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Una corsa elettorale senza precedenti: guida alle elezioni USA 2020

26 Ottobre 2020 14 min lettura

Una corsa elettorale senza precedenti: guida alle elezioni USA 2020

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14 min lettura

È possibile che il mattino del 4 novembre ci sveglieremo senza conoscere il nome del prossimo presidente degli Stati Uniti. Molti elementi rendono incerto l’esito di questa sfida elettorale che - lo ricordiamo - riguarda non solo la Casa Bianca ma anche tutti i 435 deputati della Camera dei rappresentanti e 35 dei cento senatori. Una sfida in cui si gioca il futuro degli Stati Uniti, ma anche un po’ il nostro di europei: cambieranno in ogni caso gli equilibri globali già tanto devastati dalla pandemia del coronavirus.

Di una cosa per ora siamo certi: le elezioni del 3 novembre prossimo si avviano a rompere un bel po’ di record storici, sia in termini di Stati che potrebbero cambiare di mano (non succederà, ma già solo guardare con interesse i sondaggi in un posto come il Texas, che non elegge un presidente democratico da 40 anni, indica che non sarà un’elezione come altre), sia in termini numerici. Da decenni e decenni: mai così tanti al voto, mai così tanti al voto prima della data delle elezioni, mai così tanti al voto prima della data delle elezioni utilizzando il voto postale. E qui potrebbero cominciare i primi problemi.

Perché la seconda cosa di cui siamo certi è che dal 4 novembre, con schede ancora da conteggiare e forse Stati in bilico anche per il Senato, cominceranno polemiche, contestazioni legali e non legali, forse anche violenze di piazza. Infatti l’ultima cosa certa è: se dovesse andare come i sondaggi prevedono, Donald Trump non uscirà di scena con un elegante discorso di riconoscimento della vittoria di Joe Biden. Saranno settimane, forse mesi, di lacrime e sangue.

La febbre del voto

Affluenza. A quasi una settimana dalle elezioni, hanno già votato oltre 50 milioni di persone con il voto anticipato (di cui 31 milioni per posta). Il conteggio aumenta a velocità esponenziale: se vi appassiona si può seguire qui. Sono 43 gli Stati in cui si può far richiesta di votare per posta (tutti tranne 7: Alabama, Arkansas, Indiana, Louisiana, Mississippi, Missouri e Texas). Se le proporzioni resteranno le stesse potrebbe verificarsi la situazione ancora senza precedenti che più voti saranno stati espressi prima del 3 novembre che il giorno delle elezioni. Secondo le proiezioni del sondaggista dei sondaggisti Nate Silver, l’affluenza finale potrebbe raggiungere i 154 milioni (con una punta massima di 165 milioni di elettori). A guidare la classifica dell’early vote c’è (rieccolo) il Texas, che ha già espresso con i suoi oltre 5 milioni di voti anticipati più preferenze di quelle che servirono a Trump per vincere lo Stato nel 2016 (4,7 milioni).

Anche il battage per incoraggiare a registrarsi e votare è abbastanza senza precedenti. Ne è un esempio la copertina del settimanale Time, che mai prima d’ora aveva modificato la testata e questa settimana cambia “Time” in “Vote” con una copertina che farà storia.

Voto anticipato e voto postale A chi giovano l’early vote e il voto postale? Storicamente, ai democratici, anche se in era di pandemia il desiderio di non ammassarsi ai seggi il 3 novembre e di votare in “remoto” per posta può aver tentato tutti gli schieramenti. C’è però un certo consenso nell’ipotesi che proprio il fatto che la maggioranza di questi voti siano per Biden potrebbe penalizzarlo, perché alla fine sarà su questi che si concentrerà il fuoco delle polemiche di Trump. Secondo un sondaggio YouGov e Democracy Fund ripreso dal New York Times, il 70% di chi vota per posta per la prima volta, vota per Biden. Per questo gli sforzi di Donald Trump si sono concentrati fin da subito nello scoraggiare, se non apertamente ostacolare, il voto postale (ad esempio smantellando le buche per le lettere dedicate, o riducendo i numeri degli addetti negli uffici postali) e anche la possibilità di affluire ai seggi nelle zone a grande maggioranza di tendenza democratica, come ad esempio i quartieri dei centri urbani abitati da afroamericani.

