Il gruppo Wagner: l’ombra del Cremlino dietro i mercenari russi collegati a massacri di civili in Africa
9 min letturaUna statua e una foto. La prima rappresenta combattenti russi in tenuta da assalto, alle loro spalle, accovacciata, una donna con i suoi bambini. A proteggerli sono loro, quei soldati chiamati da un presidente in difficoltà con lo scopo di frenare le ribellioni interne.
Siamo a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Nel 2020 in pieno periodo elettorale il presidente Faustin Archange Touadera fece appello a forze esterne mentre sulla città avanzavano gruppi di oppositori armati. Quella statua è di fatto un riconoscimento, un segno di gratitudine verso quei paramilitari così bene addestrati e senza incertezze nel “ristabilire l’ordine”.
Ed è sempre nella CAR (Repubblica Centrafricana) che qualche mese dopo hanno cominciato a circolare t-shirt con un messaggio inequivocabile: “Je suis Wagner”. A indossarle giovani donne e uomini, quegli stessi che probabilmente hanno marciato per il sostegno alla Russia sventolando altrettanti chiari messaggi. Russi difensori della patria. Delle patrie. Anche di quelle africane. E se a farlo sono mercenari del famigerato gruppo Wagner questo non sembra sollevare particolari questioni morali. Non in maniera unanime, almeno, contrariamente alle reazioni nel resto del mondo.
Le ragioni sono diverse: dall’opportunismo politico di governi che usano queste forze mercenarie per tenere sotto controllo la popolazione dissidente, ai sentimenti ormai molto critici nei confronti dell’Occidente che la guerra in corso in Ucraina sta facendo emergere, fino a un atteggiamento smaccatamente filo-russo che utilizza i canali social per esprimersi, e accresciuto anche dalla forte campagna di propaganda su Facebook con pagine dedicate all’esaltazione del gruppo Wagner e contro la presenza occidentale nel Continente. Pagine rivolte ai cittadini dell’Etiopia (da quasi due anni è in corso un sanguinoso confitto nel Tigray) del Sahel, di quei paesi instabili dell’Africa occidentale o dove si sono verificati colpi di Stato, come il Sudan, che guarda caso sono tra quelli in cui operano attivamente i mercenari russi.
Ci sono, ma quasi sembrano invisibili tra negazioni del Cremlino e spesso anche dei governi di quegli Stati dove sono stati chiamati a “fornire il loro servizio”. Invisibili ma letali considerate le accuse di crimini di guerra, atrocità contro i civili e abusi dei diritti umani avanzate più di una volta dalle Nazioni Unite, che ha stabilito sanzioni sul gruppo mercenario, nei confronti – ad esempio - delle unità presenti in Mali o, ancora, nella CAR. Alla fin fine sanzioni verso chi? Non esisterebbe una registrazione ufficiale di questa unità i cui confini e legami sono però ormai certi – e farebbero riferimento al presidente Vladimir Putin.
Ma andiamo nel dettaglio. Chi sono e come operano questi uomini così bene addestrati, temuti e la cui presenza in Africa ha una dimensione politica oltre che militare? Ad aiutare a capire dinamiche e modalità di questa private military company (PMC) in Africa, è stata un’inchiesta della BBC che ha documentato che il gruppo era già attivo in Libia nel 2016, a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar. Erano trascorsi due anni da quella che è ritenuta la prima entrata in scena di questi mercenari, vale a dire durante l’annessione della Crimea alla Russia. Seguì la Siria. Anche qui il regime di Bashar al-Assad aveva bisogno di forze determinate e senza scrupoli.
Da allora la loro presenza nell’altro lato del mondo, in Africa, a cominciare dalla CAR, Sudan e Mali (anche qui su invito del Governo per combattere i gruppi militanti di matrice islamica), si è espansa nonostante si parli di poche migliaia di uomini. Nel dicembre 2021 i servizi di intelligence ucraini (SBU) e il Centro ucraino di analisi e sicurezza (UCAS) ne avevano identificati 4.184 – vivi o morti – in varie parti del mondo. Arrivano da 15 differenti paesi, ma la maggior parte dalla Russia. Nelle loro fila, infatti, molti veterani dell’esercito e un equipaggiamento militare che, a detta degli esperti, potrebbe provenire solo, appunto, dalle forniture dell’esercito russo.
Il timore oggi è che tale gruppo mercenario possa far leva sull’insoddisfazione dei giovani africani, negletti dai loro governi e alla ricerca di soldi, potere e di “avventure”. Anche attraverso canali di reclutamento online come il sito JoinWagner.com – di cui si è dibattuto circa l’autenticità e che in ogni caso rientra a pieno titolo nelle operazioni di propaganda. Sito che, tra l’altro, avrebbe riferimenti in Costa d’Avorio. Ed è lì, nel Continente africano che si evidenziano i mutamenti geopolitici in corso e che il conflitto in Ucraina sta solo contribuendo a svelare. Movimenti di assestamento che scuotono e amalgamano affari, politica, sicurezza, potere.
