L’HIV sommerso: il problema delle diagnosi tardive e l’importanza di fare il test
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Più della metà delle nuove diagnosi HIV in Italia è tardiva. Nel 2022 l'infezione è stata scoperta in stato avanzato nel 58,1% dei nuovi casi, di cui il 42% presentava già sintomi correlati all'AIDS. Sapere tardi di avere l'infezione vuol dire perdere, almeno in parte, i benefici di un accesso tempestivo alla terapia antiretrovirale (ART) che oggi può garantire un'aspettativa di vita paragonabile a quella della popolazione generale. Più avanza l'età, più è in pericolo la salute di chi riceve una diagnosi tardiva. E proprio le persone anziane sono quelle che rischiano maggiormente di scoprire tardi di avere l'infezione, avvertiva nel 2022 un articolo di “The Lancet HIV” intitolato Time to tackle late diagnosis (È tempo di affrontare la diagnosi tardiva).
In Italia, “le percentuali di diagnosi tardive aumentano dal 2015 e raggiungono il massimo nel 2021 (62,5%), nell'ultimo anno [il 2022, ultimo anno disponibile, NdR] si riducono al 58,1%”, puntualizza l'approfondimento sulle nuove diagnosi contenuto nell'Aggiornamento delle nuove diagnosi di infezione da HIV e dei casi di Aids, a cura del Centro Operativo Aids (COA) dell'Istituto Superiore di Sanità.
Nel 2022 “tra le nuove diagnosi HIV, le persone con più di 50 anni costituiscono quasi un terzo dei casi segnalati”, riassume il COA. Nel decennio monitorato con copertura nazionale, il 2012-2022, “la proporzione di ultracinquantenni tra le nuove diagnosi HIV mostra un costante aumento” e “si associa a diagnosi sempre più tardive”. Se ne ricava l'idea che questa fascia di popolazione abbia una bassa percezione del rischio, in particolare i maschi eterosessuali, e che sia fondamentale incrementare la proposta del test HIV nelle persone in età avanzata.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Chi dovrebbe fare periodicamente il test HIV
“Le diagnosi tardive sono un problema enorme da sempre”, conferma Giovanni Guaraldi, infettivologo dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Modena e fondatore di HelpAids, “sia perché questi pazienti non avranno gli stessi benefici di chi accede subito ai farmaci sia perché negli 8-10 anni in cui sono stati viremici, ossia avevano già il virus in circolo senza saperlo, hanno potuto trasmettere l'infezione, seppure inconsapevolmente”.
Delle 1.888 nuove diagnosi di HIV segnalate in Italia nel 2022 oltre il 40% nasce da un test fatto per sospetta patologia HIV o presenza di sintomi HIV correlati, solo il 24,3% è legata a un test fatto per “comportamenti sessuali a rischio di infezione” e appena l'8,9% per controlli di routine o iniziative di screening a seguito di campagne informative. La trasmissione dell'infezione avviene nella maggior parte dei casi per via sessuale, con il 43% di nuove diagnosi riferite a persone eterosessuali e il 40,9% a MSM (“maschi che fanno sesso con maschi”).
“Tutte le persone sessualmente attive dovrebbero fare periodicamente il test”, consiglia con decisione Guaraldi, “invece in età geriatrica non si fa quasi mai e neanche tra i cinquantenni, perché l'infezione, nel nostro immaginario, è rimasta legata ai giovani omosessuali o al mondo degli utilizzatori di sostanze per via endovenosa, che però è diventato un comportamento raro” (la trasmissione tra injecting drug users era il 4,3% nel 2022, dati COA).
Fare il test fa bene a sé e agli altri
“L'età sessuale attiva oggi supera gli 80 anni, ma non è accompagnata dalla consapevolezza del rischio – spiega Guaraldi - e questo vale per tutte le infezioni a trasmissione sessuale, perché agli anziani nessuno ne parla, come se non facessero sesso o non potessero farlo”. La salute sessuale, in generale, è trascurata, “per esempio le donne in menopausa tendono a sottostimare i rischi delle malattie a trasmissione sessuale proprio quando alcuni cambiamenti fisiologici, come una mucosa vaginale meno trofica e una minore lubrificazione, possono esporre di più all'infezione”.
Quante volte si dovrebbe fare il test? Non c'è una regola, “ma il medico che prescrive i farmaci per la disfunzione erettile dovrebbe proporre anche quello, dando un messaggio di serenità e destigmatizzante – auspica Guaraldi - perché un uomo che ha questo problema tende a non usare il preservativo. Come pure il ginecologo che fa periodicamente il pap test, se scopre che la paziente è positiva al Papilloma virus, dovrà pur fare lo screening per malattie a trasmissione sessuale”.
“Bisogna normalizzare il test”, sintetizza Cristina Mussini, che dirige la Struttura complessa di Malattie infettive dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Modena, e chiarisce: “Come ogni tanto ci si controlla il colesterolo, così ogni persona sessualmente attiva periodicamente dovrebbe fare un test HIV”. Arrivare tardi alla diagnosi “mantiene un certo serbatoio di virus nella comunità” ed è pericoloso per la persona con l'infezione, fintantoché non accede alle cure.
I late presenters, le persone che iniziano la terapia dopo aver ricevuto una diagnosi tardiva, all'esame che valuta lo stato del loro sistema immunitario presentano un valore dei linfociti CD4 inferiore a 350 cellule per µL, che è considerato un indicatore di infezione in fase avanzata. “Succede soprattutto a persone convinte di non essere a rischio perché hanno dei preconcetti nei riguardi di chi vive con l'infezione da HIV, si immaginano chissà che promiscuità; ma in realtà – avverte l'infettivologa - io ho avuto in terapia persone che hanno acquisito l'infezione dal primo rapporto sessuale o dall'unica volta che hanno tradito il partner”.
