Holostem, come una terapia genica per malattie rare è diventata realtà
|
Aggiornamento 29 novembre 2023: Oggi pomeriggio alla Camera, il ministro alle Imprese e al made in Italy, Adolfo Urso, ha annunciato l’autorizzazione alla realizzazione del piano, sostenuto anche da Regione ed enti locali, per l'acquisizione della Holostem, il polo di ricerca sulle cellule staminali impegnato nella cura di malattie rare, che rischiava la chiusura. “Confermiamo la nostra disponibilità a sostenere un serio progetto scientifico e industriale", ha dichiarato Urso.
Il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e l’assessore regionale allo Sviluppo economico, Vincenzo Colla, hanno espresso la propria soddisfazione dopo l’annuncio del ministro dell’autorizzazione al subentro di Enea Tech con la propria Fondazione ai soci Holostem. Una soluzione, questa, fortemente sostenuta dalla Regione e dagli enti locali, e che scongiura la messa in liquidazione dell'azienda biotecnologica modenese, spin-off del Centro di medicina rigenerativa ‘Stefano Ferrari’ dell’Università di Modena e Reggio Emilia, fondata dal professor Michele De Luca.
Da anni a Modena c’è un grande laboratorio di ricerca, nato dalla collaborazione tra l’Università di Modena e Reggio Emilia, la multinazionale farmaceutica, Chiesi Farmaceutica, Michele de Luca e Graziella Pellegrini, che da più di 30 anni studiano l’utilizzo delle cellule staminali per sviluppare terapie dedicate alla cura di malattie rare. Si chiama Holostem ed è conosciuto in Italia e in Europa in particolare per la cura dei cosiddetti “bambini farfalla”, affetti da una grave e rara malattia che attacca la pelle.
L'anno scorso Chiesi Farmaceutici ha comunicato la volontà di uscire dalla società e una soluzione per la sopravvivenza del laboratorio e centro di ricerca era stata trovata nella fondazione Enea Tech e Biomedical – creata nel 2020 dal governo per investire nel settore biomedico – che aveva dato la sua disponibilità a rilevare Holostem. L’ultimo passaggio richiesto era l’autorizzazione del ministero delle Imprese e del Made in Italy, che controlla la fondazione, ma l’investimento è stato bloccato proprio dal ministero perché, a suo dire, costituirebbe un un aiuto di Stato, una forma di concorrenza sleale vietata dalle direttive europee. Tuttavia, le cose non sembrano stare come sostiene il ministero, perché Holostem è l’unica azienda in Europa che fa ricerca su questa terapia e i regolamenti europei prevedono che l’aiuto di Stato possa essere concesso quando rappresenta uno strumento per garantire la produzione di un bene necessario.
Il 30 novembre è l’ultimo giorno disponibile per ottenere l’autorizzazione del ministero: senza un rilancio economico, dal primo dicembre Holostem sarà costretto a chiudere, l’azienda sarà liquidata, per i ricercatori inizierà la procedura di licenziamento e le ricerche saranno interrotte. In questi giorni, molti ricercatori europei e italiani hanno scritto al ministero delle Imprese e Made in Italy per sostenere la causa di Holostem, mentre la fondazione Enea Tech ha presentato un ricorso argomentato alla mancata autorizzazione del ministero, considerato anche che, da quanto è stata creata nel 2020, non ha speso nemmeno un euro dei 500 milioni messi dal governo.
In questo articolo, il ricercatore Ettore Meccia racconta cosa hanno significato per lui, in quanto biologo molecolare, le ricerche condotte da Holostem, perché sono importanti e perché sarebbe un grosso danno per la scienza la chiusura del centro di ricerca.
I sogni di un bambino
Inutile negare che nei sogni di ogni giovane ricercatore, o almeno in quelli di un giovane biologo molecolare come sono stato io – un bambino appena entrato nel mondo magico del laboratorio che prendeva geni da una parte, li modificava, li metteva da un'altra parte, li accendeva, li spegneva – c'era la terapia genica.
C'è una malattia, tu sai qual è il gene responsabile della malattia, sai come aggiustarlo, come modificarlo e rimetterlo nelle cellule della persona malata, che guarisce. Questo era il sogno di un giovane biologo molecolare in quegli anni.