I Wagner in Africa nascerebbero in realtà come contractors, forze assoldate al servizio della sicurezza di miniere, imprese, affaristi. Legate a oligarchi russi e grossi imprenditori a loro volta in stretti rapporti con élite locali. Non dunque a difesa e salvaguardia della sicurezza dei cittadini – come la citata statua di Bangui vorrebbe far credere – ma di regimi la cui intenzione è tenersi ben saldi al potere. Regimi spesso vicini al Cremlino con cui non hanno problemi a intrecciare relazioni. Non sono molti, infatti, i paesi che hanno condannato apertamente l’invasione in Ucraina, il Kenya e il Ghana quelli più netti nel farlo, molti altri hanno scelto una posizione defilata, altri ancora si sono apertamente schierati. Un segnale per il resto del mondo, rimasto fermo a dinamiche geopolitiche ampiamente superate negli ultimi decenni con la presenza di altri attori non “compromessi” nella storia africana come gli ex colonizzatori europei. Parliamo di Cina, innanzitutto, ma anche dell’India, della Turchia e della Russia appunto che continua a giocare un ruolo specifico nell’expertise militare. Proprio come durante la Guerra Fredda e proprio come durante le lotte per l’indipendenza dei paesi africani. Un ruolo importante in quei decenni, che l’Africa sottomessa all’Europa non ha mai dimenticato.
Ora come allora è su questo know-how che si costruiscono le relazioni tra alcuni leader africani (ma sono oggi soprattutto i regimi dittatoriali quelli più vicini a Mosca) e la compagine politica e oligarchica russa. Come ormai ampiamente diffuso – anche che se i diretti interessati continuano ovviamente a tenere tutto nell’ombra – Wagner sarebbe strettamente interconnesso al ministero della Difesa russo, ma anche molto vicino ai servizi di intelligence militare, il GRU.
Attraverso una serie di inchieste Bellingcat – gruppo di giornalismo investigativo – ha ricostruito i legami tra l’organizzazione mercenaria e l’oligarchia russa. A cominciare da quello che è stato individuato come fondatore e comandante del gruppo, Dmitry Utkin e figura di spicco nel GRU. A proposito, a battezzare il gruppo paramilitare con il nome Wagner sarebbe stato proprio lui, Utkin, appassionato del compositore tedesco e, probabilmente, del presunto carattere virile delle sue opere. Altro forte elemento di contatto tra il gruppo mercenario e il Cremlino sarebbe Yevgeny Prigozhin, ufficialmente uno chef, anzi “il cuoco di Putin”, in realtà un potentissimo uomo d’affari, accusato di finanziare i mercenari. Si è arrabbiato però, quando qualche giorno fa il Guardian gli ha posto domande specifiche sulla questione. In particolare rispetto ai recenti massacri in Mali che hanno coinvolto centinaia di vittime. “Il gruppo Wagner non esiste”, ha detto e ha rilanciato: [voi occidentali] "siete una civiltà in via di estinzione che considera russi, maliani, centrafricani, cubani, nicaraguensi e molti altri popoli e Paesi come feccia del terzo mondo". “Ricordate, questo non è vero…. Siete un patetico branco di pervertiti in via di estinzione, e ci sono molti di noi, miliardi di noi. E la vittoria sarà nostra!”, ha aggiunto l'uomo d'affari.
Parole dure, intimidatorie, che mettono comunque in campo una narrazione che in Africa, nonostante se ne parli poco, circola da tempo. E la ritroviamo ancora una volta nelle parole di Prigozhin: "L'Occidente, vale a dire Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri Paesi cercano di perseguire una politica di schiavizzazione dell'Africa e hanno piantato e organizzato gruppi terroristici in Mali per anni”. Tutto questo “per tenere nella paura la popolazione di questo paese, depredare le sue ricchezze naturali e utilizzare i soldi stanziati per le cosiddette operazioni di mantenimento della pace”. Ok, ma quindi Wagner? “Non ha niente a che vedere con Putin e lo Stato russo”, ha affermato recentemente il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, continuando il solito giochino. La loro presenza in territori come il Mali o la Libia, ha detto, ha esclusivamente una motivazione commerciale. Proprio in Libia i mercenari russi sarebbero stati accusati di aver usato mine e trappole esplosive, stando a quanto rilevato da un rapporto delle Nazioni Unite ancora confidenziale ma recentemente visionato dal Guardian. Secondo gli investigatori delle Nazioni Unite, i combattenti del gruppo Wagner non avrebbero contrassegnato le posizioni delle mine e potrebbero aver inserito un esplosivo al plastico in un orsacchiotto, infrangendo così il diritto internazionale. Queste azioni risalirebbero al periodo in cui i combattenti del gruppo hanno sostenuto l'avanzata su Tripoli del generale Khalifa Haftar, ex comandante dell'esercito libico che controlla gran parte dell'est della Libia. L'attacco si è arenato alla periferia della capitale libica all'inizio del 2020.
