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Cosa sta succedendo in Ucraina e l’impatto delle elezioni americane

4 Novembre 2024 9 min lettura

Cosa sta succedendo in Ucraina e l’impatto delle elezioni americane

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Nelle prossime ore arriverà l’atteso verdetto delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. La scelta fra Donald Trump e Kamala Harris è a dir poco cruciale, e non poteva essere diversamente, per il futuro di numerosi conflitti aperti nel mondo.

Dopo che, lo scorso luglio, il presidente uscente Joe Biden si era ritirato dalla corsa elettorale a favore della sua vice Harris, la strategia americana in Medio Oriente e Ucraina è diventata via via più conservativa. Come Lindon Johnson nel 1968 durante la guerra in Vietnam, scrivono Jeffrey Friedman e Andrew Payne su Foreign Affairs, Biden ha scontato un diminuito potere diplomatico derivante dalle ombre sollevate sul suo stato di salute.

Ciò ha determinato una politica estera ancor più inerte, utile a guadagnare tempo in attesa di conoscere il prossimo inquilino, o inquilina, della Casa Bianca nei prossimi quattro anni: d’altro canto, la campagna elettorale di entrambi i candidati si è in modo prevedibile concentrata su temi di politica interna ed economia, sebbene Ucraina e Gaza siano comunque rimaste presenti nel dibattito.

Nelle prossime settimane, ancor prima dell’insediamento ufficiale il 20 gennaio 2025, è lecito aspettarsi un rafforzamento del decisionismo americano in politica estera, a prescindere da chi vincerà. Per Kyiv, però, potrebbe essere già troppo tardi: come ha titolato il Financial Times già un mese fa, l’Ucraina è nella sua “ora più buia”. La situazione militare sul campo sta precipitando in modo lento ma costante, il morale della popolazione è basso, accentuato dalla percezione di un imminente “tradimento” occidentale.

Al contrario, la Russia che pure continua a incontrare difficoltà (secondo fonti del Pentagono nell’ultimo mese Mosca ha perso circa 1200 soldati al giorno) sul campo di battaglia, avanza sul campo e sta vivendo un momento di ascesa. Anche comunicativo. Dopo aver ospitato il summit dei paesi BRICS a Kazan lo scorso ottobre, il presidente russo Vladimir Putin è riuscito almeno in parte a spezzare la sua condizione di isolamento internazionale, accogliendo i leader del sud globale, così come il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, allo scopo di promuovere il suo approccio bellicista nell’emergente mondo multipolare.

Dal canto suo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nelle ultime settimane, ha presentato il cosiddetto "Piano per la vittoria" presso le cancellerie occidentali. Tuttavia, è stato accolto tiepidamente quasi ovunque. La posizione del governo ucraino rimane invariata: l’Ucraina deve invertire la rotta sul campo, prima di eventuali negoziati con Mosca. Soprattutto a Washington, però, gli obiettivi e le conseguenti richieste di Kyiv vengono percepiti come irrealistici – un ammonimento in precedenza già arrivato da altri alleati ferrei dell’Ucraina, fra cui il presidente della Cechia Petr Pavel.

Zelensky sembra aver calcolato male l’(in)azione degli Stati Uniti, scommettendo in estate, dopo l’offensiva su Kursk, su un sostegno americano più spregiudicato. Un sintomo di questa delusione è la decisione di posticipare la seconda Conferenza sulla Pace, inizialmente prevista nei piani ucraini a novembre alla vigilia delle elezioni statunitensi, alla quale avrebbe dovuto essere invitata anche la Federazione Russa.

La situazione militare: l’ingresso della Corea del Nord nel conflitto e il deterioramento in Donbas

Nemmeno l’internazionalizzazione della guerra, con l’ingresso ufficioso, e confermato dal segretario generale della NATO Mark Rutte, delle truppe nordcoreane al fianco di Mosca, sembra al momento concedere a Zelensky il via libera degli alleati alla sua richiesta principale: l’uso dei missili occidentali a lungo raggio sul territorio russo. Il presidente ucraino ha rimproverato i propri alleati di “assistere passivamente” alle truppe di Pyongyang dirette verso il fronte ucraino.

Allo stesso tempo la tattica occidentale di contenimento a oltranza dell’invasione russa, senza al contempo fornire a Kyiv i meccanismi per ribaltare in modo concreto i rapporti di forza in timore di un’escalation nucleare di Mosca, sembra aver raggiunto il suo definitivo punto di rottura.

Secondo l’intelligence estone, nell’ultima settimana le truppe russe hanno conquistato almeno 150 chilometri quadrati di territorio ucraino sul fronte di Donec’k, in particolare attorno l’agognato punto strategico di Pokrovsk.

