Hate speech, etica e responsabilità giornalistica
9 min letturaL’hate speech è una delle sfide più importanti che oggi il giornalismo si trova ad affrontare. Di solito giornalisti e politici sono allarmati dalla facilità e velocità con cui messaggi carichi d’odio riescono a penetrare, a diffondersi e a essere dominanti su Internet, e in particolare sui social network. Ma meno attenzione viene prestata a quegli organi di informazione che alimentano intolleranza e rabbia, facendosi quasi sostenitori e portavoce ideologici di forze e pensieri razzisti (dalla xenofobia agli estremismi religiosi) e a come i giornalisti, anche nel modo in cui danno le notizie, a loro volta possano essere cassa di risonanza di messaggi che propagano odio, scrive Cherian George su Ethical Journalism Network (Ejn).
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Per hate speech si intende ogni espressione che disprezza in forma aperta e gravemente offensiva un gruppo ben identificabile (si pensi a una comunità religiosa, un gruppo etnico o una minoranza di genere), mettendo in pericolo o danneggiando i membri. Le discussioni su come gestire i discorsi d’odio perdono spesso il loro obiettivo specifico, si comincia a fare confusione tra le definizioni di cosa è classificabile come hate speech, legittimando spesso proposte ingiustificate di censura. C’è differenza, spiega Ethical Journalism Network, tra:
- Istigare a fare del male sotto forma di violenza o discriminazione negativa, stigmatizzando le persone che vogliamo colpire.
- Utilizzare espressioni che feriscono il sentire di una comunità, inclusi i comportamenti e i valori in cui i suoi appartenenti credono.
- Criticare politici e altri personaggi pubblici, esponendoli alla pubblica riprovazione.
Nel primo caso si può parlare correttamente di hate speech: sono quelle tipologie di espressione che, secondo gli standard dei diritti umani, giustificano un intervento legale. Il secondo solleva questioni etiche, ma generalmente non dovrebbe essere soggetto a restrizioni legali, visto che la libertà di espressione dovrebbe includere il diritto di mettere in dubbio le ortodossie religiose o altre credenze profondamente radicate. Nel terzo caso, a parlare di campagne d'odio sono proprio le particolari figure attaccate (politici, militanti, rappresentanti delle istituzioni, forze dell'ordine, ecc.) che, definendo le critiche ricevute messaggi offensivi e intolleranti, utilizzano l’hate speech come giustificazione per un altro obiettivo, bloccare e controllare i media.
Da un lato, ogni tentativo di etichettare le forme di dissenso non offensive come “linguaggio d’odio” per mettere a tacere critiche delle istituzioni e dei valori dominanti e promuovere forme di controllo e bavaglio, va segnalato e arginato. Dall’altro, però, lo spauracchio della censura e il richiamarsi alla libertà di espressione non possono diventare un modo per non riconoscere quando il giornalismo si fa amplificatore e diffusore di linguaggio e discorsi discriminatori e stigmatizzanti e si sottrae a un confronto sulla qualità e la deontologia professionale.
I giornalisti dovrebbero, invece, prestare continua attenzione alle questioni etiche, prosegue Ejn, e riflettere sul proprio ruolo, osservare da vicino alcune tendenze preoccupanti che meritano massima attenzione e trovare soluzioni. Contrastare il linguaggio d’odio è solo una delle strategie. I media potrebbero investigare sui collegamenti tra i diversi attori in Rete che sono alla base delle moderne campagne d’odio, tracciare i flussi di denaro e di potere, capire chi trae benefici dall’istigazione all’odio, alla discriminazione e alla violenza. Come nel caso della criminalità, la corruzione e l’abuso di potere politico, coprire le campagne d’odio richiama i più alti principi e le competenze più profonde del giornalismo.
L’odio religioso
Uno degli ambiti più problematici e controversi è costituito dall’odio religioso. C’è una tensione, scrive Ejn, tra la necessità di proteggere dall’istigazione e incitamento alla violenza contro le comunità religiose e la libertà di poter criticare le ortodossie religiose e le credenze radicate.
Si tratta di una questione che si gioca su più piani e su equilibri sottili: il modo in cui i media parlano dei musulmani, ad esempio, può variare a seconda delle cornici utilizzate, se si fa riferimento a loro in quanto immigrati, parte di una minoranza vulnerabile, considerati nazione per nazione, o in quanto membri di una religione mondiale con poteri enormi. Se si parla dell’intolleranza che guadagna terreno in molte comunità musulmane o delle ripercussioni del fanatismo e dell’estremismo nei loro confronti.
Un attacco ai valori in cui crede una comunità religiosa è hate speech? Dove la libertà di espressione diventa discorso d’odio? Se dei video (o vignette) rappresentano l'Islam come una religione omicida, i governi dichiarano di non poter legittimamente limitare tale espressione, perché un attacco a un sistema di credenze non rappresenta tecnicamente una chiamata alle armi nei confronti dei suoi credenti. Molti, tuttavia, sostengono che tale denigrazione della loro religione faccia parte di un più ampio attacco ideologico che rende più difficile per loro vivere nella società. Inoltre, al di là di cosa dica la legge, i giornalisti potrebbero astenersi dal fare attacchi scorretti a valori e credenze.
