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Grecia, come sopravvive la speranza nell’inferno del campo profughi di Moria

20 Febbraio 2020 10 min lettura

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Grecia, come sopravvive la speranza nell’inferno del campo profughi di Moria

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Moria, il campo profughi dell'isola di Lesbo, è tristemente noto per il sovraffollamento e le condizioni di vita insostenibili a cui vengono sottoposti i migranti che tentano di raggiungere i paesi europei in cerca di fortuna e di una vita migliore lontana da guerre e conflitti. Secondo gli ultimi dati forniti dalle Nazioni Unite all'inizio del mese di febbraio a fronte di 2.200 posti disponibili, la struttura e gli spazi ad essa adiacenti accolgono più di 18.000 persone. Eppure, nonostante i forti disagi, le risse e le proteste la vita continua offrendo ogni giorno anche storie e testimonianze di resilienza, forza, coraggio, compassione e umanità.

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A raccontarle, sul Guardian, il giornalista Sam Wollaston che si è recato due volte a Lesbo “a caccia di speranza”, dopo che era arrivata al giornale una lettera di un operatore umanitario preoccupato che il racconto di quel luogo fosse inesorabilmente negativo, mentre per lui lavorare a Moria era stata un'esperienza incredibile durante la quale aveva avuto l'occasione di assistere ad atti di gentilezza di persone straordinarie che gli avevano dato fiducia nell'umanità.

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Nonostante avesse sentito parlare di condizioni disperate, sovraffollamento, incendi, disordini, minori non accompagnati, traumi, sfruttamento sessuale, stupri e omicidi Wollaston era determinato a capire se la situazione in cui versa Moria presentasse dei risvolti positivi e non avrebbe potuto farlo se non visitando il campo personalmente.

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Durante il suo primo soggiorno, all'arrivo, è stato accolto da un caloroso benvenuto: gli è stata offerta una focaccia calda appena sfornata da uno dei tanti forni di Moria, alcuni bambini gli hanno donato dei semi di girasole e un gruppo di ragazzi iracheni, in piedi attorno a un fuoco, gli ha chiesto di fumare insieme il narghilè.

Se la maggior parte delle persone incontrate da Wollaston giungevano dall'Afghanistan tanti sono i profughi presenti nel campo provenienti da numerosi altri paesi tra cui Iraq, Siria, Somalia, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Sud Sudan, Nigeria, Burundi, Zimbabwe e persino Myanmar. Comunicare, perciò, non è semplicissimo. La lingua in cui esprimersi può rappresentare un ostacolo e una difficoltà. Rispetto a certi argomenti, però, come ad esempio il calcio, il linguaggio dei segni è universale e diventa facilmente comprensibile. E così è stato per Wollaston.

La prima famiglia che ha ospitato il giornalista è stata quella di Abdullah e Gulbdan Najafi, insieme ai loro figli Ali Reza di 15 anni, Mohammad di 14 e Meraj di 5. Faezh, la figlia sedicenne, non era presente durante l'incontro perché attendeva, in fila, di farsi una doccia fredda e l'attesa, spesso, dura ore. La tenda dove vive la famiglia Najafi è piccola ma pulita e ordinata. Gli effetti personali sono appesi negli zaini, accanto alla bandiera afgana e a un paio di peluche. In un bollitore elettrico (attaccato chissà a quale fonte di energia) l'acqua era pronta per il tè che è stato servito con mandorle e biscotti.

Abdullah e Gulbdan hanno lasciato l'Afghanistan venti anni fa. I figli sono stati cresciuti in Iran prima di mettersi in viaggio verso la Turchia e poi la Grecia. Durante la chiacchierata i ragazzi hanno mostrato a Wollaston un breve video in cui si vede il loro approdo su una spiaggia a nord di Lesbo. Nella ripresa sono tutti stremati ma felici, perché finalmente giunti in Europa, ma inconsapevoli di ciò che li avrebbe attesi.

Intorno a loro, però, come a tante altre famiglie c'è molta umanità da parte dei numerosi volontari che scelgono di andare a Moria per dare una mano. Si tratta, per lo più, di giovani che considerano il campo un posto inaccettabile. Non solo questi ragazzi non rimangono indifferenti di fronte a quella che definiscono “la vergogna d'Europa” ma ci tengono a fare, impegnandosi in prima persona, la differenza. Tra loro c'è chi, pensando di trattenersi qualche settimana, è poi rimasto a Lesbo un anno, in certi casi anche due.

Per questo motivo una moltitudine di persone di diverse nazionalità è in continuo movimento nel campo e fuori: signore danesi che distribuiscono vestiti, un gruppo di olandesi di fede cristiana che distribuisce giocattoli, un uomo di mezza età britannico, con esperienza in ingegneria delle acque, che dirige una squadra che si occupa della manutenzione delle docce, dei servizi igienici e delle fognature.