I tranelli del voto postale. Quand’anche la scheda partisse in tempo, ecco pronti i ricorsi. Il sistema di voto postale americano è molto sicuro, ma richiede alcuni passaggi che non tutti riescono a seguire. Arriva a casa una busta contenente un’altra busta, contenente la scheda. Per inviare il proprio voto bisogna barrare il nome del/della/dei candidati sulla scheda, metterla nella prima busta, che resta anonima, e infilare la busta anonima nella prima busta, che va firmata. La firma deve corrispondere a quella lasciata al momento della registrazione al voto. Le possibilità di errore come vedete sono molte: firmare la busta anonima, non firmare quella esterna, firmare in modo un po’ diverso dal solito. O anche, banalmente, avere un nome che ha una traslitterazione leggermente diversa da quella presente nelle liste elettorali. Caso abbastanza frequente nella super multietnica America.

Già nelle elezioni di midterm di due anni fa Trump aveva cominciato ad “allenarsi” a questo scenario, sguinzagliando avvocati per contestare le schede elettorali in molti Stati, tra cui l’eternamente contesa Florida, dove il Senato si è deciso per diecimila voti e migliaia sono state le schede inviate per posta e annullate: oltre cinquemila erano voti democratici. Secondo un’indagine di Abc News sono circa 81 milioni le schede richieste via posta, il doppio di 4 anni fa. Ma nelle due precedenti tornate (2016 e 2018) sono stati ben 750.000 le schede via posta annullate, l’1,2% del totale, per i problemi tecnici che abbiamo visto. Oltre mezzo milione di schede sono state annullate già quest’anno nelle primarie.

via Abc News

Già dalla primavera scorsa l’amministrazione Trump ha compiuto un tentativo - poi parzialmente rientrato - di boicottare l’efficienza del Postal Service americano, riducendone i fondi e depotenziandone il servizio, proprio per rendere difficoltosa la procedura di voto di chi se ne volesse avvalere, compresi gli americani all’estero, anch’essi storicamente più orientati per il partito democratico. Ritardi nell’invio delle schede agli elettori e ritardi nella restituzione delle schede votate rischiano di vanificare gli sforzi di migliaia di elettori. Il boicottaggio attivo si è accompagnato a cadenza regolare a tweet in cui il presidente lanciava accuse e insinuazioni non supportate da alcuna prova circa la liceità, accuratezza e affidabilità del voto postale e del voto anticipato. Come dire: non dite che non vi avevo avvertito.

Le difficoltà del voto anticipato. Abbiamo visto le foto delle lunghe file fuori ai seggi in questi giorni, dalla Florida al Texas, causate sì dall’entusiasmo ma anche dal fatto che i seggi sono stati ridotti. Molto dipende anche dalla distribuzione delle risorse tra Stati, per cui ci sono posti dove votare è più facile, altri meno.

Ora, in un paese dove ti puoi ritrovare a fare decine di chilometri anche solo per fare la spesa, la motivazione al voto deve essere davvero alta per perdere giornate intere in una fila. Banalmente, molti lavoratori (già piegati dalla crisi della COVID-19) queste giornate “perse” (si vota solo nei giorni feriali) non se le possono permettere. E sono in gran parte lavoratori a basso reddito, minoranze etniche, tendenzialmente in maggioranza democratici. Eppure, le file ci sono. Come abbiamo visto, i numeri sono alti. Altre problematiche del voto anticipato (e non solo, anche di quello del 3 novembre) potrebbero sorgere per il funzionamento delle macchine di votazione elettroniche, o per le nuove più stringenti regolamentazioni dell’identificazione al seggio per cui molte persone potrebbero ritrovarsi a fare ore di fila per poi essere respinte. Un elenco di tutti i possibili fiaschi del funzionamento della macchina elettorale lo trovate qui.

Stati toss up (i soliti noti e alcuni che non lo erano)

Per gli appassionati delle nottate elettorali, questa è la tabellina da tenere a portata di mano. Siccome a eleggere il presidente degli Stati Uniti non è il voto di tutti gli elettori (se no avremmo Hillary Clinton alla Casa Bianca, visto che 4 anni fa prese 3 milioni di voti più di Trump) ma il collegio dei Grandi Elettori, composto da rappresentanti dei singoli Stati (in numero variabile per Stato in base alla popolazione, con correttivi per evitare che gli Stati più popolosi abbiano più voce in capitolo degli altri), a decidere sarà chi si aggiudicherà il numero fatidico di 270 Grandi Elettori. E visto che in ogni Stato vince il candidato che prende un voto in più dell’altro, laddove i margini di differenza sono molto ridotti in base ai sondaggi si combatte (e si investe) di più. Sono questi i cosiddetti Stati toss-up, ovvero contendibili, potenzialmente “rovesciabili”.

