico agente di polizia, in un corpo formato da 30.000 unità, è stato sospeso nello stesso arco temporale.
«È scandaloso che gli agenti di polizia che hanno sparato contro le persone non siano stati sospesi e che non sia stata aperta un'indagine sulle circostanze in cui sono avvenute le sparatorie», ha detto al Financial Times Antony Dapiran, un avvocato di Hong Kong. «È una cosa che avviene in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti, dove la polizia spara continuamente alle persone».
Per Wong e Liu gli agenti dovrebbero usare le armi come ultima risorsa, soltanto se la loro vita è minacciata.
Ma ad Hong Kong cresce la rabbia per il comportamento degli agenti e l'immunità di cui sembrano godere da quando i disordini sono iniziati a giugno. Un sondaggio di ottobre condotto dall'Università cinese di Hong Kong - spiegano Wong e Liu - ha rilevato che il 51% della popolazione non ha fiducia nella polizia rispetto al 6,5% registrato prima dello scoppio delle proteste.
«Nessuno segue più le regole e le linee guida", ha affermato un agente di polizia ventenne che ha chiesto di mantenere l'anonimato. «Quando i miei colleghi infrangono la legge, non lo ammettono mai e i nostri superiori li coprono».
La violenza, però, si è intensificata su entrambi i fronti. Lunedì 18 novembre, lo stesso giorno in cui l'agente di polizia ha colpito a distanza ravvicinata il manifestante, un gruppo di dimostranti antigovernativi ha dato fuoco a un uomo dopo aver avuto una discussione.
Secondo un sondaggio pubblicato dall'Istituto di ricerca sull'opinione pubblica di Hong Kong la scorsa settimana - proseguono Wong e Liu sul Financial Times - l'83% delle persone intervistate ritiene che il governo di Hong Kong sia responsabile dell'aumento della violenza, il 74% attribuisce la responsabilità la polizia e il 41% ai manifestanti.
«È ingiusto dare la colpa agli agenti di polizia per l'attuale situazione in preda al caos e al panico», ha affermato John Tse, capo delle relazioni pubbliche delle forze di polizia. «Chi avrebbe mai immaginato che un'università potesse diventare una sede di produzione di bombe molotov e un rifugio per rivoltosi e criminali?».
Ma l'impunità delle forze di polizia è garantita anche da una pratica sempre più diffusa tra gli agenti di coprire i propri volti ed eliminare il numero di identificazione (giustificando la rimozione per evitare che siano presi di mira sui social), rendendo più difficile perseguire o indagare su atti illegali o abusi di potere.
“Questo fine settimana, ancora una volta, abbiamo assistito a scene diventate consuete a Hong Kong: cannoni ad acqua, barricate in fiamme, bombe molotov. La situazione nell'ex colonia della corona è ulteriormente peggiorata negli ultimi giorni. La polizia di Hong Kong opera di fatto senza alcun controllo e non sembra che tutto questo stia per cambiare. Anche le violazioni più gravi da parte della polizia potrebbero rimanere impunite. Il governo di Hong Kong ha spiegato chiaramente che non è disposto a rispondere alle richieste dei manifestanti. Neanche a quella più importante: un'indagine indipendente sulla violenza della polizia” scrive Philipp Bilsky, caporedattore di Deutsche Welle in Cina, che esprime grande preoccupazione per l'aumento della violenza da entrambe le parti.
“Adesso la polizia di Hong Kong minaccia di usare proiettili veri contro i manifestanti. Ma è evidente che l'uso di ulteriore forza causerà solo maggiore violenza da parte dei manifestanti. Chiunque voglia capire come si è sviluppata la situazione attuale deve guardare a quanto accaduto negli ultimi anni. Ripetutamente gran parte della società di Hong Kong ha protestato pacificamente contro la crescente influenza di Pechino e per una maggiore partecipazione democratica. Ma poco è cambiato. Molti manifestanti sono quindi giunti alla conclusione che le proteste pacifiche non possono portare cambiamenti. Al suo interno Hong Kong sta affrontando una crisi politica. Se il governo vuole uscire dall'attuale situazione di stallo, avrà bisogno di una soluzione politica. Ma per il momento sembra più che improbabile. Al momento non vi sono iniziative politiche significative proposte dal governo di Hong Kong” conclude Bilsky.