A qualche chilometro da Moria si trova One Happy Family (OHF), il cui motto è “lavoriamo con le persone, non per le persone”. Si tratta di un centro gestito da varie organizzazioni, insieme a molti volontari rifugiati, che è dotato di centro medico, parco giochi, scuola, palestra, spazio per le donne, caffè, biblioteca, giochi da tavolo, postazione per ricaricare i cellulari e negozio di riparazioni elettriche.

La scuola di One Happy Family via OHF
La biblioteca di One Happy Family via OHF

C'è anche un orto dove volontari rifugiati, tra cui Sima Mohammedi e Reza Rezaie, coltivano barbabietole, spinaci, rape, bietole, fagioli ed erbe varie con cui viene cucinato ogni giorno il pranzo per circa 1.200 persone.

L'orto di One Happy Family via OHF

Zekria, invece, ha 40 anni ed è fuggito dall'Afghanistan con la moglie e cinque figli. Arrivato sull'isola l'anno scorso, dopo aver attraversato di notte con una piccola barca il tratto che separa la Turchia dalle isole greche del mar Egeo rischiando la vita, non riuscendo a iscrivere i suoi bambini in una delle scuole gestite dalle ONG perché tutte piene, invece di rimanere in attesa ha deciso di crearne una sua.

Professore di legge all'università di Kabul, Zekria ha comprato una lavagna, alcuni pennarelli e a marzo scorso, all'ombra di un ulivo, ha iniziato a insegnare la lingua inglese che è importante perché “anche se le persone rimangono bloccate qui per un anno, due anni o anche di più, nessuno vuole restare per sempre". Qualche volta ha anche impartito lezioni private presso le tende dove alloggiano i profughi.

Appena si è sparsa la voce, cittadini di nazionalità afghana, siriana, irachena e altre ancora hanno espresso il desiderio di partecipare alle lezioni e poiché la domanda era superiore all'offerta Zekria prima ha formato un gruppo di lavoro, poi ha costruito un'aula e infine ha aperto le iscrizioni. «Quando sono arrivato quel venerdì alle 7.30, in fila c'erano più di 600 persone», ha raccontato.

Chiunque avesse voglia di imparare sarebbe stato accolto, anche a costo di formare classi di 50 studenti. Infatti nessuno è stato escluso.

Attualmente sono disponibili tre aule e il gruppo docenti è formato da 30 persone che insegnano a oltre 1.000 studenti inglese, tedesco, francese e greco, chitarra e arte.

L'ultimo progetto a cui Zekria si è dedicato è stata la creazione di una biblioteca a Moria. I libri sono stati per lo più donati da operatori umanitari e ONG. Alcuni più pertinenti (come Catch-22, il romanzo di Joseph Heller fortemente critico nei confronti della guerra), altri meno (la guida di Lonely Planet sulla Cina).

Quale sarà il destino di Zekria e della sua famiglia è difficile da immaginare. La loro domanda di asilo è stata respinta più volte. L'uomo sospetta che il diniego abbia a che fare con la sua attività educativa. Temendo il rimpatrio è scappato via da Lesbo e ha raggiunto la terraferma dove vive, con la famiglia, in una casa abusiva senza riscaldamento né elettricità. Tenterà di attraversare via terra il confine per arrivare in Albania o in Macedonia. Ha affidato la scuola e la biblioteca al gruppo di lavoro con il quale collaborava e con cui è rimasto in contatto.

Nel gruppo di insegnanti della scuola fondata da Zekria c'è anche Azita, 19enne, afghana. È una ragazza saggia e ambiziosa che parla bene inglese.

È arrivata a Moria l'estate scorsa, con i genitori e tre fratelli più piccoli, dopo una traversata terrificante e pericolosa. «Non avrei mai pensato che saremmo sopravvissuti», dice.

Una volta arrivati nel campo profughi la sua famiglia si è imbattuta nel freddo, nella sporcizia, nelle risse. Uscire di sera è impossibile, quando piove diventa tutto orribile e impraticabile. Non si può immaginare come le persone facciano a tollerare tutto questo. La vita è davvero difficile.

Azita sogna di andare in Svizzera perché ha sentito che è un paese bellissimo che accoglie i rifugiati. Vorrebbe diventare medico. Ha già ottenuto i documenti di viaggio ma il resto della famiglia è ancora in attesa.

