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Guerra in Ucraina, “I Balcani occidentali rappresentano un secondo fronte, attivabile in qualsiasi momento”

5 Marzo 2022 9 min lettura

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Guerra in Ucraina, “I Balcani occidentali rappresentano un secondo fronte, attivabile in qualsiasi momento”

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Alla notizia dell’aggressione militare dell’esercito russo ai danni dell’Ucraina le popolazioni dei Balcani occidentali non sono rimaste indifferenti. Molte persone si sono viste catapultare indietro di una trentina d’anni, allo scoppio delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, e hanno sentito il fantasma di traumi passati risvegliarsi dolorosamente. Oltre a provare un sentimento di solidarietà nei confronti del popolo ucraino e di tutte le persone coinvolte, molti nei Balcani occidentali sono spaventati dalla possibilità, non troppo remota, di un nuovo conflitto. L’operazione militare lanciata dal presidente russo Vladimir Putin rischia infatti di innalzare il livello di tensione che pervade la regione dallo scorso autunno e che Mosca fomenta oramai da parecchi anni per servirsene nel proprio confronto con l’Occidente.

Vediamo come, dove e perché.

Serbia

Il paese in cui l’influenza del Cremlino è più evidente è la Serbia. Dunque non è un caso che, a eccezione della Bielorussia, complice di Vladimir Putin nell’invasione all’Ucraina, la Serbia sia l’unico paese europeo a non aver condannato apertamente l’aggressione e a non essersi allineato alle sanzioni imposte dall’Unione Europea e dagli altri paesi del continente nei confronti della Russia (così come accaduto nel 2014 durante l’invasione della Crimea). Considerando che non è una decisione vincolante, l’aver votato a favore della risoluzione ONU che condanna l’invasione in Ucraina potrebbe essere una mossa ingannevole che toglie la Serbia dall'occhio del ciclone. In questo modo la Serbia ha collettivamente condannato la Russia, senza averlo fatto pubblicamente tramite il proprio governo e  senza allinearsi alle sanzioni imposte dall’UE. È di questo parere Jasmin Mujanović, uno degli analisti politici balcanici più autorevoli.

Serbia e Russia sono paesi slavi e a maggioranza cristiano-ortodossa, condividono pertanto un’antica eredità culturale. I rapporti diplomatici tra i due paesi vennero inaugurati nel 1816 tra gli allora Impero Russo e Principato di Serbia. Mosca e Belgrado, allontanatesi quando Josip Broz Tito era al potere, si sono avvicinate nuovamente in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, ma la relazione tra le due capitali ha tratto nuova linfa vitale nei primi anni 2000 dopo la caduta di Slobodan Milošević. Nel 2008 la Gazprom Neft, controllata della Gazprom, ha acquisito la maggioranza delle quote della Naftna Industrija Srbije (NIS, Industria serba del petrolio). La cessione ben al di sotto del prezzo di mercato di questa multinazionale serba, una delle società più redditizie del paese e uno dei maggiori esportatori nazionali, ha fortificato il legame politico-economico tra i due paesi. Il risultato è che nel 2019 la Russia figurava come il quinto maggior esportatore in Serbia (5%) e il secondo maggior importatore di prodotti serbi (9%).

Negli ultimi anni si è intensificato anche il rapporto militare: dal 2016 la Serbia partecipa a esercitazioni militari trilaterali con Russia e Bielorussia chiamate “Slavic Brotherhood” (Fratellanza slava) e nei primi mesi del 2022 ha già acquistato numerose armi russe, in particolare equipaggiamento militare ad alta tecnologia come il 9M133 Kornet, un missile guidato anticarro portatile, e il Pantsir, una famiglia di sistemi di artiglieria anti-aerea e missilistica terra-aria semoventi a medio raggio. La Russia è anche un prezioso alleato della Serbia nell’ostacolare il riconoscimento internazionale del Kosovo, proclamatosi unilateralmente indipendente da Belgrado nel 2008. Dall’alto del suo ruolo di membro permanente dell’ONU, la Russia ha finora impedito l’ingresso di Pristina nel palazzo di vetro, motivo per cui la Serbia ha iniziato a concedere al Cremlino l’accesso a maggiori benefici economici e politici, tra cui il controllo della sopracitata NIS. Ora Belgrado, divisa tra velleità di ingresso nell’Unione Europea e il supporto russo, potrebbe trovarsi presto tra due fuochi. Ucraina e Occidente da una parte e Russia dall’altra faranno pressione per veder sostenute le proprie politiche. E sebbene il riconoscimento delle repubbliche separatiste ucraine di Donetsk e Luhansk abbia reso più complessa la questione Kosovo, la Serbia dell’autocrate Aleksandar Vučić ha ancora bisogno dell’appoggio di Putin per l'approvvigionamento di gas russo, da cui è dipendente all’89%, e per portare avanti la creazione del “mondo serbo”.