Molti ricorderanno la disfida della Florida tra George W. Bush e Al Gore venti anni fa. O la grande sorpresa degli Stati del Midwest che quattro anni fa tradirono Hillary Clinton consegnando la Casa Bianca a Trump (con il passaggio di Michigan, Wisconsin, Pennsylvania ai repubblicani). Ci sarà molta Florida anche quest’anno, e occhi sulla possibile riconquista soprattutto della Pennsylvania. Ma ci saranno anche alcune sorprese, dovute in gran parte a profonde modifiche demografiche. Vediamole

  • Arizona Il riposizionamento liberal di questo Stato dura ormai da alcuni anni ma dalla seconda guerra mondiale qui si è indicato un presidente democratico solo una volta. Oggi Biden è in vantaggio nei sondaggi. Complice una trasformazione dell’identità dell’elettorato, con l’aumento dell’immigrazione soprattutto dalla vicina California. Da tenere d’occhio anche la corsa per il seggio al Senato: Mark Kelly, l’astronauta marito della deputata repubblicana Gabbie Giffords sopravvissuta a un tentativo di assassinio nel 2011, guida i sondaggi contro l’avversaria repubblicana e potrebbe diventare il secondo senatore democratico dell’Arizona, andando ad occupare il seggio di un “eroe” repubblicano (e anti Trump) come John McCain.
  • Florida. Qui si eleggono 29 elettori, è uno degli Stati decisivi. L’elemento nuovo quest’anno, che farebbe pendere i favori per Biden, è l’arrivo in massa dei profughi portoricani dell’uragano Maria. Per la prima volta potranno votare per il presidente, e la condotta di Trump in quella triste vicenda ha senz’altro lasciato il segno.
  • Georgia. Un altro Stato sorpresa. Fedele ai repubblicani tranne quando a presentarsi è stato un “compaesano” del Sud: dal 1972 a oggi solo Jimmy Carter e Bill Clinton hanno rotto il monocolore rosso. Con la crescita della popolazione nelle aree urbane e le dinamiche dell’immigrazione nello Stato, qui ci troviamo in una situazione simile alla Florida. Come in Florida, una popolazione tendenzialmente anziana sembra anche meno disposta a fare sconti al presidente sulla gestione della crisi della COVID-19. Ma la Georgia è anche molto importante perché qui si vota per il rinnovo di tutti e due i senatori e i democratici hanno buone chance di vincere. Ma la sorpresa non è solo questa: la corsa è affollatissima (23 candidati tra entrambi i partiti) e un ballottaggio è praticamente certo. Il secondo voto dovrebbe tenersi il 5 gennaio, ovvero dopo la nomina del nuovo presidente (se tutto va bene, vedi sotto): questo vuol dire che fino ad allora non sapremo se la maggioranza in Senato passerà di mano, ai democratici. Il margine è così stretto che i due senatori della Georgia potrebbero decidere chi guiderà la Camera alta.
  • Iowa. È una possibile “reconquista” per i democratici: anche qui la vittoria di Trump nel 2016 fu una sorpresa ma secondo le previsioni il piccolo Stato famoso per ospitare la prima elezione primaria dovrebbe tornare blu. Insieme al suo seggio al Senato.
  • La “Rust Belt”. Come detto, il vero shock del 2016 è venuto dagli Stati operai del North West. Pennsylvania, Michigan e Wisconsin dovrebbero tornare democratici. Ancora molto incerto l’Ohio, dove Trump è dato in rimonta.
  • North Carolina Roccaforte repubblicana per 40 anni, anche qui Biden sembra ancora in vantaggio nei sondaggi. Interessante osservare la corsa al Senato: il repubblicano Thom Tillis rischia grosso, dopo essersi infettato con il coronavirus per aver partecipato (senza mascherina) al famoso party alla Casa Bianca individuato come l’evento “super spreader” di cui è caduto vittima anche il presidente. In più, un serie di messaggini hanno rivelato una relazione extraconiugale, comportamento che in questo Stato del Sud (ma in generale nei puritanissimi Usa) non viene perdonato facilmente. Di nuovo: gli equilibri in Senato potrebbero dipendere da questa corsa.
  • South Carolina. Qui Biden se la gioca senza molte speranze. Ma sarà importante vedere che fine fa uno dei fedelissimi di Trump e tra le figure più controverse del nuovo partito repubblicano, Lindsay Graham: in corsa per il Senato, non sta andando bene nei sondaggi.
  • Texas. Questo è davvero il sogno proibito dei democratici. Improbabile ma non impossibile che passi di mano. A migliaia sono emigrati qui negli ultimi anni, dal nord e dalla costa ovest, andando a ingrandire città come Austin (tradizionalmente democratica) e Houston. Secondo i sondaggi, Trump qui conduce di un soffio (mezzo punto: 47,8% contro 47,3%). Per Biden sognare è lecito.