Nel frattempo insegna inglese ai bambini. «Mi diverto molto perché riesco a farli sorridere. Il mio obiettivo è farli ridere. So che se qualcuno ride non significa che non ha problemi. Ma abbiamo bisogno di speranza. Tutti, specialmente i bambini, hanno bisogno di speranza perché a volte ne rimaniamo senza in questa brutta situazione. Forse imparare l'inglese può offrirgli qualche speranza per il futuro. Potrebbe aiutarli ad andare in un altro posto migliore».

Ali, 23 anni, è arrivato da solo a Moria nel 2016 da Damasco, Siria. I suoi genitori avevano già precedentemente raggiunto la Germania. Ha iniziato a collaborare nel campo diventando volontario della ONG olandese Movement On The Ground e ha imparato la lingua inglese lavorando con persone di vari paesi europei.

Dopo circa due anni Ali ha ottenuto i documenti di viaggio per ricongiungersi con la famiglia in Germania. «Ma il mio cuore, i miei pensieri, i miei sentimenti sono rimasti qui, per cui ho deciso di tornare», dice. Ora lavora a Moria come direttore generale di Movement On The Ground. Attraversando il campo saluta tutti in lingue diverse cercando di risolvere i problemi dei nuovi arrivati. «Io li capisco, sono anch'io un rifugiato», racconta.

Quando si apre una discussione Ali cerca di far ragionare le parti coinvolte ragionandoci insieme e facilitando il dialogo per evitare che lo scontro degeneri, poiché crede che possa esserci amore e comunicazione tra persone di diversi paesi. Stando tutti insieme, mangiando o semplicemente chiacchierando. «Possiamo imparare gli uni dagli altri, ispirarci a vicenda, sostenerci a vicenda. E questo è bellissimo», dice, avendo sposato la filosofia della ONG per cui lavora che tratta le persone con dignità e rispetto e le aiuta a responsabilizzarsi.

Tra i volontari nel campo c'è anche Susila Cruyff, figlia del tre volte Pallone d'Oro Johan Cruyff, che, con la fondazione che porta il nome del padre, si occupa di sviluppare attività sportive per bambini bisognosi in tutto il mondo: «Mio padre era solito pensare che lo sport sia qualcosa di più dello sport», dice Susila a Wollaston. «Fa bene al fisico, ma anche alla salute mentale».

La fondazione si è impegnata a costruire a Lesbo due campi: uno a Moria, uno altrove sull'isola per gli abitanti,  con la speranza che lo sport riesca a costruire ponti tra rifugiati e residenti instaurando una serie di relazioni che finora sono state tutt'altro che facili.

Non è stato così per Nikos Katsouris e Katerina Koveou, una coppia greca che dal 2014 presta soccorso ai rifugiati. È stato proprio in quell'anno che Katsouris, allora pescatore, rientrando con il furgone con cui aveva trasportato il pesce appena venduto ha incontrato un gruppo di rifugiati siriani appena sbarcati, bagnati, stanchi e affamati, tra cui una donna incinta e un bambino di circa 10 anni che viaggiava da solo. Colpito dalla scena che si era trovato di fronte spese i soldi che aveva appena guadagnato per comprare cibo e donò la sua giacca al bambino. Quando arrivò a casa e raccontò l'accaduto alla moglie, la donna preparò 40 pasti da distribuire insieme a tutte le coperte che c'erano in casa.

Ma la coppia non riuscì mai a raggiungere il gruppo di profughi che fu arrestato dalla polizia.

Da allora, però, i due hanno costantemente aiutato i rifugiati, adattandosi alle esigenze della situazione in continua evoluzione. Quando aprì il campo di Moria Katsouris e Koveou vi portarono sardine, pane, riso e verdure e offrirono pasti ai volontari nel loro ristorante. Successivamente hanno invitato al ristorante anche le famiglie del campo. «Cerchiamo di restituirgli ciò che gli altri gli hanno tolto», dice Katsouris. «Hanno preso le loro vite, i loro sorrisi, la loro umanità, la loro dignità. Tutte cose che abbiamo qui».

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Ma le autorità non sono rimaste a guardare. Poiché non è consentito avere un'associazione benefica e contemporaneamente gestire un'attività di ristorazione la coppia ha dovuto pagare una multa di 47.800 euro e da allora ha rinunciato al ristorante occupandosi esclusivamente della ONG Home for All. Ogni giorno marito e moglie accolgono rifugiati offrendogli un pasto, insegnandogli anche a cucinare, e consegnano cibo a minori e ammalati nel campo.

Katerina Koveou ha dovuto accettare l'idea di non poter aiutare tante persone. «All'inizio per me era un problema: volevo aiutarle tutte. Ma poi ho capito che probabilmente, così, non avrei aiutato nessuno». E allora si è detta: «Aiuta chi puoi e quando potrai fare di più, fallo».

foto in anteprima via Movement On The Ground

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