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Aborto e non solo: le argomentazioni dei gruppi anti-scelta non hanno alcuna base scientifica

28 Maggio 2024 12 min lettura

Aborto e non solo: le argomentazioni dei gruppi anti-scelta non hanno alcuna base scientifica

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Sul volantino dell’organizzazione americana contro l’aborto Rehumanize International, si legge: “Se sei incinta o pensi di esserlo, meriti di ricevere tutte le informazioni. Esistono risorse che possono aiutarti a fare la scelta migliore per te e per tuo figlio”. Tra le informazioni elencate, si citano i rischi che, secondo l’associazione, l’aborto può provocare: infezioni, emorragie, cicatrici, aumento dell’uso di droghe e del rischio di suicidio, disturbo da stress post-traumatico. “La comunità scientifica ha raggiunto un accordo: la vita comincia dal concepimento”, dicono sul loro sito.

Rehumanize International si definisce “organizzazione per i diritti umani dedita alla creazione di una cultura di pace e vita”, non è di carattere religioso e utilizza fatti pseudoscientifici per portare avanti la sua battaglia di condanna all’aborto e “difesa” della vita. Non è però l’unica organizzazione anti-scelta che utilizza la scienza per motivare le proprie battaglie: riconoscendo che il solo ricorso alla fede non sarebbe più stato sufficiente, anche molti gruppi religiosi hanno introdotto argomentazioni “scientifiche” nelle loro strategie di comunicazione.

“Dati oggettivi”, “evidenza dei fatti” e “congiura del silenzio” portata avanti da chi “vuole occultare la realtà sull’aborto”, è ciò che ad esempio si legge sul sito dell’associazione Pro Vita & Famiglia. Di fatti oggettivi ed evidenze scientifiche però nelle argomentazioni dei gruppi contro l’aborto sembra esserci ben poco.

Il concepimento, il feto e la nascita di una vita

Secondo i movimenti anti-scelta, sia religiosi sia laici, la vita comincia con il concepimento, ed è da lì che va difesa. Pro Vita & Famiglia specifica anche che fin da quando “ha una decina di cellule”, il prodotto della fecondazione “già dialoga con la madre”; dopo 3 settimane “si formano i lobi del cervello” e l’embrione “sente la voce della mamma e prova un profondissimo dolore quando un oggetto esterno pone fine alla sua esistenza”. In realtà, la fecondazione e lo sviluppo dell’embrione e poi del feto hanno un funzionamento molto più complesso e tempi più lunghi rispetto a ciò che viene presentato dai gruppi anti-scelta.

Tenendo a mente che in Italia è possibile interrompere volontariamente una gravidanza entro la nona settimana con aborto farmacologico ed entro i primi 90 giorni (12 settimane circa) con metodo chirurgico, proviamo a capire cosa succede in queste prime fasi.

Innanzitutto è difficile conoscere la data esatta del concepimento, tant’è che per tenere traccia delle settimane di una gravidanza si considera il primo giorno dell’ultima mestruazione, anche se è durante l’ovulazione (circa 14 giorni dopo) che la fecondazione può avvenire. La data del rapporto sessuale e il momento della fecondazione non necessariamente coincidono, poiché gli spermatozoi possono sopravvivere fino a 4 giorni. Dalla fecondazione dell’ovocita e formazione dello zigote all’impianto nell’utero passano ancora circa 6 o 7 giorni. Lo sviluppo dell’embrione e del feto avviene poi in maniera piuttosto lenta. È tra la quinta e l’ottava settimana di gravidanza, ad esempio, che iniziano a formarsi gli organi, ma serve tempo per farli crescere e diventare del tutto funzionali: i polmoni e il cervello, ad esempio, hanno bisogno di diverse settimane e mesi per potersi sviluppare completamente. Attorno alla decima settimana di gravidanza, infine, l’embrione è considerato feto.