In altri termini, si tratta della vecchia idea della “grande Serbia”, vale a dire il progetto di annessione di tutti i territori balcanici popolati da una maggioranza serba. Putin, dal canto suo, può sfruttare le esigenze di un Vučić alle prese con le elezioni presidenziali di aprile come leva per continuare a provocare politicamente l’Unione Europea, impedire l’espansione della Nato a est e minacciare la sicurezza del continente. Il Cremlino ha identificato i Balcani occidentali come campo di battaglia ideale: è un’area non troppo estesa, divisa tra molti stati piuttosto poveri e, considerando la sua tragica storia recente, non così difficile da destabilizzare.

Leggi anche >> Le tensioni nei Balcani e il fantasma della ‘Grande Serbia’ di Milošević

Bosnia ed Erzegovina

Il primo paese che potrebbe essere fisicamente colpito dai giochi di potere di Putin è la Bosnia ed Erzegovina, che il primo marzo ha celebrato il trentesimo anno di vita. “Il deterioramento della sicurezza a livello internazionale potrebbe incrementare l’instabilità” nel paese, ha dichiarato in un comunicato del 24 febbraio il portavoce della European Union Force (EUFOR) Seamus Shannon per giustificare l’invio di 500 unità di riserva nel paese balcanico, che da mesi è minacciato dal piano di secessione del leader nazionalista serbo-bosniaco Milorad Dodik. I soldati facenti capo alla missione Althea sono così passati da 600 a 1100.

Parlando successivamente a Balkan Insight, Shannon ha precisato che si tratta di una misura precauzionale e che al momento non esiste alcuna minaccia concreta. Sebbene la tempistica suggerisca il contrario, funzionari occidentali avrebbero rivelato alla stessa testata giornalistica che la scelta di raddoppiare per due settimane le truppe presenti in Bosnia ed Erzegovina non è direttamente collegata alla guerra in Ucraina, scoppiata la notte precedente al comunicato dell’Eufor. Le 500 unità aggiuntive sono state dispiegate nel distretto di Brčko, un lembo di terra che riveste una posizione strategica notevole perché si affaccia sulle rive del fiume Sava al confine con la Croazia e a un passo dalla Serbia.

Oltre a essere un importante snodo commerciale, durante la guerra degli anni ‘90 la città di Brčko, il centro principale dell’omonimo distretto, rappresentava il corridoio geografico che collegava le due grandi porzioni del territorio reclamato dalle truppe serbo-bosniache. Per questo motivo la questione dell’assegnazione di Brčko fece quasi saltare gli Accordi di pace di Dayton nel 1995. L’area fu inizialmente messa sotto la supervisione della comunità internazionale. Successivamente fu necessario ricorrere a un arbitrato internazionale per poter arrivare a una conclusione. Nel 1999 l’arbitrato presieduto dal diplomatico statunitense Roberts Owen decise che Brčko avrebbe fatto formalmente parte di entrambe le entità del nuovo stato della Bosnia ed Erzegovina - la Federazione BiH e la Republika Srpska - ma allo stesso tempo avrebbe costituito anche un’entità multietnica autonoma sotto la supervisione di un garante internazionale (funzione che ha cessato di esistere nel 2012).

A oggi, l’esperimento di Brčko si può dire parzialmente riuscito: anche lì, come nel resto del paese, la politica nazionalista e la corruzione soffiano sul vento delle tensioni etniche. Per questo motivo, e perché questa unità amministrativa autonoma interrompe la contiguità territoriale della Republika Srpska sul versante nord-orientale della Bosnia ed Erzegovina, molti analisti esperti della regione concordano che un eventuale conflitto etnico a Brčko potrebbe causare un’escalation nell’intera regione nel caso in cui Dodik, leader della Republika Srpska, decidesse di procedere con la secessione e la conseguente dichiarazione di indipendenza.

Questo piano di secessione - che prevede la creazione di istituzioni indipendenti dal governo centrale di Sarajevo e persino di un esercito autonomo serbo-bosniaco - è in corso solo grazie al supporto della Serbia e in ultima istanza della Russia, da cui l’intero stato della Bosnia ed Erzegovina dipende per le provvigioni di gas. Nella mattina del 21 febbraio, il Movimento popolare serbo “Izbor je naš” (La scelta è nostra) ha espresso il suo sostegno ai russi di Ucraina con un grande striscione a Banja Luka che recitava: “Russi di Ucraina, i serbi sono con voi. Questo si chiama libertà!”. Una settimana dopo il Ministro degli esteri russo Sergey Lavrov ha sentito telefonicamente Dodik. Secondo un comunicato rilasciato dall’ambasciata russa in Bosnia ed Erzegovina, la visione dei due funzionari coincide sui passi necessari a “intensificare gli sforzi” per l’attuazione degli accordi raggiunti nell’incontro tra Dodik e Putin dello scorso dicembre. A questo si aggiunge la non volontà di trovare una soluzione alla riforma elettorale che minaccia lo svolgimento delle prossime elezioni generali previste a ottobre e la spinta sempre più forte del leader nazionalista croato-bosniaco Dragan Čović (che come Dodik è vicino alla Russia e non ha condannato l’invasione in Ucraina ) per l’istituzione di una terza entità a maggioranza croato-bosniaca appoggiata dalla Croazia.