Ma poi cresci, impari, scopri che non funziona così, che ci sono ostacoli, problemi... Però, se qualcuno che conosci ci riesce, torni subito bambino! Così, quando Fulvio (il prof. Fulvio Mavilio), il ricercatore “ganzo” del mio laboratorio, quello che aveva messo su la biologia molecolare da noi, quello che, quando io ero appena entrato come studente in tesi, era in America, e da lì sarebbe rientrato solo per andare al San Raffaele a Milano e poi iniziare una carriera a Modena, e si era messo a collaborare con un gruppo di ricerca a Modena e l'avevano fatta davvero la terapia genica, noi ci sentimmo orgogliosi. Fulvio era ancora parte di noi, anche se la sua strada lo stava portando lontano.
La malattia, l’epidermolisi bollosa, confesso che non l'avevo mai sentita nominare fino a quel giorno. Del resto, io ne avevo fin troppo da studiare e imparare sui tumori. E mica si può sapere tutto! Ma avevano fatto una terapia genica, funzionava, e per me era una cosa enorme. Era la prova che crescendo, imparando, i sogni possono diventare realtà.
Dopo scoprii che che non c'era solo il cancro che faceva schifo; che quella su cui lavorava il gruppo di Modena era una malattia genetica terribile; che, a causa di una mutazione in un gene a me sconosciuto (LAMB3), la pelle di quei bambini che venivano colpiti diventava sottile, faceva delle bolle e si staccava dallo strato sottostante, il derma, e poi veniva via lasciandoli di fatto senza pelle.
Scoprii con frustrazione quante cose importanti c'erano da sapere oltre a quelle che stavo imparando... E scoprii che, se per il cancro la terapia genica sarebbe rimasta un sogno ancora a lungo, in altri casi poteva funzionare. E l'epidermolisi bollosa era uno di quei casi.
Certo dovevi sapere cosa fare, come farlo… Per questo i ricercatori collaborano, lavorano in team. Uno sapeva come modificare il gene, come reinserirlo nelle cellule usando un retrovirus ricombinante e ricreare così cellule normali. Un altro conosceva bene la malattia, ci lavorava da anni, sapeva con quali cellule staminali dell'epidermide bisognava lavorare, gli olocloni, che sono capaci di proliferare, di crescere tanto in coltura, e di dare origine ad altre cellule che poi differenziano come cheratinociti, pelle.
Ognuno, nel gruppo che era venuto a crearsi, aveva le sue competenze, il suo ruolo. Quella collaborazione fu solo l'inizio di una lunga storia, e quello che produsse si può leggere in un articolo su Nature Medicine del 2006.
Avevano preso un pezzetto di pelle di un paziente (un adulto, 36 anni), ne avevano isolato le cellule staminali, le avevano infettate in coltura con un retrovirus ricombinante che portava la sequenza del gene LAMB3 funzionante (storia un po' semplificata), le avevano fatte espandere e crescere come dei piccoli fazzoletti che poi avevano impiantato sul paziente al posto della pelle malata.
E avevano scoperto che la nuova pelle applicata attecchiva bene, che resisteva, che non conteneva solo i cheratinociti differenziati che costituiscono la pelle, ma anche una piccola popolazione di staminali che garantiva il ricambio e la rigenerazione costante del tessuto.
Avevano scoperto altre due cose molto importanti, quelle che impari con l'esperienza e non con la teoria: che il retrovirus si era integrato in modo stabile (ovvero il gene non era stato silenziato o “sputato fuori” dalla cellula come a volte succede quando cerchi di introdurre geni "estranei", ma continuava ed avrebbe continuato a funzionare nel tempo) e che nessun sito di integrazione era a rischio. Il rischio, infatti, era quello di guarire dall'epidermolisi bollosa per ritrovarsi un giorno con un tumore della pelle o qualche forma di autoimmunità.
Arrivare a questi risultati ha richiesto molta competenza e tantissimo lavoro. Ma era la prova che poteva funzionare.
