La distruzione del patrimonio culturale ucraino: la volontà di Putin di cancellare l’identità di un popolo
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Massacri di civili, bombardamenti indiscriminati, attacchi alle infrastrutture strategiche nell’intento di ricattare la popolazione: da oltre un anno, il comportamento dell’esercito russo in Ucraina ha assunto più volte i connotati di crimine di guerra. Meno risonanza nel dibattito pubblico hanno ricevuto, invece, gli attacchi deliberati al patrimonio culturale ucraino, così come i saccheggi di artefatti compiuti dai soldati dell’esercito occupante. Entrambe le azioni determinano una grave violazione della Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.
Ucraina: cancellare la memoria per cancellare la resistenza
All’8 febbraio di quest’anno, l’UNESCO ha accertato 238 siti danneggiati in Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022. Un’inchiesta del New York Times dello scorso dicembre parla di “distruzione sistematica dei siti culturali ucraini” e alza il numero a 339. Da parte sua, la UCF (Fondazione Culturale dell’Ucraina) ha sviluppato una mappa interattiva delle perdite culturali sul proprio sito ufficiale; secondo l’UCF i siti distrutti sono circa 550, concentrati soprattutto intorno alla capitale Kyiv, nel Donbas, nell’oblast’ di Kharkiv e nell’Ucraina meridionale.
Al di là dei crudi numeri, astratti per loro natura, è la tendenza generale che ha spinto il ministro della Cultura Oleksandr Tkachenko a parlare di “genocidio culturale”, definizione controversa su cui ci soffermeremo, riguardo alle strategie distruttive di Mosca nei confronti del patrimonio artistico ucraino, sia fisico che umano.
La sezione ucraina di PEN International, l’organizzazione non governativa di scrittori e letterati, ha pubblicato l’elenco degli operatori culturali e artisti ucraini la cui vita è stata spazzata via dall’invasione russa. La lista è in aggiornamento costante, così come è eterogenea riguardo alle cause delle perdite. Alcuni sono soldati arruolatisi come volontari oppure mobilitati dell’esercito di Kyiv, morti nelle battaglie sul campo. Altri, fra cui il poeta per bambini Volodymyr Vakulenko oppure il direttore della Filarmonica di Kherson Yuriy Kerpatenko, sono stati deliberatamente uccisi in seguito al rifiuto di collaborare con le truppe di occupazione, cioè negando lo sfruttamento della loro capacità artistica per gli scopi propagandistici dei russi. Kerpatenko è stato ucciso proprio dopo aver rifiutato di tenere un concerto che avrebbe dovuto celebrare le forze di occupazione russe a Kherson. Ciò succedeva alcuni mesi prima della riconquista della città da parte dell’esercito ucraino e conseguente fuga dei russi, ai tempi di quando quest’ultimi ancora proclamavano, sui banner comunemente usati per le pubblicità commerciali, di trovarsi a Kherson “per l’eternità”.
Uno degli aspetti evidenti di questa invasione è l'accanimento della Russia nei confronti della produzione culturale ucraina. Lo scorso 10 ottobre, stesso giorno in cui per la prima volta droni Shahed di produzione iraniana miravano massicciamente alle infrastrutture civili dell’Ucraina, venivano colpite a Kyiv l’Università Taras Shevchenko, l’Accademia nazionale delle Scienze, la biblioteca scientifica Maksymovich, la sede della Filarmonica e due musei nazionali vicini al Parlamento.
Una “guerra culturale”, come definita da Magdalena Pasikowska-Schnass, ricercatrice dell’European Parliamentary Research Service. La ricercatrice sottolinea come i primi semi della “pulizia culturale” russa in Ucraina siano ravvisabili, parlando di tempi recenti, negli eventi in Crimea nel 2014. Nella penisola annessa illegalmente lo stesso anno “l'esercito russo ha danneggiato o distrutto centinaia di istituzioni, siti e opere culturali, artistiche, scientifiche, educative e religiose, impedendo a molti operatori culturali di svolgere il loro lavoro.” Come ricorda Pasikowska-Schnass, i russi hanno pure saccheggiato manufatti da collezioni pubbliche e private, aggiungendoli alle collezioni russe e “dichiarandoli parte della storia e della cultura russa”.