Il comandante delle forze armate ucraine Oleksandr Syrskyi ha ammesso che la situazione sul campo è “difficile” alla luce dell’offensiva russa “più potente dall’inizio dell’invasione”. Pure sul fronte di Kursk sono state confermate avanzate russe nella seconda metà di ottobre, e negli scorsi giorni, secondo fonti ucraine, ci sarebbero stati i primi scontri fra truppe nordcoreane e le forze armate di Kyiv.

Alcuni analisti sostengono che il problema principale dell’Ucraina non è più, come lo scorso anno, il deficit di munizioni. Oggi Kyiv sconta soprattutto una mancanza di risorse umane e motivazione all’interno dell’esercito, dopo ingenti perdite e diserzioni. Questo nonostante i metodi di arruolamento stiano diventando sempre più aggressivi: una situazione che sta determinando un morale basso sia tra la popolazione, reclutata e non, che tra i reclutatori militari stessi, demotivati nel lavoro quotidiano.

L’Ucraina dall’interno: una crescente disillusione sociale

I trattamenti disumani riservati da Mosca ai prigionieri ucraini – recentemente una giovane giornalista ucraina, Viktoria Roshchina, è morta in circostanze non dichiarate dalle autorità russe – e i costanti bombardamenti russi su infrastrutture civili e palazzi residenziali consentono di mantenere una motivazione residua per la resistenza ai russi. Tuttavia, per alcuni, ciò non basta più: un numero sconosciuto di uomini è morto nel tentativo di attraversare il confine a nuoto lungo il Danubio e il Tibisco, e tra chi rimane cresce il numero di chi dichiara di non credere alla propaganda di guerra del governo che descrive una situazione ben più rosea di quella reale.

Queste difficoltà hanno determinato una stretta del potere centrale: uno dei magazine online più letti, l’Ukrainska Pravda, ha denunciato una “pressione sistematica da parte dell’Ufficio presidenziale” sul proprio lavoro. Già in passato, il caso della mobilitazione arbitraria nei confronti di un giornalista del sito investigativo Slidtsvo.info aveva dimostrato come il governo usasse il reclutamento militare come arma contro alcune voci dissidenti.

In mancanza di volontari e coscritti, l’esternalizzazione di parte della difesa militare all’estrema destra ha determinato un crescente potere di quest’ultima negli ultimi due anni e mezzo di guerra; una condizione non più circoscrivibile come mera strumentalizzazione della propaganda russa.

Un’estrema destra che rappresenta un “pericolo per la democrazia,” aveva dichiarato al Financial Times Oleksandr Merežko, parlamentare di Servo del Popolo, il partito di Zelensky, prima di essere bersagliato dagli stessi comandanti della 3ª Brigata d'assalto autonoma, la divisione nata dai veterani del Reggimento Azov. “Codardo di estrema sinistra,” ha scritto il comandante della brigata Dmytro Kucharchuk in risposta a Merežko, rappresentante di un partito liberale e presidente del Comitato per gli Affari Esteri della Verchovna Rada, il Parlamento ucraino.

Il caos fra un governo con tendenze censorie e il ruolo crescente dell’estrema destra negli apparati militari ha portato alcuni, tra cui il filosofo Andrii Baumeister in un’intervista a Meduza, a definire l’Ucraina un “piccolo Stato totalitario” che combatte un altro “grande Stato totalitario”, la Russia stessa. Dichiarazioni che hanno inevitabilmente scatenato polemiche sullo Stato di diritto in tempo di guerra in Ucraina, con altri intellettuali ucraini che hanno definito le conclusioni di Baumeister esagerate e non suffragate da dati reali. Fra i critici il direttore dell’Istituto per la Memoria ucraino Anton Drobovyč, che pure già nel 2022 aveva avvertito che “[combattendo contro] il drago, non potremo permetterci di trasformarci in esso”.

Fra le notizie positive, lo scorso 31 ottobre la Commissione europea nel suo report annuale sull'allargamento ha sottolineato il progresso dell’Ucraina nelle riforme e auspicato l'apertura dei negoziati con l'Ucraina sui cluster fondamentali di accesso il prima possibile durante il 2025. Se l’ingresso dell’Ucraina della NATO sembra ancora un miraggio per la mancanza di volontà dei suoi azionisti principali, l’accesso di Kyiv nell’Unione Europea appare come il prerequisito fondamentale per il mantenimento dell’ordine democratico post-bellico.

Harris o Trump: cosa cambierà per l’Ucraina, e quali sono le prospettive per i negoziati?

Mentre Bruxelles dichiara di voler accelerare i negoziati il prossimo anno, in una recente visita a Berlino al cancellierato tedesco Zelensky ha dichiarato di non voler prolungare la guerra oltre la stessa data. Sebbene futuri negoziati appaiano oggi più probabili che in passato, i termini per il loro inizio rimangono incerti: qualora dovessero tenersi nel breve termine, saranno probabilmente a scapito di Kyiv in conseguenza dell’attuale slancio militare russo.