L’invio di rinforzi Eufor è sicuramente un segnale positivo che molti attendevano già da tempo, ma non può dirsi sufficiente. Il prossimo novembre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe riesaminare la situazione della Bosnia ed Erzegovina e votare l’estensione annuale del contingente Eufor. Dato che il veto della Russia è più di una probabilità, Kurt Bassuener, senior associate del think-tank Democratization Policy Council, ha dichiarato ad Al Jazeera che le forze della Nato dovrebbero unirsi alle truppe Eufor e che sarebbero necessari cinquemila soldati perché la presenza militare nel paese possa rivelarsi utile in caso di necessità.

Montenegro

Secondo l’analista politico montenegrino Ljubomir Filipović, la situazione in Montenegro sarebbe ancor più tesa perché, al contrario della Bosnia ed Erzegovina, dove l’influenza russa si concentra nell’entità della Republika Srpska, le principali leve del potere montenegrino sono nelle mani di elementi fedeli alla Russia e alla Chiesa ortodossa serba. Il Montenegro è una delle mete principali dei più ricchi oligarchi russi e in questo momento anche possibile terra di rifugio per coloro che fuggono dalle pesanti sanzioni imposte dall’Occidente.

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La sera successiva al lancio dell’invasione russa in Ucraina, il Fronte Democratico (DF), il partito che detiene la maggioranza in parlamento in questo momento di crisi politica, ha organizzato diciassette blocchi nelle principali arterie stradali del paese. Originariamente organizzate per cause di politica interna, queste manifestazioni hanno visto la presenza di bandiere della Russia e della repubblica separatista di Donetsk e di persone che inneggiavano all’invasione dell’Ucraina. Leader del DF sono stati condannati in primo grado per aver pianificato attacchi terroristici e un colpo di stato insieme ai servizi segreti russi nel giorno delle elezioni parlamentari montenegrine del 2016, per impedire l’ingresso del paese nella Nato che sarebbe avvenuto l’anno successivo.

Benché il Montenegro sia ora membro dell’Alleanza Atlantica, l’esercito e i servizi segreti montenegrini sono controllati da persone vicine alla Chiesa ortodossa serba, istituzione sapientemente utilizzata dal Cremlino per accrescere la propria influenza nel paese facendo appello soprattutto alla fetta di popolazione che si identifica come serba e rivendicando una comune origine slavo-ortodossa. Dunque, come ha affermato Filipović a Danas, “in un contesto del genere, in cui il DF ostacola l’elezione di un nuovo governo attraverso il parlamento e annuncia un blocco fisico delle strade principali, si scopre che il Montenegro è l’obiettivo più facile per un attacco ibrido nel cuore dell’Europa e della Nato”. L’ambasciata statunitense in Montenegro ha emesso un comunicato in cui avverte che “le proteste a Podgorica e in Montenegro in generale hanno il potenziale per diventare più frequenti” e che esiste la possibilità che le violenze e le tensioni aumentino.

Cosa ci aspetta?

In risposta all’invasione russa dell’Ucraina, il Kosovo ha richiesto agli Stati Uniti di istituire una base militare permanente nel paese e di accelerare l’ingresso della più giovane repubblica balcanica nella Nato. Gli Stati Uniti hanno già 635 soldati nel paese balcanico nell’ambito della Kosovo Force (KFOR), una missione Nato di mantenimento della pace. Reuf Bajrović, ex Ministro dell’Energia dell’entità della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, conviene che questo sia il momento per Sarajevo di sbarazzarsi dell’influenza della Russia e fare anch’essa il salto decisivo verso l’adesione alla Nato. Se questo dovesse avvenire, la pericolosità di una destabilizzazione guidata dalla Russia verrebbe ridotta e la Serbia si troverebbe isolata e di fronte a un bivio: seguire l’alleato russo o compiere il passo definitivo verso l’Occidente. In definitiva, l’avviso lo ha lanciato chiaramente la fondatrice e presidente del Comitato di Helsinki per i diritti umani in Serbia Sonja Biserko in un’intervista ad Al Jazeera Balkans: “Dall’inizio della crisi ucraina [nel 2014, NdR], i Balcani occidentali rappresentano un secondo fronte, attivabile in qualsiasi momento”. Solo il tempo ci dirà se questo avvertimento verrà ascoltato o se dovremo affrontare le conseguenze di un nuovo conflitto nel cuore dell’Europa.

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