“Prima della 23ª settimana e quindi fino ad almeno il quinto mese di gravidanza, sappiamo benissimo che non c’è possibilità di vita autonoma da parte del feto, che è completamente dipendente dalla madre, e non è scindibile dalla sua volontà”, ha spiegato a Valigia Blu la ginecologa endocrinologa Valeria Dubini. “Poche cellule possono essere considerate un progetto, ed è bello pensarle come tale quando è effettivamente desiderato e condiviso in una relazione che lo consente. Non possono però di certo essere considerate una persona. Questa è una posizione semplicemente ideologica, che non ha alcuna base scientifica”. 

Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili non parlano infatti di possibilità di “dialogo” tra la donna e il prodotto del concepimento ed è improbabile che negli stadi iniziali di una gravidanza un feto - o tantomeno un embrione - percepisca dolore, come sostengono invece i gruppi anti-scelta. “L’embrione non ha ancora un sistema nervoso sviluppato, cosa che avviene molto successivamente, e gli stimoli nocicettivi non possono essere percepiti. Né ha un cervello in grado di elaborarli”, ha spiegato la dottoressa Dubini. La rete di connessioni neurali necessaria per percepire dolore, ad esempio, inizia a svilupparsi dalla 28° settimana.

È la prospettiva comunque a essere sbagliata. Sarah Salkeld, direttrice clinica associata dell’organizzazione che si occupa di diritti riproduttivi e aborto sicuro MSI Reproductive Choices UK, ha detto a Valigia Blu: “Le persone hanno idee diverse su quando una vita umana abbia inizio, e questo è dovuto a molti fattori, tra cui la religione e le esperienze personali” e “in quanto associazione per la scelta, rispettiamo il diritto di tutti di mantenere le proprie posizioni e prendere qualunque decisione sia giusta per loro”. La strategia comunicativa delle organizzazioni contro l’aborto però ha tutto un altro scopo: riconoscere un embrione o un feto come un essere umano con dei diritti, “a prescindere da ciò che dice la scienza medica, è una tattica spesso usata dai gruppi anti-scelta per eliminare l’autonomia delle donne sul proprio corpo e per denigrare e stigmatizzare chiunque prenda in considerazione l’aborto”, ha spiegato Salkeld.

“La differenza tra chi è per la scelta e chi sostiene di essere per la vita, in realtà, è che chi è davvero per la scelta non condiziona le decisioni degli altri”, ha detto la dottoressa Dubini.

Le conseguenze fisiche e mentali dell’aborto sulle donne

L’aborto, dicono i gruppi anti-scelta, non è un problema solo per chi non nasce ma anche per la donna che vi si sottopone. Tra le conseguenze citate e molto diffuse vi è il presunto rischio di sviluppare cancro al seno e di subire una serie di complicazioni mediche anche a lungo termine. In realtà, si tratta di teorie più volte smentite. I pochi studi che hanno suggerito una relazione tra IVG e cancro al seno non possono essere considerati attendibili perché presentano delle limitazioni nel modo in cui sono stati condotti, come il fatto che si basassero su auto-dichiarazioni e resoconti delle pazienti. Ricerche più attendibili invece hanno escluso un rapporto causale tra aborto volontario e tumore al seno. Per quanto riguarda invece altre complicanze, l’OMS parla di un rischio al di sotto dell’1% e di un tasso di mortalità per aborto sicuro al di sotto di quello dovuto al portare a termine una gravidanza.

Per quanto riguarda invece la salute mentale, la credenza più diffusa dai gruppi anti-scelta è quella che esista una “sindrome post-aborto”, che tra le altre cose provocherebbe sensi di colpa, angoscia, tristezza e pensieri suicidi alle donne che si sono sottoposte a un aborto volontario. Si parla di “trauma subito dalla madre” e di “disagio individuale e familiare”; della figura del “padre mancato” e della sofferenza che un’interruzione di gravidanza provocherebbe a ogni membro della famiglia, inclusi i “fratelli del bambino abortito”. Ad oggi però non esistono studi attendibili che dimostrino l’esistenza di questo disturbo.