I farmaci di seconda generazione e la PrEP
Curarsi tempestivamente vuol dire allungarsi la vita. “Anche se – precisa Mussini – la qualità della vita dipende da tante cose, dal lavoro, dagli affetti... Il fatto, però, di avere a disposizione farmaci molto ben tollerati dall'organismo, e ora anche quelli iniettabili al posto della terapia per bocca, può aiutare molto i pazienti”. In più “i farmaci long acting, a rilascio prolungato, possono diminuire l'impressione di sentirsi malati e l'autostigma che ne deriva”.
Mentre con la profilassi pre-esposizione (PrEP), dal 2023 rimborsabile dal Sistema sanitario nazionale, “la protezione è quasi del 100% grazie all'associazione di due farmaci che la persona senza HIV deve assumere prima e dopo un rapporto sessuale in cui sarebbe alto il rischio di acquisire l'infezione”, spiega Mussini, “per chi ha già l'infezione oggi sono a disposizione farmaci di seconda generazione, che associano all'estrema efficacia nella soppressione virologica un'alta barriera genetica e consentono di raggiungere in tutti i pazienti soppressioni virologiche ben superiori al 90% da naïf (chi assume il farmaco per la prima volta, NdR) e in seguito quasi al 100%”. Queste terapie, fa notare l'infettivologa, “hanno permesso alle persone che vivono con HIV di avere rapporti non protetti senza trasmetterla, di concepire e partorire per via naturale. Questo è importante per il famoso discorso U=U, undetectable equal untrasmittable”.
La campagna “U=U. Impossibile sbagliare”
Grazie agli studi condotti tra il 2007 e il 2016 su coppie in cui una persona aveva l'HIV e l'altra no, si è capito che la persona con HIV che assume una terapia antiretrovirale efficace e la cui carica virale è soppressa a livelli non rilevabili non trasmetterà l'infezione per via sessuale. Di qui l'equivalenza undetectable (non rilevabile) = untrasmittable (non trasmissibile), sostenuta già nel 2018 da Unaids, il programma delle Nazioni Unite su HIV e AIDS. Per farla diventare patrimonio condiviso, dieci associazioni italiane impegnate nel diffondere consapevolezza sul virus HIV l'hanno messa al centro della campagna informativa lanciata in occasione della giornata mondiale contro l'AIDS, lo scorso 1 dicembre 2023.
“U=U è l'antitesi del famoso alone viola”, spiega Nicoletta Frattini di Associazione Solidarietà Aids riferendosi ai video ministeriali della campagna del 1989 nei quali le persone con infezione erano contornate da quel colore. “Di HIV si parla un po' il primo dicembre, poi tutti se ne dimenticano – rimprovera Frattini – e invece noi vorremmo fosse chiaro che U è uguale a U come due più due fa quattro”. L'attivista, che a Milano è volontaria in un checkpoint dove si fanno test di screening anonimi e gratuiti, insiste sull'importanza di questi contesti più informali in cui si offre ascolto e supporto (sul sito internet della campagna se ne trova la mappa europea) e tocca un punto ancora oggi attuale: “Proviamo a diffondere la consapevolezza che sapere di avere l'infezione non è più una condanna a morte”.
Perché bisogna parlare di sesso per fare prevenzione
“Dopo un test positivo, capita ancora che qualcuno ci chieda: 'Morirò?'. Sembriamo fermi agli anni '90”. Sandro Mattioli, presidente di Plus, racconta l'esperienza nel checkpoint di Bologna dell'associazione di persone Lgbt+ sieropositive che già nel nome (la “s” della sigla Plus) vuole riappropriarsi del termine diventato parte dello stigma. “Chi reagisce così è arrivato al test come ultima spiaggia, anziché farlo con la frequenza necessaria”, spiega l'attivista, che vorrebbe più investimenti sulla prevenzione: “Se ne parla poco e spesso male, affidandola agli ospedalieri che di mestiere fanno altro, curano le malattie più che prevenirle”.
Dietro le diagnosi tardive c'è anche la paura che nasce dalla non conoscenza. “Basta dire che le persone sono spaventate persino dalla sifilide, una malattia oggi guaribile, ma la gente non lo sa”, riporta Mattioli. “Per noi proporre il test è quasi un escamotage per parlare con le persone del sesso che gli piace fare e capire insiemecome possono continuare a farlo riducendo al minimo i rischi. Se la persona risulta positiva, abbiamo un accordo con l'azienda sanitaria che la prende in carico per il test di conferma già il giorno dopo”.
Da sempre le associazioni si battono per diffondere una cultura della prevenzione. “Da anni insistiamo sull'uso del preservativo e sulla PrEP - precisa il presidente di Plus - ma penso che l'espressione 'sesso sicuro' sia errata, mentre è vero che ci sono vari gradi di attenuazione del rischio a seconda delle pratiche e degli strumenti di prevenzione che si usano. Ha senso, invece, puntare a un sesso safer, più sicuro”. Ma l'impressione è che in Italia si faccia poca informazione sessuale e che il sesso sia “qualcosa di cui non parlare perché non è educato, non è bello, è una cosa sporca”. In questo contesto, non è facile abbattere lo stigma verso le persone con HIV, che “è presente anche all'interno della comunità gay – racconta Mattioli – nonostante noi abbiamo avuto un certo tipo di sensibilizzazione forzata”.
Questa difficoltà, secondo l'attivista, è sintomo che c'è un vero bisogno di investire in prevenzione.
Immagine in anteprima via Ministero della Sanità