Allo stesso tempo, si dovrebbe riflettere sui motivi per cui l’odio legato al nazionalismo estremo sia spesso trascurato nelle discussioni sull’hate speech. Probabilmente la fedeltà intensa ed esclusiva alla nazione, il patriottismo, tendono a essere percepiti come virtù al contrario di quanto accade se sentimenti simili sono associati alla razza o alla religione. Riflessioni che potrebbero permettere anche di capire per quale motivo sempre più cittadini sono attratti da campagne d’odio.
La notiziabilità dell’odio
Anche gli organi di informazione svolgono un ruolo importante nella diffusione di messaggi di intolleranza. Non mancano circostanze in cui i giornalisti sono accusati di diffondere discorsi d’odio: a volte, alcuni scrivono commenti provocatori e offensivi, altre, riportano dichiarazioni di politici (o altre figure pubbliche) piene di offese gratuite verso altre persone. Le polemiche hanno una notiziabilità maggiore. Ma, riportando, acriticamente affermazioni apertamente intolleranti e cariche di disprezzo, i giornalisti finiscono per accreditare messaggi d’odio che altrimenti non avrebbero avuto risonanza e credibilità.
Si tratta di una questione complessa perché il confine tra riportare una notizia, invitando la società a riflettere sui cosiddetti “agenti di odio”, e diventare strumento quasi inconsapevole di propaganda dei loro messaggi è sottile. Può essere difficile trovare il giusto equilibrio soprattutto se spesso i media hanno più appetito per le polemiche. E di questo approfittano alcune figure politiche “abili a guadagnare la copertura gratuita dei media”, presenti più per la vis polemica con potenziale di viralità che per il valore politico delle loro affermazioni. Figure politiche create dai media, in altre parole. Ejn fa l’esempio dei messaggi discriminanti nei confronti di musulmani e messicani del Presidente Donald Trump negli Stati Uniti, delle posizioni molto discusse di Pauline Hanson, leader del partito One Nation, in Australia, delle dichiarazioni estremiste dei diversi gruppi religiosi in India, che hanno spesso titoli e coperture altisonanti. E facendo un esempio qui in Italia: la presenza mediatica di Matteo Salvini, leader della Lega Nord.
I media hanno un ruolo ancora più attivo nell’alimentare discorsi d’odio durante le campagne elettorali. Si tende a coprire le elezioni più come una corsa di cavalli che come un contesto di confronto politico. In vista del referendum sulla Brexit, i media britannici, ad esempio, hanno dato maggiore risalto alle polemiche all’interno del Partito conservatore o alle posizioni anti-immigrati di Ukip che alle questioni sollevate dal referendum, dando al partito di Nigel Farage una legittimazione politica probabilmente costruita mediaticamente.
Ogni volta che i media, anche inavvertitamente, si prestano alla manipolazione da parte di politici e altre figure in nome della difesa del paese, della cultura, della religione e della razza, possono provocare dei danni nella società. La scarsa comprensione del potenziale impatto delle parole e delle immagini possono portare a contenuti giornalistici che incoraggiano l'odio e la violenza.
Cosa fare? Come riuscire a comprendere cosa è accettabile e cosa non è tollerabile riportare? Come valutare quando un’affermazione è hate speech? I giornalisti dovrebbero prendere in considerazione i contesti in cui le persone esprimono i loro punti di vista, concentrarsi non solo su quello che viene detto, ma su cosa intendevano dire con le loro affermazioni e quali erano i loro obiettivi. È responsabilità dei giornalisti fare sì che ogni persona possa esprimere il proprio parere, ma avere libertà di parola – un diritto garantito a tutti, compresi politici e personaggi pubblici – non significa dare carta bianca per mentire o diffondere calunnie o incoraggiare ostilità e violenza contro un qualsiasi gruppo specifico.
Negli Stati Uniti alcuni media hanno cercato di verificare quasi in tempo reale le affermazioni di Donald Trump, giocando un ruolo importante nel respingere “una politica della paura fondata sul noi-contro-loro”. Probabilmente il fact-checking non ha avuto alcun impatto sui sostenitori di Trump o sul risultato delle elezioni, ma verificare e contestualizzare le informazioni è parte fondamentale del giornalismo ed è una delle strade da seguire per ridare centralità alla politica rispetto alla viralità di una notizia. E se è vero che le notizie corrono veloci, che è sempre più complicato verificare in tempo reale, questo non può essere una giustificazione per non verificare e non interrogarsi sull'etica del giornalismo.
Contare fino a cinque prima di pubblicare
Ejn ha elaborato un test con alcune domande alle quali una redazione e i giornalisti dovrebbero rispondere prima di pubblicare affermazioni per collocare ciò che viene detto e chi lo dice in un contesto etico.