Piuttosto, ad avere un impatto sulla salute fisica e mentale sarebbero lo stigma attorno all’aborto, la mancanza di servizi di IVG e il dover portare a termine una gravidanza indesiderata. “Laddove non c’è la possibilità di un aborto sicuro e una legge che garantisca l’interruzione di gravidanza legale, l’aborto è causa di morte materna”, ha ricordato la dottoressa Dubini. L’OMS infatti specifica che limitare l’accesso ai servizi di interruzione di gravidanza volontaria non riduce il numero di aborti e piuttosto incrementa quelli clandestini e pericolosi per la salute e la vita delle donne che vi si sottopongono.

I costi dell’aborto

Nel 2021, alla Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA) di Roma è stato presentato uno studio sui costi di applicazione della legge 194/1978. Patrocinato dalla Società Italiana per la Bioetica e i Comitati Etici, l’Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici, la Fondazione Il Cuore in una Goccia e Pro Vita & Famiglia, lo studio è stato descritto da chi lo ha coordinato e redatto come il tentativo di “suscitare un dialogo aperto e costruttivo, basato su dati oggettivi, su una legge che ancora oggi divide profondamente gli italiani, portandone alla luce alcuni aspetti controversi”. 

Gli “aspetti controversi” sarebbero i costi elevati che la legge 194 ha generato rendendo l’aborto legale e che, soprattutto “in un contesto di emergenza” dato dalla pandemia e di “crescente limitazione delle risorse” sanitarie, andrebbero tenuti in considerazione. Nonostante sia ripetuto più volte che i risultati riportati siano oggettivi, non si può davvero definire questo studio come tale. Tante ad esempio sono le imprecisioni e le inesattezze, che riprendono le credenze diffuse dai gruppi anti-scelta per condannare aborto e contraccezione. Tra queste, ad esempio, vi sono: la definizione della contraccezione di emergenza come potenziale causa di “aborti precocissimi”, nonostante il suo funzionamento si basi sul prevenire e non sull’interrompere una gravidanza; e i “costi ingenti a carico del SSN” dovuti agli “effetti avversi a lungo termine dell’aborto”, tra cui infertilità, cancro al seno e problemi psichici a cui la donna e chi la circonda potrebbero andare incontro: tutte questioni di cui però, come detto, non esistono evidenze scientifiche.

Tra i costi considerati nel report per valutare l’impatto della Legge 194 sul sistema sanitario poi vengono inclusi: l’ecografia di controllo iniziale, perché “anche se non strettamente necessaria per l’esecuzione dell’aborto” ne costituisce “il primo passo”; i test diagnostici prenatali; l’aborto effettuato dopo i 90 giorni, che in Italia è possibile nel caso in cui la gravidanza, il parto o eventuali anomalie o malformazioni del feto costituiscano un grave pericolo per la salute e la vita della donna; e la presenza di complicazioni che però, come già spiegato, sono minime. Anche il linguaggio non è oggettivo: l’aborto è descritto come ciò che “uccide un figlio” e gli operatori che lo praticano come “medici che uccidono bambini in maniera continua e regolare”.

Come spiega la dottoressa Dubini, è piuttosto il non garantire aborti sicuri a generare costi elevati: “Se una donna non può, non vuole o non è nelle condizioni di portare avanti una gravidanza, non si ferma davanti al fatto che non ci sia una legge. Anche nel nostro paese, prima della 194, le donne si sono sottoposte alle peggiori torture a causa di una gravidanza indesiderata, sono morte per questo, o sono spesso andate in ospedale per emorragie e con bisogno di trattamenti. Sicuramente questo ha un costo molto maggiore, prima di tutto in termini di umanità e poi di costi sanitari”. Inoltre, aggiunge la ginecologa, “dall’introduzione della legge 194, il numero di aborti in Italia si è ridotto”: il tasso di abortività nel nostro paese è infatti tra i più bassi al mondo.