E poi le cose andarono avanti, nell'Università nacque un centro di ricerca specializzato nella medicina rigenerativa, intitolato alla memoria di Stefano Ferrari (tra gli autori dello studio pubblicato su Nature Medicine nel 2006), e nacque una piccola spin off per favorire il passaggio delle conoscenze dal laboratorio, il luogo in cui si fa ricerca, al luogo in cui si concretizza quella ricerca, si produce con i mezzi, la quantità, gli standard di qualità che un laboratorio non ha. La spin off si chiamò Holostem. E si aprì una finestra verso un mondo nuovo, quello del farmaco, della produzione, di finanziamenti che dovevano crescere, e per un po' le cose continuarono ad andar bene.
Nel 2015 l'ospedale dell'Università della Ruhr Bochum, in Germania, chiede aiuto ad Holostem per un bambino di sette anni che arrivato (si saprà dopo, dalla Siria, ma cambia qualcosa?) in condizioni cliniche disperate. A causa dell'epidermolisi bollosa ha perso completamente la pelle dal 60% del corpo e quando non hai la pelle a proteggerti, perdi liquidi, sei soggetto costantemente ad infezioni da batteri come Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa, c'è infiammazione costante. Il bambino ha la febbre, viene trattato con elettroliti, antibiotici, antidolorifici.
Con l'aiuto di un interprete, ai genitori viene proposta la terapia genica messa a punto dai ricercatori di Holostem, si ripete la procedura già descritta nel 2006 (con qualche innovazione tecnica) a partire da una biopsia di 4 centimetri quadrati di pelle sana che riescono a trovare vicino all'inguine, ma questa volta si punta più in alto viste le condizioni del bambino: si punta a crescere tessuto ingegnerizzato col gene LAMB3 sano, in quantità sufficiente per sostituire completamente la pelle del bambino. E ha funzionato. È tutto raccontato qui (ma attenzione alle foto del bambino prima degli interventi, sono dure).
E poi? E poi, come succede quando lasci il mondo dei sogni, ti scontri con la realtà. Una realtà in cui contano i soldi, contano i guadagni, in cui Holostem è qualcosa di meraviglioso, un orgoglio nazionale, ma... Ma la terapia genica sulle staminali non è come un farmaco che, una volta inventato, puoi continuare a produrne quanto ne vuoi a basso costo: è ricerca continua, che evolve, che ha dei costi, e serve a curare malattie rare, che non è che ci si guadagni tanto rispetto a quanto è costato metterla a punto.
E poi, per chi non leggerà l'articolo su Nature del 2017, "Transgenic grafts were prepared, free of charge, under Good Manufacturing Practices (GMP) standards by Holostem Terapie Avanzate s.r.l. at the the Centre for Regenerative Medicine “Stefano Ferrari”, University of Modena and Reggio Emilia, Modena, Italy". Ovvero, Holostem mette a disposizione le sue competenze, la sua tecnologia, e prepara il tessuto da impiantare sul bambino malato gratuitamente. Chi dovrebbe pagare una terapia ancora sperimentale?
Di quello che succede, e che sta succedendo in questi giorni, tanti hanno scritto meglio di quanto farei io. Ma in sintesi il principale finanziatore di Holostem si ritira, dicendo che Holostem deve crescere, e qualcuno sarà sicuramente in grado di aiutarla... Lo Stato promette di intervenire, ma poi latita, e oggi mancano pochi giorni al momento in cui Holostem sarà liquidata se nel frattempo non succede qualcosa.
E dopo tanti anni dall'inizio di tutto questo, quella terapia genica è ancora nei sogni di qualcuno, non più in quelli di uno scienziato bambino che nel frattempo è cresciuto, ma in quelli di bambini veri, li chiamano bambini farfalla, che potrebbero avere un giorno una pelle normale, e potrebbero crescere anche loro, e diventare come gli altri. La capacità c'è. Il metodo funziona, e si potrà solo migliorare, affinare, magari estendere ad altre malattie.
Bisogna capire se c'è la volontà di portare avanti quei sogni, o se dovremo sperare che quello che oggi c'è, sarà ricostruito, forse, da qualcun altro, da qualche altra parte.
Una nota, Holostem non è solo Epidermolisi bollosa, si occupa anche di altre malattie, hanno un trattamento di ricostruzione della cornea basato su staminali, già approvato da EMA. Ma il mio non era un post su Holostem, era il racconto di come una terapia genica è diventata realtà.