- Contestualizzare lo status e la reputazione di chi parla
Per non diventare strumento di propaganda di politici e personaggi pubblici abili a utilizzare i media per dare visibilità alle proprie affermazioni e suscitare accese discussioni e divisioni a supporto delle proprie posizioni di parte e piene di pregiudizi, i giornalisti dovrebbero prestare maggiore attenzione al contesto e alla reputazione di chi sta parlando. Dire qualcosa di clamoroso o scandaloso non rende un’affermazione di per sé una notizia. Una figura pubblica, capace di agitare e manipolare le folle, non dovrebbe ricevere copertura mediatica solo perché in grado di creare un clima negativo o fare commenti non dimostrati.
In particolare, i giornalisti dovrebbero controllare chi è che parla, analizzare le parole utilizzate, verificare fatti e affermazioni e giudicare con attenzione le intenzioni e l’impatto dei singoli interventi. Compito del giornalista non è, infatti, adottare una posizione contrapposta a queste affermazioni, ma verificare tutto, chiunque stia parlando.
- Considerare la portata delle affermazioni
Prima di pubblicare i giornalisti devono considerare la frequenza e anche la capacità di diffondersi di un’affermazione offensiva. Quanto può diventare virale se la pubblico? E prima ancora ci si deve chiedere: è un’invettiva momentanea o si tratta di diversi messaggi d’odio ripetuti nel tempo? È un modello di comportamento o qualcosa di estemporaneo? La ripetizione di un messaggio può essere un indicatore di una strategia deliberata per generare ostilità nei confronti degli altri.
- Segnalare gli obiettivi delle affermazioni
Quando si decide di riportare un’affermazione, i giornalisti dovrebbero segnalare quali sono gli obiettivi di chi parla, le sue particolari posizioni e convinzioni, l’impatto sui soggetti attaccati, in quanto individui e comunità, in modo tale da poter dare ai lettori tutti gli elementi per poter contestualizzare le dichiarazioni e farsi un’idea più completa. Come e quali benefici ne trarrà chi parla? Le sue affermazioni vogliono danneggiare deliberatamente gli altri?
- Valutare contenuti e stile delle affermazioni
Oltre agli obiettivi, i giornalisti dovrebbero valutare se le affermazioni sono provocatorie, nello stile e nei contenuti. C’è una differenza enorme tra un discorso fatto al pub e uno in un luogo pubblico, davanti a un pubblico eccitabile. Non è un crimine avere idee e opinioni offensive né rendere pubbliche tali opinioni, ma prima di riportarle o scriverle, ci si dovrebbe chiedere: queste espressioni possono essere pericolose? Possono portare a un procedimento penale a norma di legge? Possono incitare alla violenza o intensificare l’odio verso gli altri?
- Avere il polso del clima economico, sociale e politico
I giornalisti, infine, devono tener conto del particolare clima economico, sociale e politico e saper prevedere il probabile impatto delle affermazioni quando l’atmosfera pubblica è già surriscaldata. Ad esempio, il periodo di campagna elettorale, quando i partiti politici si sfidano e sfruttano l’attenzione pubblica per diffondere i propri messaggi, è un momento in cui maggiormente trovano spazio commenti provocatori e di parte. E allora responsabilità dei giornalisti ancor di più è verificare se quanto detto sia corretto, fondato sui fatti e sensato e, soprattutto, riconoscere il particolare momento in cui quelle affermazioni vengono diffuse e il contesto sul quale hanno un impatto: qual è l’effetto immediato sui gruppi o persone chiamati in causa? Chi è influenzato negativamente? Creano allarme sociale ingiustificato? Si tratta di dichiarazioni pensate per rendere le cose peggiori o migliori?
Una checklist del giornalismo etico
Ejn suggerisce, infine, una lista di domande che un giornalista dovrebbe farsi.
Quando ci si trova davanti a storie in cui si utilizza l’odio politico, per evitare di fare sensazionalismo, chiedersi:
- Può essere offensiva, ma innanzitutto è una notizia? È mediaticamente rilevante? Qual è l'intenzione di chi parla?
- Quale sarà l'impatto se la pubblico?
- C’è il rischio di agitare gli animi e incitare alla violenza?
- Le affermazioni riportate sono basate sui fatti e sono state verificate?
Nel raccogliere e riportare materiale controverso, i giornalisti dovrebbero evitare una corsa a pubblicare. È utile fermarsi, anche solo per alcuni momenti, per riflettere sul contenuto di quello che stanno pubblicando:
- Abbiamo evitato il ricorso a cliché e stereotipi?
- Abbiamo fatto tutte le domande pertinenti e necessarie?
- Siamo stati sensibili verso nostro pubblico?
- Siamo stati attenti al linguaggio che abbiamo utilizzato?
- Le foto raccontano la storia senza ricorrere alla violenza e al voyeurismo?
- Abbiamo utilizzato diverse fonti e incluso le voci delle minoranze pertinenti alla storia raccontata?
- Quanto scritto è conforme agli standard stabiliti dai codici editoriali ed etici?
*Grazie a Luciano Picchi per la segnalazione del post di Ethical Journalism Network
Immagine in anteprima via Ethical Journalism Network