Gli scenari descritti qui sopra potrebbero indicare una vittoria “a valanga” (landslide) per Joe Biden. Dopo lo shock di quattro anni fa, però, nessuno si azzarda a fare previsioni, tanto meno basate sui sondaggi. I numeri però sono diversi da quattro anni fa: Biden è in vantaggio più solido di quanto non fosse Clinton a questo punto. Come abbiamo visto dall’analisi degli Stati, Biden ha diverse possibilità di raggiungere la fatidica quota di 270. E ha raccolto in campagna elettorale molti più fondi dei suoi predecessori, altro indicatore concreto e non ipotetico di vantaggio. Ma tra gli analisti - compresi quelli molto conservatori, come Andrew Sullivan - cresce piuttosto l’interrogativo su quali saranno le dimensioni della vittoria: un landslide non solo rafforzerebbe la presidenza Biden favorendo una ricucitura anche con il campo moderato repubblicano. Soprattutto, grandi numeri alle urne per i democratici renderebbero più difficile a Trump compiere il “colpo” di mano più volte ventilato, senza pudore, in campagna elettorale: non riconoscere il risultato, arrivando a mobilitare le piazze eversive che si è coltivato in questi anni. Ma è ancora possibile che il 3 novembre non segni la fine di questa storia, ma l’inizio di due mesi molto, molto difficili.

Nervi saldi per 72 giorni

Tanti sono i giorni che separano il 3 novembre dal 3 gennaio, giorno in cui si deve riunire il nuovo Congresso. E tante sono le possibili fonti di allarme.

Contestazioni legali. Con tutte le difficoltà del voto anticipato e postale che abbiamo visto sopra, è praticamente certo che ci saranno contestazioni, da entrambe le parti. Avvocati sono già arruolati e pronti a una sequela di ricorsi che potrebbero portare a l’invalidazione di migliaia di voti postali (che cominceranno ad essere conteggiati alla chiusura delle urne e con il loro volume richiederanno giorni di spoglio), nonché a contestazioni su schede fasulle nelle urne, schede sparite, intimidazioni ai seggi. Tutto ciò potrebbe durare anche un mese, soprattutto se Trump non dovesse riconoscere la sconfitta.

Lo sconfitto che non si arrende. Normalmente durante la notte elettorale i grandi network tv “dichiarano” il vincitore Stato per Stato. La fonte che fa “cassazione” in questo caso è l’agenzia Ap, che con un lavoro capillare sul campo (spiegato bene qui) controlla e riporta i risultati seggio per seggio e utilizza modelli analitici consolidati per stabilire quando una corsa può considerarsi chiusa. Ma con la grande mole di voto postale quest’anno sarà praticamente impossibile avere questo tipo di dichiarazione definitiva durante la notte del 3 novembre, almeno per molti Stati. Questo potrebbe dare agio a Trump di forzare la mano, soprattutto se in alcuni Stati in bilico il primo conteggio lo desse vincente (cosa possibile, visto che il voto postale potrebbe pendere più per il suo avversario). Il presidente potrebbe andare in tv, o twittare la propria autoproclamazione. Questo non vuol dire nulla dal punto di vista legale, ma molto dal punto di vista mediatico e del clima generale: man mano che i risultati emergeranno dal vero conteggio nei giorni successivi il presidente avrebbe la base pronta per suonare la fanfara del “broglio”. Una tattica dilatoria che potrebbe condurre addirittura a sballare le scadenze temporali stabilite dalla Costituzione: entro il 14 dicembre si deve riunire il collegio dei Grandi Elettori statali che nominano il presidente, perché comunque il mandato scade il 20 gennaio, e ricorsi e/o lentezze nel conteggio delle schede postali potrebbero far arrivare a quella data senza tutti gli Stati conteggiati. A quel punto, come spiegato bene qui, la Costituzione prevede che sia la Camera dei rappresentanti ad eleggere il presidente con un complesso sistema di delegati - che teoricamente potrebbe addirittura portare alla rielezione di Trump. Ipotesi molto remota, visto che una distorsione così palese della volontà popolare non sarebbe accettata a nessun livello, né politico né giuridico. Ma comunque uno scenario che getta un’ombra pesante sui due mesi dopo il voto.