Nonostante la censura da parte della Cina su quanto sta accadendo a Hong Kong le proteste dei dimostranti hanno suscitato le simpatie di alcuni cittadini cinesi che esprimono il proprio sostegno attraverso i tweet pubblicati da @midwaydude, un utente di cui non si conosce il nome che pubblica messaggi provenienti dalla Cina continentale che manifestano solidarietà.
"Ci sono due parole chiave nella loro vita: solitudine, per non essere in grado di esprimere apertamente i loro pensieri in Cina, e dolore, perché si sentono tristi per quello che è successo a Hong Kong", ha raccontato @midwaydude a Quartz.
Cittadino di Hong Kong, trasferitosi in città dalla terraferma da bambino, @midwaydude si è guadagnato l'attenzione su Internet in Cina con post che cercano di spiegare Hong Kong alla Cina e viceversa. Dopo essere stato bannato dalla piattaforma social cinese Weibo, è passato su Twitter dove utilizza il suo account come canale sicuro per le persone in Cina che vogliono esprimere le proprie opinioni senza il rischio di ritorsioni da parte delle autorità o dei troll cinesi.
Il 13 novembre, il giorno successivo all'irruzione della polizia nel campus dell'Università cinese di Hong Kong, @midwaydude ha pubblicato un thread con i messaggi che aveva ricevuto dalla Cina in cui molti utenti hanno ricordato il movimento studentesco democratico dell'aprile del 1989.
“Cittadini di Hong Kong, vi preghiamo di perdonarci per non potervi stare apertamente accanto, ma speriamo che capirete che non siamo vostri nemici. Vorrei che poteste ottenere la libertà che alcuni studenti cinesi non sono riusciti a ottenere 30 anni fa. Possa la gloria essere con Hong Kong!”, ha scritto un utente che ha detto di essere uno studente cinese attualmente all'estero.
In un altro messaggio, un cittadino cinese di Guangzhou, si è descritto come un "cittadino virtuale di Hong Kong". "Non avrei mai immaginato di vedere un 4 giugno 2.0. State combattendo contro l'intero regime autoritario e l'unica cosa che posso fare è pregare per voi in silenzio ", ha scritto.
@midwaydude ha dichiarato a Quartz di aver ricevuto più di 100 messaggi per la maggior parte provenienti da persone che hanno detto di essere studenti. Con sua grande sorpresa, oltre la metà dei ragazzi ha dichiarato di vivere attualmente in Cina, dove è altamente rischioso dare supporto a Hong Kong.
Gli scontri nelle università di Hong Kong hanno suscitato il sostegno dei cinesi anche su Pincong, un forum in lingua cinese fondato lo scorso anno e con sede all'estero molto popolare tra i cinesi liberali, che vi accedono tramite reti private virtuali. Più o meno nello stesso periodo in cui @midwaydude ha pubblicato il suo thread su Twitter, un utente di Pincong ha lanciato una campagna online chiedendo agli studenti cinesi che si trovano in Cina e nel resto del mondo di inviare incoraggiamenti ai manifestanti di Hong Kong.
La campagna ha raccolto oltre 800 commenti e più di 100 foto di sostenitori che si sono identificati, per la maggior parte, come studenti di istituti della Cina continentale o cinesi che studiano in atenei stranieri, tra cui l'Università di Cambridge, l'Università di Harvard e il Massachusetts Institute of Technology. E anche nei messaggi lasciati su Pincong non è mancato il riferimento alle proteste di Tiananmen: "30 anni fa, Hong Kong ha sostenuto il 4 giugno. Oggi, gli studenti universitari della Cina continentale sostengono Hong Kong".
Foto in anteprima via BT