Il governo israeliano ordina di boicottare il quotidiano Haaretz: “Un altro passo da parte di Netanyahu verso lo smantellamento della democrazia”
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L’ultimo attacco alla stampa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu colpisce il quotidiano Haaretz, che ha finora rappresentato una delle più autorevoli voci critiche sull’operato del governo. Domenica 24 novembre, il Consiglio dei ministri ha approvato all'unanimità la proposta del ministro delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, di sospendere qualsiasi tipo di pubblicità degli enti pubblici sul giornale e di bloccare tutti gli abbonamenti sottoscritti da funzionari e amministrativi. La misura è un chiaro tentativo di mettere in ginocchio, attraverso il taglio delle risorse economiche, un giornale che denuncia quotidianamente le violazioni che avvengono nella guerra a Gaza, in Libano e nelle occupazioni illegali dei coloni israeliani.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso sembra essere stata una dichiarazione rilasciata dall’editore del giornale, Amos Schocken, che a fine ottobre a Londra ha chiesto pubblicamente sanzioni contro Israele: ha parlato di un “crudele regime di apartheid” e ha definito i palestinesi “combattenti per la libertà”. A quel punto alcuni ministeri hanno interrotto i rapporti con il quotidiano, e Karhi ha proposto il boicottaggio statale. Il 4 novembre, su Haaretz è uscito un editoriale che prendeva le distanze dalle affermazioni di Schocken, che ha poi chiarito: “I combattenti per la libertà ricorrono anche a tattiche di terrore, che devono essere combattute. L'uso del terrore non è legittimo”.
Il 24 novembre, in occasione del voto del governo sulle sanzioni da imporre al quotidiano, Karhi ha ribadito che l'editore di un giornale non può “sostenere i nemici dello Stato nel bel mezzo di una guerra” e continuare a ricevere finanziamenti dal governo. “Noi sosteniamo la libertà di stampa e di espressione, ma anche la libertà del governo di decidere di non finanziare l'incitamento contro lo Stato di Israele”, ha detto. Non solo: Karhi ha anche lanciato una proposta di legge per privatizzare l'emittente pubblica israeliana, che è stata spesso una spina nel fianco del governo. “Siamo stati eletti dal pubblico e possiamo attuare un cambio di regime, se vogliamo”, ha aggiunto.
Haaretz ha descritto questa scelta come "un altro passo nel percorso intrapreso da Netanyahu verso lo smantellamento della democrazia israeliana", un tentativo di “mettere a tacere un giornale critico e indipendente”, che si inserisce in un contesto più ampio di aumento della pressione sui media israeliani, alcuni dei quali sono minacciati di chiusura o privatizzazione perché ritenuti troppo indipendenti o troppo critici. La decisione è arrivata due mesi dopo che i militari hanno fatto irruzione e chiuso l'ufficio di Al Jazeera a Ramallah e sei mesi dopo la chiusura dell'emittente in Israele, suscitando la condanna delle Nazioni Unite. I metodi di Netanyahu sono stati paragonati da Haaretz a quelli dei “suoi amici Putin, Erdoğan e Orbán. Lungi dall’arrendersi, la redazione del quotidiano israeliano ha però annunciato il proprio rifiuto di diventare solo un ‘pamphlet governativo’, e intende continuare il proprio lavoro d’inchiesta, anche a costo di incorrere nell’ira delle autorità israeliane”.
Il Committee to Protect Journalists (CPJ) ha immediatamente chiesto a Israele di porre fine alle sanzioni: “Deploriamo il tentativo del governo israeliano di mettere a tacere una testata israeliana rispettata come Haaretz, danneggiando le sue entrate pubblicitarie e di abbonamento”, ha dichiarato la direttrice generale del CPJ, Jodie Ginsberg. “Il crescente dispiegamento di restrizioni sui media critici da parte di Israele è un'ulteriore inquietante prova dei suoi sforzi per impedire la copertura delle sue azioni a Gaza”.
Ogni articolo, ogni servizio, ogni reportage deve ottenere l’autorizzazione, prima di essere pubblicato. Secondo un’inchiesta della testata +972 Magazine, la censura israeliana nel 2023 ha vietato la pubblicazione di un totale di 613 articoli, il numero più alto mai registrato da quando la rivista ha iniziato a raccogliere i dati nel 2011. Oltre a questo, sono state cancellate parti di altri 2.703 articoli, il dato più alto dal 2014. I reporter che possono seguire da vicino la guerra a Gaza e in Libano sono “embedded”, ossia al seguito dell’esercito israeliano, accettandone la protezione ma anche le limitazioni. E infatti nei telegiornali israeliani non si parla delle uccisioni e delle distruzioni: al massimo si citano le critiche internazionali alle azioni di Israele, inquadrandole come antisemite e ipocrite. Reporters Sans Frontières ha affermato che “il governo di Benyamin Netanyahu sta prendendo apertamente di mira l'indipendenza e il pluralismo dei media in Israele, [...] sfruttando la guerra in corso – la più lunga nella storia del paese – per mettere a tacere le voci che criticano la coalizione di estrema destra al potere”.
Immagine in anteprima: frame video DW via YouTube