Feste e mazzate. I gruppi organizzati di estrema destra pro-Trump (in queste settimane abbiamo sentito parlare dei Proud Boys, di Boogaloo, di cospirazionisti QAnon) sono pronti a “scatenare l’inferno” (scusate la citazione) se il presidente subisse un’umiliazione nelle urne. Soprattutto se lui stesso, come ha già fatto in passato, li incitasse all’azione con tweet e dichiarazioni incendiarie. Il tutto potrebbe deflagrare se si incrociasse con i festeggiamenti dem, anch’essi probabilmente scatenati prima della dichiarazione finale del vincitore e non necessariamente pacifici. Il 4 novembre potremmo svegliarci con le immagini di happening di giubilo davanti alla Casa Bianca (che ora sembra un fortino assediato e Trump potrebbe anche usare l’esercito per mantenerlo tale) e in diverse località del paese: da Black Lives Matter, alle femministe, agli ambientalisti, agli attivisti Lgbt, sono molti i gruppi che potrebbero organizzare feste di piazza.

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I primi passi di Biden. La squadra dell’ex vicepresidente è già al lavoro per definire i ruoli di governo: proprio perché la situazione è così polarizzata e pericolosa, è prevedibile che Biden non perderà tempo nell’avviare subito le politiche promesse - dall’azione di contrasto alla COVID-19, all’estensione della riforma sanitaria (Obamacare) al Green New Deal. Sulle scelte per il gabinetto circolano i nomi degli avversari delle primarie - anzi delle avversarie: sarà di sicuro un governo pieno di donne e di rappresentanti delle minoranze. Nomi che potrebbero anche placare l’ala sinistra del partito, a partire da Elizabeth Warren per cui si ventila il ruolo di segretaria al Tesoro. Anche Susan Rice dovrebbe ricoprire un ruolo sul fronte della politica estera.

Il convitato di pietra. Quando Donald Trump è rimasto infettato dal coronavirus e si è ammalato di COVID-19, alla già capiente mole di incognite si è aggiunta quella del contagio, l’incognita che sta pesando di più sul quotidiano di tutti noi. Cosa sarebbe accaduto se il presidente si fosse trovato incapacitato a proseguire la campagna elettorale, o se fosse addirittura morto prima del 3 novembre, o se fosse stato eletto e fosse morto nel mese e mezzo tra il voto e la proclamazione dei Grandi Elettori? Ora Trump sembra miracolosamente guarito - e giù teorie del complotto sul fatto che si fosse o meno infettato - ma la malattia è imprevedibile, e del resto anche per Biden vale lo stesso discorso: non si può escludere alcuna eventualità. Qui i meccanismi costituzionali, seppure non ci siano precedenti storici significativi, indicano che a scegliere il sostituto del candidato incapacitato sia il partito. Con tutta probabilità la scelta cadrebbe sul vice, Mike Pence, che potrebbe addirittura trovarsi a correre nelle elezioni al posto di Trump, e comunque sarebbe il presidente in carica fino a scadenza mandato, alle 12 del 20 gennaio. Si spera che le circostanze non arrivino mai a questa drammaticità, ma resta un fatto indubbio: la variabile impazzita del coronavirus è solo l’ultimo, drammatico tassello di una corsa elettorale davvero senza precedenti.

Immagine anteprima: "Trump & Biden" di ekaden sotto licenza CC BY-SA 2.0

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