Durante l’occupazione della scorsa primavera, le forze di occupazione russe hanno saccheggiato circa 2,000 elementi artistici dalle gallerie e musei nell’area di Mariupol, e oltre 10,000 pezzi nelle collezioni di Kherson prima di scappare dalla città tra fine ottobre e inizio novembre: tra essi anche artefatti greci e antichi reperti d’oro della civiltà sciita risalenti al IV secolo a.C. Quello di Kherson è stato un furto colossale e metodico, in cui i soldati si sono avvalsi di collaborazionisti all’interno del museo ed esperti d’arte russi per decidere quali pezzi della collazione caricare i camion da spedire nei territori controllati dalla Russia, soprattutto in Crimea. Una sistematicità operativa paragonata da molti alle spoliazioni naziste. Il New York Times ha definito i furti russi a Kherson, Mariupol e Melitopol come “la più grande rapina collettiva d'arte da quando i nazisti saccheggiarono l'Europa durante la Seconda guerra mondiale", peraltro legalizzata da Putin dall’introduzione della legge marziale sui territori occupati lo scorso ottobre.
“L’obiettivo di Putin è distruggere l’Ucraina in quanto stato indipendente, e dunque sradicare la nostra eredità culturale e il patrimonio artistico che testimonia il comune passato”, dice Ihor Kozhan, direttore del Museo Nazionale Andrey Sheptytsky di Leopoli, che insieme ai volontari italiani di Restauratori Senza Frontiere ha lanciato il progetto Save Ukraine art 22, al fine di depositare, preservare e proteggere le opere del patrimonio artistico ucraino messe in pericolo dalla guerra russa.“Questo patrimonio artistico fa parte della nostra storia, è al suo interno che si trova la nostra identità. Distruggendo e saccheggiando il nostro patrimonio, i russi credono che smetteremo di vivere e creare, ma non sarà così” aveva dichiarato il ministro della Cultura Tkachenko.
Quello della volontà russa di cancellare l’identità ucraina, è un tema evocato spesso nei dibattiti sul genocidio. La definizione di genocidio internazionalmente riconosciuta, usata come base per i processi di Norimberga e adottata dalle Nazioni Unite, venne coniata da un avvocato polacco di origini ebree, Raphael Lemkin, che studiò a Leopoli e due decenni dopo definì come genocidio la carestia artificiale programmata da Stalin in Ucraina e Kazakistan nel 1932-1933.
Tra le tecniche del genocidio, oltre a quelle “fisiche” e “biologiche”, Lemkin individuava il genocidio culturale, termine, come visto, richiamato richiamato più volte pure dal ministro ucraino Tkachenko. Pur mancandone una definizione sufficientemente condivisa, il genocidio culturale è comunemente inteso come la distruzione di un patrimonio identitario attraverso assimilazione e attacchi sincronizzati su diversi aspetti della vita quotidiana, come il sistema educativo, la lingua, i costumi. Lemkin forniva l’esempio dell’occupazione nazista in Polonia, in cui ogni espressione artistica della cultura nazionale era proibita, mentre la germanizzazione procedeva spedita e alla scuola spettava il compito di riprodurre e rafforzare l’ideologia nazista (a tal proposito, le scuole russe nelle zone occupate riscrivono la storia al fine di indottrinare gli alunni ucraini). Pur non essendo stata inclusa, per come teorizzata da Lemkin, la parte sulla variabile culturale del genocidio nella definizione corrente di genocidio adottata dalle Nazioni Unite, i documenti di policy della ICC sul Patrimonio Culturale chiariscono che le “azioni dirette specificatamente contro il patrimonio culturale di un gruppo” possono essere usate come evidenza di intenti genocidiari.
La russificazione e l’assimilazione delle culture locali, attraverso il loro divieto nell’utilizzo pubblico, scolastico e letterario, è stato un modus operandi costante della Russia imperiale in relazione alle minoranze in Ucraina, Bielorussia, Caucaso e nei paesi “Stan” dell’Asia Centrale. Le opinioni dello zar Nicola II sulla lingua ucraina come “inesistente, frutto di contadini analfabeti parlanti il piccolo russo”, sono sfumate a fasi alterne durante l’epoca sovietica per poi ripresentarsi nell’immaginario comune della Russia di Putin. Ciò ha generato una percezione paternalista nella società russa, cioè un’Ucraina concepita come cultura minore e figlia di quella russa, senza una propria agency e un passato legittimato. In parallelo, la cultura russa diventava una vera e propria arma di soft power del Cremlino, soprattutto nell’Est del paese, e solamente con l’invasione del 24 febbraio 2022 si è compresa la sostanza dei piani russi di negazione identitaria. L’equivalenza, cioè, di “de-nazificazione” e “de-ucrainizzazione” nella narrazione putiniana calata nella realtà delle azioni concrete compiute dell’esercito russo sui territori occupati.