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Quello che andrebbe analizzato profondamente è quanto questa nuova narrazione sia frutto di malevola propaganda che gioca su certi risentimenti nei confronti dei paesi europei – e anche delle cosiddette missioni di pace e della lunga presenza militare, in particolare della Francia nel Sahel. A dare una lettura più ampia della presenza di Wagner sul suolo africano è Emmanuel Kwesi Aning, esperto di risoluzione dei conflitti e direttore del Dipartimento di ricerche al Kofi Annan International Peacekeeping Training Centre ad Accra. “È la disperazione – spiega a Valigia Blu Kwesi Aning - ad aver spinto alcuni Stati a rivolgersi a chi poteva fornire supporto, equipaggiamento e training alle regolari forze armate che, nonostante altri tipi di interventi e presenze esterne non si sono rafforzati”. Nessuno giustifica le atrocità, continua l’esperto, “ma per i cittadini non c’è nulla di nuovo. Altri gruppi, interni ed esterni, le hanno commesse. Quello che cambia è la narrazione, le parole usate per descriverle – o per nasconderle - a seconda di chi le commette. Io dico che la presenza di questo gruppo in Africa rappresenta il fallimento negli interventi della comunità internazionale nelle aree di crisi. Guardiamo all’Afghanistan. Dopo tanta presenza estera le cose sono tornate come prima. Non si è riusciti a costruire e fornire i mezzi necessari, parlo anche di training, per incrementare l’autodifesa del paese e combattere l’estremismo”.
Fatto sta che la presenza dei mercenari in Africa – i cui “servizi” sono richiesti non da Stati democratici ma da regimi - è un elemento che stride con la volontà dei paesi africani di stringere e avvantaggiarsi di nuove relazioni diplomatiche (alternative all’Europa) che implichino crescita economica e vantaggi reciproci. Entrare con le armi, peggio che mai utilizzate da forze mercenarie, non è certo una garanzia per le popolazioni e per la tenuta democratica degli Stati.
L’Africa è comunque tornata una priorità per la Russia. E ad affermarlo è stato lo stesso Putin nel corso di un’intervista alla Tass in occasione del summit con i leader africani a Sochi nel 2019. In quell’occasione il capo del Cremlino sottolineava l’intenzione di aumentare ulteriormente “i contatti tra i servizi speciali e le forze dell'ordine della Russia e dei Paesi africani” nel campo, tra gli altri, della lotta al terrorismo. Chissà se tra i servizi speciali includesse il gruppo Wagner… Ma in quella intervista – che fu la base dei dialoghi nel primo summit di tale portata – si ricorreva all’immagine di un Occidente predatore nei confronti delle risorse del Continente africano in contrasto con le offerte russe di partnership, reciprocità, mutuo interesse.
Di sicuro la presenza russa in Africa trae vantaggio dalle tensioni – il caso di Mali e Francia è particolarmente evidente – con ex alleati ma pur sempre ex colonizzatori che tentano in modi traversi di mantenere quel potere particolare sul Continente. E in questo frangente, quello che sta accadendo, secondo alcuni analisti (e non da oggi) è che la Russia - e del resto la Cina - stanno facendo per molti aspetti ciò che i paesi occidentali hanno fatto per molto più tempo. Vale a dire garantirsi l'accesso alle risorse e ai mercati africani e cercare un più forte allineamento diplomatico e strategico con il Continente nelle sedi globali. E questo vale l’utilizzo di mezzi leciti ma anche disdicevoli. L’importante è farsi strada in una situazione oggi abbastanza fluida come è la geopolitica africana. Questo non vuol dire che i leader africani stiano ingenuamente preferendo una rete (o un cappio?) all’altra. Significa che hanno capito che i tavoli da gioco sono aperti, che l’Europa e l’Occidente in genere sono indeboliti – ancora stretti nelle dinamiche di conflitti a danni altrui e ritorsioni – e che ora bisogna opportunisticamente lavorare ad alleanze alternative. Se a pagarne il prezzo saranno le libertà democratiche e cittadini inermi, non sembra dopotutto essere un grosso problema.
Aggiornamento 26 maggio 2022: Abbiamo aggiornato l'articolo con la notizia rilanciata dal Guardian che i mercenari russi avrebbero usato mine e trappole esplosive in Libia contravvenendo al diritto internazionale.
Immagine in anteprima: una statua raffigurante militari russi eretta a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, via Twitter