Se la preoccupazione dei gruppi anti-scelta, come si legge nello studio, è lo spreco di risorse in un periodo di crisi per la salute e la sanità, lo stesso approccio dovrebbe allora essere riservato ai fondi pubblici regionali stanziati per sostenere le loro attività: un caso tra tutti è il Piemonte, che nel 2022 ha lanciato il fondo “Vita nascente” da 400 mila euro per sostenere le associazioni che operano per la promozione del “valore sociale della maternità” e per la “tutela della vita nascente”. Il fondo è stato poi raddoppiato l’anno successivo.

La contraccezione

Anche la contraccezione è condannata dai gruppi anti-scelta. Definita come ciò che impedisce il concepimento, viene suddivisa in metodi “artificiali” e metodi “naturali” o anche metodi “abortivi” e “non-abortivi”. Tra i primi, sono ad esempio inclusi la pillola anticoncezionale, l’anello contraccettivo e i dispositivi intrauterini IUD; tra i secondi invece la posizione può variare leggermente. C’è infatti chi considera i preservativi come un “non abortivo”, ma in realtà il pensiero più diffuso accetta esclusivamente i metodi detti “naturali”.

Secondo le associazioni anti-scelta religiose infatti i rapporti sessuali devono avere come primaria finalità la procreazione, per cui qualunque strumento che la limiti o impedisca è definito come “illecito”. Alla contraccezione e in particolare alla pillola anticoncezionale viene poi attribuita una deresponsabilizzazione da quello che è appunto il fine principale dell’atto sessuale. La Conferenza statunitense dei vescovi cattolici USCCB, ad esempio, sostiene che fin dalla sua introduzione negli anni Sessanta la pillola abbia gettato molte donne in povertà: “Dicendo che la pillola avrebbe impedito una gravidanza, le donne avevano rapporti sessuali senza promessa di matrimonio. Poiché le donne avevano il controllo sulla decisione di prevenire una gravidanza, partorire o abortire, molti uomini ritenevano di non essere responsabili dei figli concepiti al di fuori del matrimonio”, lasciando così le donne a dover crescere da sole i loro figli. 

In realtà però per molte donne l’introduzione della pillola ha significato poter scegliere del proprio corpo, programmare, ritardare o evitare gravidanze e avere quindi il tempo per dedicarsi agli studi, alla carriera e alla creazione di un futuro diverso. 

Un altro punto su cui si concentrano le associazioni anti-scelta è quello che riguarda il benessere psicofisico delle donne: i metodi definiti “artificiali”, dicono tanto i gruppi religiosi quanto quelli laici, sarebbero pericolosi per la loro salute.

Tra le argomentazioni più diffuse vi è il rischio cancerogeno attribuito alla pillola anticoncezionale. Per comprendere quanto ci sia di vero in questa affermazione, bisogna prima di tutto conoscere il contesto. Sul mercato oggi esistono due teipi di pillola: la cosiddetta minipillola, che contiene solo ormoni progestinici e che viene prescritta poco e solo in casi particolari; e la pillola combinata, che contiene estrogeni e progestinici. Sul primo tipo non vi sono ancora molte ricerche, anche perché è meno diffusa, mentre è sulla pillola combinata che si concentrano i principali studi. Quello che possiamo dire oggi è che la pillola combinata, in alcune circostanze, potrebbe aumentare lievemente il rischio di cancro al seno, al fegato e alla cervice uterina.

Nel caso del tumore al fegato, si tratta di formazioni benigne e non maligne e potrebbe incidere anche un tempo di utilizzo della pillola prolungato nel tempo. Per quanto riguarda invece quello alla cervice uterina, il rischio potrebbe essere indiretto e legato all’infezione da HPV, perché tendenzialmente chi assume la pillola non utilizza il preservativo, che è utile a ridurre il rischio di contagio: contro l’HPV è comunque possibile vaccinarsi. È importante però ricordare che definire una sostanza cancerogena non implica sostenere che questa causerà un tumore sempre, in ogni contesto e circostanza e in qualunque essere umano: molto dipende infatti dal tipo e dai livelli di esposizione a una determinata sostanza, ma anche dai fattori di rischio e condizioni personali di partenza. 

