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Gaza e non solo: l’accelerazione della Storia e la crisi delle Nazioni Unite

8 Ottobre 2024 5 min lettura

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Gaza e non solo: l’accelerazione della Storia e la crisi delle Nazioni Unite

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Difficile pensare. Soprattutto in queste ore in cui l’anniversario del 7 ottobre cade nella fase più acuta, spaventosa, orrenda della guerra regionale già aperta da Israele sull’intero Territorio Palestinese occupato e sul Libano. Difficile pensare, quando ogni giorno a Gaza è uguale all’altro – così sembra –, e i massacri continuano nella totale indifferenza di una parte del mondo (quella nostra). 

Eppure pensare è necessario, non tanto per un futuro su cui nessuna persona di solide basi può immaginare uno scenario. Una profezia. 

È soprattutto necessario avere il tempo giusto per pensare a cosa abbiamo messo realmente in gioco, in questo anno. A cosa è già irrimediabilmente cambiato.

Anzitutto, Israele e Palestina. È irrimediabilmente cambiato il posto in cui, da un anno, collochiamo la questione israelo-palestinese. Non più relegata in una periferia della cronaca mediorientale. Nella realtà dei fatti e dei risultati dell’attacco terroristico compiuto dalle ali militari di Hamas e Jihad Islamico, il 7 ottobre ha riportato Israele, ma in particolare la Palestina, al centro della scena. Da questione dimenticata, negletta, destinata a dissolversi nella posizione dominante di Israele, la questione palestinese è nodo ineludibile della storia del Medio Oriente. Di nuovo.

Si parla di Palestina, non solo di Gaza, in quell’enorme pezzo di pianeta che non è la sua parte occidentale. Lo Stato di Palestina viene riconosciuto da due terzi dell’Assemblea generale dell’Onu. Il fronte attendista europeo viene rotto attraverso il riconoscimento dello Stato di Palestina anche da parte di alcuni membri dell’Unione Europea. Le opinioni pubbliche occidentali vivono una spaccatura che non sperimentavano da decenni, sulla questione israelo-palestinese. La Corte Internazionale di Giustizia, l’organismo giudiziario internazionale più importante sul piano del rapporto tra gli Stati, sancisce ora in modo cristallino l’illegalità e l’illegittimità dell’occupazione israeliana del Territorio Palestinese, intimando di ritirarsi e finire l’occupazione entro un anno.

È un’accelerazione della Storia, ed è un fatto.

Altra cosa, oltre i fatti, è la domanda: ne valeva la pena? È valsa la pena del 7 ottobre, e della reazione di Israele su cui pende l’accusa di genocidio? Il costo incommensurabile in vite, abiezione, massacri, perdita di valori, torture, disumanizzazione vale una nuova presenza al centro della scena della questione israeliano-palestinese? La risposta è no, chiaramente, ma i fatti e i relativi costi sono, anche, il risultato di quella marginalizzazione della questione. In sostanza, ignorare le metastasi della questione non ha reso più vicina una soluzione, proprio perché non era nei programmi della potenza occupante, cioè Israele (riconoscere lo Stato di Palestina, concludere un’occupazione che dura dal 1967, evacuare la Cisgiordania dal punto di vista civile e militare, aprire Gerusalemme est, considerare i palestinesi, tutti, su un piede di eguaglianza). 

Non è una escalation, non lo è stata sin dal primo momento. È una “guerra su”. Una guerra su Gaza, una guerra sulla Cisgiordania, una guerra sul Libano. E poi, probabilmente, si allargherà oltre la costa orientale del Mediterraneo sino all’Iran. La “guerra su” è direttamente legata al dominio dell’aviazione israeliana armata da bombe statunitensi, motivo per il quale l’accusa – da parte delle opinioni pubbliche non-occidentali, e non solo – è di una “guerra” in cui gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti, sin dall’8 ottobre, dal momento stesso in cui il presidente Joe Biden ha deciso che gli USA avrebbero partecipato al gabinetto di guerra del governo israeliano. 

Non è certo la prima volta che il sistema internazionale viene sottoposto a stress test di questo tipo, e cioè alla patente violazione delle regole dettate dalle Nazioni Unite e disattese da singoli Stati. Basti pensare al periodo 2001-2003, alla reazione degli Stati Uniti all’11 settembre, per ricordarci quanto il Medio Oriente (meglio chiamarlo Asia occidentale) abbia già visto sulla propria terra l’uso della forza fuori da qualsiasi regola stabilita dall’ONU. Il caso Gaza (e Cisgiordania e Libano) è, allo stesso tempo, sia la prosecuzione di una strategia politico-militare, sia l’ingresso in un nuovo, pericolosissimo capitolo della convivenza all’interno di un sistema da riformare ma comunque ancora funzionale/funzionante come le Nazioni Unite. 

La prosecuzione della strategia politico-militare del 2003, quella propugnata da USA e Regno Unito contro l’Iraq di Saddam Hussein, si è già dimostrata fallimentare, e solo per usare un eufemismo. L’idea (coloniale!) di modificare, ancora una volta, gli equilibri in Asia occidentale, di trasformare il ‘paesaggio politico’ non ha funzionato e non potrà mai funzionare. Non solo perché non siamo più in epoca coloniale. Non solo perché abbiamo già visto il caso dell’Algeria e il successo della resistenza contro la Francia. Non solo perché il caso dell’invasione anglo-americana dell’Iraq ha mostrato il disastro, prevedibilissimo, di una mossa di questo tipo. Pensare, addirittura, che sia possibile distruggere e trasformare il Libano attraverso i bombardamenti a tappeto su Dahye, a Beirut, e l’uccisione della dirigenza di Hezbollah, è la dimostrazione di una conoscenza parziale e insufficiente della regione, nonché delle dinamiche interne ai singoli Stati. Insomma, ancora una volta è la dimostrazione di una distanza abissale tra Washington, in primis, e l’oriente del Mediterraneo, trattato attraverso una lente che non dà spessore storico, politico, umano, e infine culturale a una regione complessa, al pari di tutti i luoghi del mondo.

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È qui che entra in gioco il sistema internazionale, quello che ha riconfigurato il mondo dopo la seconda guerra mondiale. Il sistema ONU è in bilico, per non dire al limite della rottura, proprio perché viene sottoposto – direttamente – a un attacco senza precedenti per minarne la credibilità e, di conseguenza, sminuirne la capacità di pressione. Non è solo responsabilità di Israele in quanto paese membro. È soprattutto responsabilità dei paesi occidentali che non hanno stigmatizzato le violazioni patenti di Israele alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, gli attacchi personali ai vertici delle Nazioni Unite (ultima in ordine di tempo, la definizione di Antonio Guterres come persona non grata da parte del ministro degli esteri di Tel Aviv), l’uccisione di centinaia degli impiegati dell’ONU a Gaza, il blocco degli aiuti umanitari gestiti dalle agenzie delle Nazioni Unite. Aver fallito nella linea della fermezza consente ora, a Israele, di replicare la Dottrina Gaza sul Libano, per le giravolte della storia proprio il paese in cui Israele aveva adottato, nel 2006, la dottrina Dahiya, la distruzione del quartiere più popoloso di Beirut, a maggioranza sciita, anche luogo della presenza di Hezbollah. Una dottrina che prevede, senza in sostanza sanzioni, di poter bombardare infrastrutture civili, ospedali, scuole, strade.

L’asticella si è alzata. Questo significa, nei fatti, che la guerra su Gaza e sugli altri fronti ha aggiunto un’altra vittima alla già infinita lista di lutti. È l’architettura istituzionale internazionale.

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

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