Sebbene da oltre otto anni Putin accusi senza basi gli ucraini di un genocidio nei confronti dei russofoni del Donbas, proprio nel territorio controllato dai separatisti filorussi e in quello contiguo occupato recentemente dalle truppe di Mosca è possibile comprendere meglio la guerra di cancellazione culturale portata avanti dai russi. L’annientamento di qualsiasi manufatto relativo all’Ucraina è pervasivo, come testimoniano i numerosi falò delle collezioni bibliografiche in lingua ucraina a Lugansk e Donetsk. Distruggendo le evidenze del patrimonio culturale ucraino in Donbas, negando la stessa esistenza dell’espressione identitaria ucraina, essi vengono prontamente sostituiti in nuovi monumenti e collezioni che perpetuano la narrazione della propaganda. per cui quelle terre sarebbero storicamente russe. “Credo sia significativo come le truppe russe abbiano iniziato a costruire e rimodellare i monumenti di Mariupol, ancor prima di conquistare il controllo completo della città dal punto di vista militare”, sottolinea Damian Koropeckyj, ricercatore del Cultural Heritage Monitoring Lab.
Secondo il critico d’arte e giornalista Jason Farago la guerra distrugge la cultura, e nessuna ne fa eccezione, e lo abbiamo visto ad esempio con la distruzione del patrimonio culturale in Siria da parte dell’ISIS. Tuttavia in Ucraina la guerra è culturale sin dalle sue radici. “È una guerra che viene perseguita come uno sforzo di sterminio culturale - e quindi è una scelta volontaria [da parte dei russi], al contrario di un semplice danno collaterale. La cultura ucraina non è semplicemente una raccolta di cose belle che vorremmo vedere preservate, perché in realtà vogliamo ciò in ogni guerra” sottolinea Farago.
La pulizia e sostituzione culturale russa in Ucraina può essere paragonata a quella praticata dai serbi in Bosnia negli anni ’90. È di questo avviso il celebre scrittore di origine bosniache Aleksandar Hamon. “I bombardamenti sull’Istituto Orientale a Sarajevo e quelli sui musei ucraini” sono della stessa matrice nell’opinione di Hamon, e “noi [bosniaci] sappiamo cosa significhino”. Secondo la professoressa di origini bosniache della York University Amila Butorović, la cui sorella fu uccisa da un cecchino serbo mentre cercava di mettere dei rari volumi della Biblioteca Nazionale di Sarajevo, la preservazione del patrimonio culturale durante una guerra “è prima di tutto un fattore che influenza il futuro di una comunità, e solamente in seconda istanza il suo passato”.
Nonostante le numerose evidenze, nel dibattito pubblico mainstream hanno continuato ad avere più risonanza le strumentalizzazioni di Putin sulla "cancel culture" e una presunta volontà occidentale di annientamento della cultura russa. Come in passato, il dibattito riguardo all’arte e la cultura nell’Est Europa post-sovietico fatica a scrollarsi di dosso il russocentrismo, da sempre a discapito del mondo culturale ucraino, in una maniera che nell’ultimo anno ha però il sapore di una ben più tragica beffa. Come sottolinea la giornalista Olga Tokariuk, chi si è affacciato agli studi d’area esteuropei in Italia lo ha fatto prima di tutto per interesse nei confronti della cultura russa, la cui idealizzazione per molti è difficile da abbandonare tutt’oggi, impendendo di ammettere le dinamiche imperialiste, coloniali e tendenze genocidarie dell’attuale invasione russa in Ucraina.
Dall’altro lato, la cultura ucraina non ha mai avuto una voce nel dibattito italiano, venendo intesa come una sottocategoria di quella russa, prima della preventivabile esplosione di interesse dettata dalla guerra su larga scala. La storia della cultura ucraina in Italia è la storia di un’assenza, come riassunto efficacemente dalla professoressa dell’Università di Padova Viviana Nosilia. “Non si può provare un senso di lutto, di perdita, per ciò che non si è mai posseduto. Possono nascere sentimenti diversi, come la curiosità, che è quello che sta succedendo ora, ma il lutto no.”
Ciò ha contribuito a creare il cortocircuito per cui la cultura russa sarebbe vittima di presunti attacchi censori, mentre allo stesso tempo le perdite culturali ucraine sono assorbite generalmente come degli eventi consuetudinari in un contesto di guerra. I lutti del mondo dell’arte ucraino, così come la distruzione del suo patrimonio, non sono solamente un elenco di morti del PEN o un report dell’UNESCO. Sono un attacco alla sua produzione e fervore culturale, che inevitabilmente inciderà sulle generazioni future.
Immagine in anteprima via UNESCO