A ciò va anche aggiunto che la maggior parte degli studi condotti sui contraccettivi ormonali si basano su prodotti diversi e con dosaggi molto più alti rispetto a quelli oggi in commercio, per cui è difficile applicare in maniera certa i risultati alla situazione attuale. Cancer Research UK, organizzazione indipendente di ricerca sul cancro, sottolinea inoltre che esistono cause e fattori che incidono sul rischio di tumore molto più della pillola, come ad esempio il fumo.

Per quanto riguarda invece gli effetti sulla salute mentale, oggi non si sa ancora molto e i risultati sono contraddittori, come spesso succede quando si parla di salute delle donne. Diverse ricerche condotte sull’argomento sono state definite come non attendibili; uno studio danese ha rilevato una possibile associazione tra contraccettivi e depressione, ma non un rapporto di causalità; e molte donne riportano un forte impatto sull’umore. L’AIFA nel frattempo nel 2019 ha aggiornato le informazioni di sicurezza sui contraccettivi ormonali, specificando che “le pazienti devono essere informate sulla necessità di contattare il proprio medico in caso di cambiamenti d’umore e sintomi depressivi, anche se questi si verificano poco dopo l’inizio del trattamento”. Ciò che sappiamo per certo però è che ogni persona può reagire in maniera differente e che oggi sul mercato esiste un’ampia varietà di opzioni tra cui scegliere.

Trattandosi di farmaci a tutti gli effetti, d’altro canto, i contraccettivi ormonali possono avere degli effetti sull’organismo ed è per questo che per prescriverli è necessario un consulto medico. Il medico dovrà infatti esporre alla persona interessata i rischi e i benefici dei contraccettivi e valutare insieme a lei se e quale utilizzare, basandosi anche sulla sua storia medica e familiare per individuare eventuali fattori di rischio. 

Proprio la valutazione del rapporto rischi/benefici però è stata criticata dal gruppo Pro Vita & Famiglia, che la considera come “un’impostazione” che “ha molto poco di scientifico” e che non lascia “vera libertà di scelta per le donne”. In realtà, il rapporto rischi/benefici è ciò che ogni medico deve valutare prima di prescrivere qualunque farmaco, considerando le ragioni per cui un medicinale può o non può essere proposto, la storia clinica del paziente o della paziente e la sua consapevolezza e disponibilità ad accettare eventuali rischi.

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Piuttosto, sostiene la dottoressa Dubini, quello sugli effetti della pillola è un dibattito che “ha molto condizionato la nostra cultura sulla contraccezione, tanto che anche rispetto alla media europea la pillola anticoncezionale in Italia è poco diffusa”. Ancora troppe persone nel nostro paese invece scelgono il coito interrotto, che non possiamo però considerare un metodo di contraccezione dato che non è né sicuro né affidabile. “Ciò che si dice troppo poco”, dice piuttosto Dubini, “è che la pillola anticoncezionale in realtà ha anche dei vantaggi sulla salute”, dal momento che può ridurre in maniera significativa il rischio di cancro dell’ovaio, dell’endometrio e del colon-retto. Inoltre, viene anche prescritta in caso di endometriosi, ovaio policistico e disturbo disforico premestruale.

Anziché allora manipolare argomentazioni scientifiche per decidere sul corpo delle donne e limitare la loro libertà di scelta, è invece necessario garantire aborti sicuri, contraccezione accessibile e ricerche sempre più accurate e affidabili: questo è l’unico modo per tutelare davvero la salute delle donne.

Immagine in anteprima: frame video euronews via YouTube

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