In questa ottica, Mosca appare poco incline a trattare, se ciò vuol dire smuoversi dalle richieste iniziali, percepite dall’Ucraina come inaccettabili, mentre Zelensky stesso è in ritardo sulla tabella di marcia, oltre che in rotta con Guterres, dichiarato persona non grata a Kyiv dopo l’inaspettata apparizione del segretario generale a Kazan.

In una più recente visita in Sudafrica, il ministro degli Esteri Andrii Sibiha ha però confermato che la Federazione Russa sarà invitata alla prossima Conferenza sulla Pace organizzata dall’Ucraina, rimandata dall’iniziale data a inizio novembre in attesa di conoscere il vincitore della corsa presidenziale statunitense.

Il nome di chi siederà alla Casa Bianca avrà un impatto inevitabile sul clima in cui questa conferenza, ed eventuali futuri sviluppi diplomatici, avrà luogo. Non è però scontato che la nuova presidenza degli Stati Uniti produca sin da subito una visione chiara e univoca sulla strategia occidentale da adottare in Ucraina. Come scrivono gli analisti Samir Puri e Michael Rainsborough su Military Strategy Magazine “se gli obiettivi strategici e militari specifici della Russia potevano essere inizialmente oscuri all'inizio della guerra, dopo il fallimento dell'assalto russo a Kyiv nelle prime settimane dell'invasione, è la strategia occidentale ad apparire sempre più opaca e priva di tangibilità, al di là del mantenimento della guerra per un periodo di tempo non specificato”.

Kamala Harris è sicuramente la candidata più apprezzata a Kyiv per la sua prevedibilità. Allo stesso modo Harris è preferita nelle capitali europee timorose di vedersi esposte maggiormente al sostegno all’Ucraina in caso di elezione di Trump, che già durante il suo primo mandato aveva lavorato per un disimpegno statunitense nella NATO.

Tuttavia, Harris dovrà invertire la rotta segnata dall’amministrazione Biden negli ultimi mesi, la cui ultima decisione, il pacchetto di aiuti da 425 milioni di dollari approvato lo scorso primo novembre, non è stato lo scossone a sorpresa che Zelensky e vertici ucraini desideravano di vedere prima di elezioni dall’esito incerto. Secondo un'analisi del Royal United Services Institute, il risultato della strategia di Biden è che l'Ucraina sente di aver ricevuto abbastanza per non perdere, ma non abbastanza per vincere.

Secondo alcuni Harris potrebbe acconsentire all’uso di missili a lungo raggio in Russia e persino a una candidatura della NATO di un’Ucraina con parte del territorio ancora occupato da Mosca, ma perché ciò accada non saranno meno decisivi i numeri dei democratici al Congresso.

Almeno ufficialmente, l’apparato statale russo non ha espresso una preferenza per Donald Trump, stando alle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri Sergey Lavrov al giornale turco Hürriyet, al quale Lavrov ha aggiunto che Stati Uniti e Russia sarebbero sull’orlo di un “confronto militare diretto”.

Sebbene in ogni occasione abbia manifestato una critica aspra nei confronti dell'approccio democratico alla questione ucraina, il candidato repubblicano ha tentato di disorientare l'opinione pubblica: da una parte ha dichiarato di essere amico di Putin e di avere capacità di risolvere il conflitto in via diplomatica nell’arco di un giorno, dall’altra che avrebbe risposto all’invasione russa bombardando Mosca. Ha accettato di parlare con Zelensky per condividere le sue preoccupazioni, ma non prima di averlo umiliato pubblicamente su Truth Media.

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Trump cerca di sedersi contemporaneamente su due poltrone. Su quella del populista anti-guerra, cara a un elettorato repubblicano che vorrebbe vedere il Pentagono spendere meno in politica estera a favore di un maggiore impegno sulle questioni interne, sebbene quella del Trump pacifista sia un mito creato dalla sua stessa propaganda elettorale. Allo stesso tempo, deve tenere conto di quella fetta di repubblicani che vede Corea del Nord, Cina e Iran come parte attiva del conflitto al fianco della Russia.

Zelensky stesso ha ammesso di non avere una strategia univoca da adottare in caso di vittoria di Trump, se non fare appello “alla sua vanità”. A chiarire la visione di Trump ci sono le uscite del suo vice JD Vance, che ha dichiarato di “non interessarsi alla questione dei confini dell’Ucraina” e di sostenere che Putin “non rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa e, nella misura in cui lo è, ciò significa che è un problema degli europei stessi”.

In ogni caso, come sottolineano Christopher Chivvis e Stephen Wertheim in un’analisi sullo stallo della politica estera americana su Foreign Affairs, chiunque dei due candidati cercasse una soluzione di breve termine si scontrerebbe, oltre che con il Congresso, con la burocrazia del dipartimento di Stato e dell’intelligence. Il futuro dell’Ucraina è appeso a un filo, che potrebbe reggere sull’orlo del burrone più a lungo del previsto.

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